venerdì 31 luglio 2015

AGOSTO



Anticamente chiamato sextilis, il mese fu rinominato augustus dal Senato romano, nell'anno 8 a.C., in onore dell'imperatore Augusto, dal quale prende il nome anche il Ferragosto (feriae Augusti). Sempre il senato aggiunse un giorno alla durata, sottraendolo da febbraio, per renderlo uguale a luglio (dedicato a Cesare).
 
D'agosto moglie mia non ti conosco è un proverbio popolare a sfondo laico, diffuso in molte zone d'Italia e d'Europa e soprattutto molto antico. In questa forma compare il detto popolare più contemporaneo di una lunga serie di proverbi antichi che consigliavano ai mariti di non strafare e di non stancarsi troppo nel periodo caldo.

Già Esiodo ricordava che quando sbocciava l'estate le mogli sono tutte calde e i mariti fiacchi, e consigliava come rimedio il vino di Biblo e un luogo riparato all'ombra. Anche il poeta Alceo confermava che le donne, in agosto, sono piene di desiderio mentre gli uomini mostrano ben poco vigore.
 
Il termine Ferragosto deriva dalla locuzione latina feriae Augusti (riposo di Augusto) indicante una festività istituita dall'imperatore Augusto nel 18 a.C. che si aggiungeva alle esistenti e antichissime festività cadenti nello stesso mese, come i Vinalia rustica o i Consualia, per celebrare i raccolti e la fine dei principali lavori agricoli. L'antico Ferragosto, oltre agli evidenti fini di auto-promozione politica, aveva lo scopo di collegare le principali festività agostane per fornire un adeguato periodo di riposo, anche detto Augustali, necessario dopo le grandi fatiche profuse durante le settimane precedenti.

Nel corso dei festeggiamenti, in tutto l'impero si organizzavano corse di cavalli e gli animali da tiro, buoi, asini e muli, venivano dispensati dal lavoro e agghindati con fiori. Tali antiche tradizioni rivivono oggi, pressoché immutate nella forma e nella partecipazione, durante il "Palio dell'Assunta" che si svolge a Siena il 16 agosto. La stessa denominazione "Palio" deriva dal "pallium", il drappo di stoffa pregiata che era il consueto premio per i vincitori delle corse di cavalli nell'Antica Roma.

Nell'occasione, i lavoratori porgevano auguri ai padroni, ottenendo in cambio una mancia: l'usanza si radicò fortemente, tanto che in età rinascimentale fu resa obbligatoria nello Stato Pontificio.

La tradizione popolare della gita di Ferragosto nasce durante il ventennio fascista. A partire dalla seconda metà degli anni venti, nel periodo ferragostano il regime organizzava, attraverso le associazioni dopolavoristiche delle varie corporazioni, centinaia di gite popolari, grazie all'istituzione dei "Treni popolari di Ferragosto", con prezzi fortemente scontati.

L'iniziativa offriva la possibilità anche alle classi sociali meno abbienti di visitare le città italiane o di raggiungere le località marine o montane. L'offerta era limitata ai giorni 13, 14 e 15 agosto e comprendeva le due formule della "Gita di un sol giorno", nel raggio di circa 50-100 km, e della "Gita dei tre giorni" con raggio di circa 100–200 km.

Durante queste gite popolari la maggior parte delle famiglie italiane ebbe per la prima volta la possibilità di vedere con i propri occhi il mare, la montagna e le città d'arte. Nondimeno, dato che le gite non prevedevano il vitto, nacque anche la collegata tradizione del pranzo al sacco.

Il Sole è nel segno del Leone approssimativamente tra il 23 Luglio e il 22 Agosto.

Il pianeta dominante è il Sole, l'elemento è il fuoco e la qualità è fissa.
Come suggerito dal suo simbolo, il segno del Leone e' il piu' fiero dello Zodiaco. Il suo modo di porsi è principesco. E' naturalmente elegante e il suo fascino naturale lo porta spesso a posizioni di comando, se non di dominio. Il Leone ama sentirsi al centro dell'attenzione e puo' arrivare a soffrire, se non gli si dà la corda che e' convinto di meritare. E' talmente abituato ad avere carisma che, affinchè gli venga riconosciuto, puo' cedere all'adulazione di personaggi di dubbio merito.
Il Leone sa organizzare il lavoro come pochi altri, rispetto ai quali non è più informato, ma solo più carismatico. Tende a lasciare ad altri la parte più operativa di ogni attività, di ciascun progetto, e guarda tutto dall'alto.
Il Leone ha un modo di porsi verso le sfide che denota un coraggio formidabile, che non ha rivali. Conscio della propria diversità, si lancia in prove che spaventerebbero chiunque.
La grandezza del Leone si misura anche nei termini della sua generosità. Si farebbe in quattro pur di aiutare chi è meno fortunato di lui. Inoltre, non è un re che accetta provocazioni da chi ritiene inferiore. Se subisce un torto, regalmente perdona e non fa pesare le manchevolezze altrui. In questo, è doppiamente encomiabile, perchè la sua natura di segno di Fuoco lo porterebbe a reagire con stizzito orgoglio alle provocazioni.
Anatomicamente, il segno del Leone corrisponde all'occhio destro, al sistema circolatorio, con particolare attenzione al cuore: non potrebbe essere altrimenti, vista la sua natura coraggiosa. Deve stare molto attento a mangiare in maniera assolutamente equilibrata, evitando i grassi e tutto quello che potrebbe danneggiare le arterie, soprattutto in età avanzata.
Nei sentimenti, sa essere fedele e affettuoso. Grazie alla sua natura regale, non si lascia andare a relazioni che debbano rimanere nascoste. Per questo motivo, difficilmente tradisce. Se viene tradito, il suo orgoglio rimane ferito quasi a morte, ma sa riprendersi in fretta grazie alla sua forza vitale e grazie alla sua principesca capacità di perdonare.

Intelligente, riflessivo, concreto e pignolo, il nato sotto il segno della Vergine ha un grande senso della responsabilità. È sereno ed appagato solo quando assolve ai suoi doveri quotidiani con serietà e scrupolo. Talvolta può essere ossessionato dal desiderio della perfezione, che ricerca in sé e negli altri. Attento ai particolari, il suo modo di comportarsi è preciso ed ordinato, e sempre frutto di mature riflessioni; ciò, tuttavia, gli impedisce di essere rapido nelle decisioni o, quanto meno, insinua l'ombra del dubbio nella sua mente. Detesta la violenza in ogni sua forma e cerca di ricomporre qualsiasi discordia con animo pacato e pronto al perdono. Non mette mai in discussione le sue certezze, che sono per lui una pietra miliare dell'esistenza ed un margine di sicurezza di cui ha bisogno per vivere tranquillo.

Il carattere naturalmente riservato gli impedisce di mostrare i suoi veri sentimenti, e nel campo degli affetti è più riflessivo che emotivo. A volte sembra persino avere paura dell'amore, intimamente però, ha bisogno di un rapporto serio e duraturo. Non si pensi che per questo sia disponibile a farsi prendere al laccio dal primo venuto. Al contrario, abbasserà le sue difese solo dopo essersi convinto di stare di fronte proprio a quella persona affidabile, positiva, intelligente, dotata di bella presenza, buone maniere e perfetto autocontrollo... che va cercando per farne il compagno o la compagna della sua vita. Quando però non ci saranno più dubbi ed il muro difensivo da lui eretto cadrà, incanterà il partner con i suoi ritmi lenti ed equilibrati, dandogli un senso di sicurezza ed armonia. La sua riservatezza, il suo fascino d'altri tempi e la capacità di devozione saranno poi garanzia di stabilità e durata nel tempo. Come gli piace corteggiare? La sua ritrosia lo porta ad avere delle difficoltà iniziali nell'esprimere i suoi sentimenti: deve prima vagliare la situazione, avvicinandosi alla persona che lo interessa con molta prudenza. Comincia col cercarne l'amicizia in modo da poterla scrutare con tranquillità, se quello che vede gli piace... (compreso il suo conto in banca, dicono i più maligni) si decide a dichiarare il suo amore. Come ama essere corteggiato? Fingere o mimetizzarsi sarebbe un grave errore, se invece possedete tutti i requisiti richiesti, dimostrategli simpatia, interessatevi ai suoi problemi, dategli saggi consigli, ma niente di più. Potreste spaventarlo o risvegliare il suo acuto senso critico, svelando prima del tempo le vostre reali intenzioni: ricordate che adora la discrezione, la riservatezza, l'equilibrio e soprattutto la fedeltà. E se scopre che c'è un altro? La sua logica non farà concessioni ai sentimenti, ed esigerà le più dettagliate spiegazioni e le risposte più esaurienti possibili, altrimenti potrebbe diventare un inesorabile Otello.

Le sue parole d'ordine sono: diligenza, precisione, metodo, ordine e prudenza. Queste caratteristiche fanno del nato sotto il segno della Vergine un collaboratore fidato, un consigliere saggio che sa ben presto rendersi indispensabile. La modestia e l'autocritica tuttavia, gli impediscono di mettere in luce le sue qualità: rischia di essere l'eterno secondo, il vice di grande intelligenza ed acutezza mentale, ma senza la stoffa del capo. Le professioni in cui eccelle sono quelle che esaltano le sue capacità di esecutore e la sua abilità organizzativa. Molto bene quindi tutti i lavori di tipo amministrativo-commerciale, dal ragioniere all'analista contabile, ma le sue possibilità non si esauriscono qui. Buoni risultati infatti li ottiene anche nelle professioni che richiedono precisione e abilità manuale, dall'orafo al chirurgo, a qualsiasi forma di artigianato, e in quelle che si occupano della cura del corpo, dall'estetista al fisioterapista, al dietologo che gli si addicono e gli permettono di sfruttare appieno le sue capacità. Se vuole può ottenere anche il successo, ma non se ne vanterà più del necessario, lo vivrà semplicemente con elegante misura. È uno studente timido e riservato, ma anche un acuto osservatore, diligente e molto scrupoloso nell'eseguire i compiti che gli vengono assegnati. Il suo senso critico si sviluppa prestissimo e diventa la sua arma preferita, talvolta usata in modo esagerato. Ha sete di apprendere, comprendere, utilizzare e mettere a frutto le sue conoscenze. Matematica, scienze, fisica, chimica sono le sue materie preferite, e di conseguenza gli studi universitari si indirizzeranno verso ingegneria, medicina, farmacia, ma anche botanica, agraria, zoologia, grazie al suo amore per la natura e la sua passione a catalogare, classificare piante e animali.

Preciso e scrupoloso in tutto, non poteva non esserlo con il suo corpo, al quale dedica grande attenzioni e cure. Non conosce eccessi e la sua alimentazione è naturale, sana ed equilibrata. Al primo campanello d'allarme si sottopone ad accurate analisi e controlli, mentre segue con metodo e costanza cure lunghe e meticolose. Il risultato è in genere una salute sostanzialmente buona e in grado di reggere al logorio degli anni. I punti deboli del suo organismo sono rappresentati dall'apparato gastrointestinale, cistifellea, pancreas, duodeno, e pertanto le patologie più comuni possono riguardare questi organi. Il suo sale cellulare è il solfato di potassio e una carenza di tale composto chimico provoca una maggiore viscosità dei lipidi, che vanno ad attivare i pori della pelle determinandone acne, eczemi e fenomeni di desquamazione.

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giovedì 30 luglio 2015

IL RUBINETTO


Il termine rubinetto deriva da robinet, diminutivo di Robin che nel francese popolare designa il montone e l'ariete, inteso come maschio della pecora. In Francia la chiavetta che regolava la cannella dell'acqua era spesso ornata da una testa di animale (il montone era il più frequente come fregio) e cominciò a essere chiamata robinet, cioè 'piccolo montone'. Alla fine dell'Ottocento il termine è italianizzato in robinetto e quindi rubinetto. Precedentemente i congegni erano denominati 'chiavette' a sottolinearne la funzione. Non mancano definizioni regionali, riferite in particolar modo alle bocche da fontana, che in molti casi presentano dei veri rubinetti per impedire lo spreco di acqua potabile. Oggi il termine rubinetto viene utilizzato in maniera generica o per indicare un prodotto con le doppie maniglie per l'erogazione dell'acqua, oramai quasi del tutto rimpiazzati dai miscelatori monocomando.

I più antichi rubinetti erano del tipo a maschio e sono attestati fin dall'epoca romana. Il rubinetto a vite (o vitone) è attribuito all'inglese Thomas Grill, che l'avrebbe inventato agli inizi dell'Ottocento. Dagli anni settanta del Novecento è stato messo a punto il miscelatore a dischi ceramici, benché i primi esperimenti di miscelazione siano più antichi.

I primi rubinetti archeologicamente attestati sono le "valvulae" di epoca romana. Si tratta di rubinetti del tipo “a maschio”, in cui la rotazione un cilindro forato consente o impedisce il passaggio dell’acqua.
A seguito dello sviluppo dell’ampia rete di acquedotti che rifornivano le città e la numerosa popolazione, si sviluppò una fiorente attività industriale legata alla produzione di rubinetti (valvulae), tubi di piombo (fistulae), ma anche vasche, stufe per riscaldare l’acqua (boiler), ecc..
In epoca romana sono attestati anche alcuni esempi di “miscelatori” con cui era possibile erogare acqua fredda o, alternativamente, acqua calda. La miscelazione dell’acqua alla temperatura desiderata avveniva nella vasca sottostante, mentre dalla vasca l'acqua usciva fredda o bollente.

Con la fine dell’impero romano e il collasso della rete degli acquedotti, in epoca medievale e moderna i rubinetti erano utilizzati soprattutto per regolare il flusso dei liquidi da recipienti.
Si trattava ancora di  rubinetti “a maschio” cilindrico, ma le dimensioni erano usualmente ridotte. Essi infatti erano applicati a piccoli recipienti in legno o metallo (acquamanili, samovar, ecc.), sospesi o trasportati secondo le necessità, oppure a piccole vasche a muro.
Abbastanza frequente, nelle chiese maggiori, era l’uso di collocare una vasca, munita di due rubinetti, sopra un grande lavabo, per gli usi liturgici.
Talora, quando erano applicati a grandi botti per il vino e la birra, i rubinetti potevano raggiungere dimensioni consistenti.



L’invenzione del rubinetto a vite è attribuita al mercante inglese di ferramenta Thomas Grill nel 1800. Con questo dispositivo fu possibile graduare, per la prima volta, il flusso dell'acqua.
Questo sistema, utilizzato ancora oggi, trovò larga applicazione soprattutto con l’allacciamento delle abitazioni alla rete della distribuzione idrica, in quanto offriva migliori prestazioni di tenuta sotto pressione.

Nel 1975 iniziò la commercializzazione dei primi miscelatori monocomando a dischi ceramici. Precedentemente erano stati studiati e commercializzati miscelatori termostatici basati su tecnologie meccaniche differenti.

Il rubinetto a vite e quello a maschio non sono stati, comunque, soppiantati dal miscelatore monocomando a dischi ceramici.
Il sistema a maschio, nelle migliorate forme del maschio conico o a sfera, trova ancora largo impiego sia in ambito enologico che in varie applicazioni delle valvole per gli impianti di distribuzione per liquidi e gas.

Gli antichi egizi erano soliti lavarsi completamente almeno una volta al giorno, le mani venivano lavate prima e dopo i pasti e alla sera i denti venivano risciacquati con acqua e bicarbonato di sodio. Per farlo dovevano procurarsi acque pulite, dal momento che in quelle stagnanti si potevano trovare larve della chiocciola Bulinus, che danneggia la pelle. Per questo, se i più poveri dovevano accontentarsi del Nilo, i membri delle classi abbienti avevano sempre in casa una stanza da bagno. Alcune erano munite di rudimentali docce costituita da un setaccio attraverso il quale veniva filtrata l’acqua. I faraoni, poi, avevano addirittura ai loro ordini un capo maggiordomo con il titolo di "capo della camera da bagno", come testimoniano gli archivi della corte di Amarna.
La pulizia, nell’Antico Egitto, era considerata tanto una pratica salutare quanto un mezzo per curare la propria bellezza. Pochi popoli, infatti, sono stati vanitosi quanto gli egizi. Sia gli uomini che le donne curavano in modo quasi maniacale la manicure e il problema della bellezza dei capelli, soprattutto in caso di incipiente calvizie, era molto sentito: per rinvigorirli e prevenirne la caduta era consigliata una lozione a base di grasso di leone. Invece si poteva ritrovare il colore naturale con sangue di mucca nera bollito in olio, grasso di serpenti e uova di corvo.
Gli oggetti per la cosmesi erano ritenuti così essenziali che gli antichi egizi finivano per portarseli nella tomba. Letteralmente, dato che erano una parte immancabile del corredo funebre.

Un sondaggio condotto dal British Medical Journal su un campione di 11000 lettori ha dimostrato che l’invenzione più acclamata in campo igienico- sanitario è lo sciacquone, che ha battuto al fotofinish (per lo 0,8 %) gli antibiotici.

Quello che forse non tutti sanno è che il primo water con sciacquone è uno dei molti figli del rinascimento, epoca di geni spesso incompresi. Il suo inventore è un insospettabile, John Harington (1562-1612), figlioccio di Elisabetta I di Inghilterra, poeta e estimatore della cultura italiana. Harington è noto principalmente per la sua traduzione in inglese dell’Orlando Furioso, che gli valse, nel 1591, la riammissione a corte, dalla quale era stato bandito per dei versi licenziosi. Purtroppo, fu proprio l’invenzione del water a far ricadere in disgrazia il povero Harington. Nel 1596, infatti, pubblicò dei disegni leonardeschi del suo prototipo di gabinetto ma, per meglio illustrarne il funzionamento, scrisse anche un poemetto in versi, The Metamorphosis of Ajax, in cui Ajax (Aiace) era proprio il water. Tra le altre cose, Harington vi consigliava caldamente di azionare il meccanismo fluidificante almeno due volte al giorno per evitare spiacevoli ristagni. I suoi contemporanei, però, non compresero la rivoluzionaria invenzione e, offesi da quello che ritenevano uno scherzo di pessimo gusto, allontanarono nuovamente Harington da Londra e l’Aiace cadde nell’oblio.

Ancora oggi in molte enciclopedie Harington è ricordato solo per i suoi sfortunati versi e non come il precursore di quella che è stata una piccola rivoluzione nel concetto di igiene.


LEGGI ANCHE : http://pulitiss.blogspot.it/p/aiuto-alle-persone.html


                             http://asiamicky.blogspot.it/2015/07/lumezzane.html



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martedì 28 luglio 2015

IL MONUMENTO NATURALE DELL'ALTOPIANO CARIADEGHE



L'altopiano di Cariadeghe è un parco naturale posizionato tra la Valle Gobbia, la Valle Sabbia, in provincia di Brescia e più precisamente nel comune di Serle.

Le colline che svettano dall'altopiano sono il monte Ucia, la Corna de Caì, il Dragone e il Dragoncello, l'altopiano è così delimitato da queste montagne che raggiungono una quota di 1160 msl, all'interno del parco si possono ammirare parecchie specie di alberi secolari quali: carpini, faggi, aceri e querce.

L'altopiano è famosissimo anche per la caratteristica geomorfologica, essendo un terreno carsico presenta numerosissime e interessanti grotte, usate un tempo come ghiacciaia.

Le peculiarità fisico-ambientali, che rendono l'intero Altopiano di Cariadeghe un ambiente unico in Lombardia, sono costituite dai fenomeni di carsismo, che si esprimono sotto forma di doline e di grotte, sia in superficie che in profondità.
Le doline raccolgono e drenano le precipitazioni meteoriche e le acque di scorrimento superficiale; come tanti imbuti naturali esse convogliano l'acqua nel sottosuolo, che viene assorbita da un intricato insieme di fessure, pozzi, gallerie ecc.Le doline costituiscono l'elemento del paesaggio più diffuso e più rappresentativo di Cariadeghe, che è stato più volte definito il "Carso bresciano".

Al fondo o sui versanti di alcune doline si aprono cavità percorribili dall'uomo spesso costituite da veri e propri pozzi verticali; per lungo tempo gli abitanti di Cariadeghe hanno saputo sfruttare le singolari condizioni ambientali, che caratterizzano le grotte, utilizzandole come "giasere", oppure attrezzandole per farne uso come "buchi del latte", destinati alla conservazione dei prodotti caseari.
Lo studio delle cavità ipogee condotto da generazioni di speleologi ha evidenziato come l'Altopiano rappresenti sotto il profilo idrogeologico il territorio più produttivo delle Prealpi bresciane e la presenza di una fauna sotterranea ricca di elementi endemici. L'area meta di fantastiche passeggiate al primo sguardo, appare una barriera boscosa impenetrabile rotta qua e là dalle poche aree prative e dalla presenza di raggruppamenti di alberi ad alto fusto o da alberi isolati di grande valore estetico per la mole monumentale, faggi, castagni e carpini. Numerose sono le specie floristiche presenti protette da leggi nazionali e internazionali. Il paesaggio è caratterizzato dalla presenza di rilievi, dalle vette facilmente accessibili si può ammirare un panorama vastissimo che abbraccia mezza provincia, tra essi spicca il monte S. Bartolomeo dalla particolare forma troncoconica, importante sito d'interesse archeologico; recentemente alcune ricerche condotte hanno portato alla luce ampi tratti del vasto e imponente Monastero romanico che occupava per intero la spianata sommitale del monte.



Sull'Altopiano di Cariadeghe sono presenti vari alberi giunti ormai a maturità. Ormai si è persa anche la memoria degli antichi boschi maturi, pertanto i maestosi esemplari adulti di faggio, carpino, castagno, suscitano ammirazione e stupore ai nostri occhi. Questi patriarchi vegetali, hanno assunto giustamente il valore di veri e propri monumenti e come tali sono protetti e studiati.

A causa della mancanza d'acqua, la zona mal si presta all'agricoltura e, infatti, l'attività prevalente è sempre stata la pastorizia con l'utilizzo del terreno come pascolo, l'aspetto della vegetazione e del paesaggio n'è quindi una diretta conseguenza, con alternanza d'aree di pascoli, di boschi e d'ampie radure coperte di Brugo e Ginepro.
Il bosco di latifoglie governato a ceduo possiede composizione assai varia in relazione alla morfologia del territorio in larga parte caratterizzato dalla presenza di doline che determinano situazioni d'esposizione, di luminosità, d'umidità anche notevolmente diverse.
Così tra Roverella e Faggio, che potremmo considerare agli estremi delle situazioni riscontrabili, trovano ambiente adatto al loro sviluppo Carpini, Aceri, Frassini, Quercie, Pioppi, Castagni, Salici, Betulle, Noccioli, Cerri, Sorbi e Agrifogli.
Di particolare interesse è la presenza su tutta l'area protetta, di numerosissimi esemplari di maestosi alberi secolari.
Sono in fioritura già ai primi inizi della buona stagione Bucaneve, Scille, Anemoni, Coridali, mentre si preparano a nuovo sviluppo il Giglio martagone, il rosso Giglio croceo e il profumato Mughetto che con Potentille, Ranuncoli, Peonie, Gerani, Rose selvatiche, Moscatelle, Viole, Primule, Pervinche, Ciclamini, Genziane, Asperule, Veroniche, Vaccini ed altri ancora costituiscono la preziosa tavolozza che la natura ha abbondantemente elargito in questa parte della terra bresciana.

La fisionomia morfologico-vegetazionale del territorio del Monumento Naturale, caratterizzata da una evidente omogeneità, si riflette anche nel popolamento avifaunistico.
In vaste superfici, si nota infatti la presenza ricorrente di alcune specie ornitiche che fanno altresì registrare uniformi valori di densità.

Tra le specie più interessanti che si riproducono, meritano menzione le specie di rapaci diurni, come Falco pecchiaiolo, Nibbio bruno, Poiana, Gheppio.
Interessante la presenza, seppure rara, del Picchio verde oltre a quella del Corvo imperiale, (nidificante sulle falesie rocciose ubicate a ridosso del confine Nord della riserva) della Tordela, della Civetta, del Succiacapre e del Torcicollo.
Tra gli altri passeriformi la specie più rilevante è la Bigia Padovana. Buono il numero di copie di Codirosso e le discrete popolazioni di Sterpazzola e di Averla piccola, oltre alla presenza localizzata del Luì verde.
Tra le specie più comuni e diffuse in assoluto: Merlo, Capinera, Luì piccolo e Fringuello.
Sensibile la presenza del Cuculo e della Cinciallegra.



LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/07/le-prealpi-bresciane-e-gardesane.html



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IL SERPENTE



I serpenti sono i rettili squamati appartenenti al sottordine Serpentes Linnaeus, 1758 (od Ophidia). La filogenesi dei serpenti è collegata strettamente a quella delle lucertole (nome comune dei rettili appartenenti al sottordine Sauria), con i quali costituiscono l'ordine Squamata. I serpenti, inadatti a vivere in un clima freddo, nelle zone temperate quando arriva l'inverno si abbandonano a una sorta di coma letargico fino alla fine dell'inverno.

La scienza che studia i serpenti è chiamata ofiologia e i suoi studiosi ofiologi.

I serpenti sono animali carnivori, si nutrono quindi di piccoli animali, compresi altri rettili e serpenti, uccelli, uova o insetti. Alcune specie sono dotate di un morso velenoso con il quale uccidono la preda prima di nutrirsene oppure la paralizzano; altre invece uccidono le prede per costrizione. I serpenti ingoiano la preda senza masticarla poiché, disponendo di una mandibola e di altre numerose articolazioni del cranio estremamente flessibili possono aprire la bocca e ingoiarla interamente, anche se queste sono di grandi dimensioni.

I serpenti non si nutrono quasi mai dell'uomo, ma si sono comunque registrati rari casi di bambini mangiati dai grandi costrittori. Anche le specie più aggressive preferiscono, di norma, evitare il contatto.

Per l'uomo quindi il pericolo maggiore che deriva dai serpenti non è quello di essere mangiati ma di essere morsi, questo perché alcune specie sono velenose: la diversa composizione del veleno può comportare vari sintomi per ogni morso, il 15% circa dei serpenti possiede un veleno pericoloso per l'uomo.

Non si conosce con precisione il numero di morsi e di morti che i serpenti causano agli esseri umani, ciò è dovuto al fatto che molte persone (soprattutto in Africa e in Asia meridionale) non si rivolgono alle strutture ospedaliere, tuttavia si stima che ogni anno ci siano da 425.000 a 1.800.000 avvelenamenti da ofidi che causano 20.000-94.000 morti.

In Italia i serpenti velenosi appartengono alla famiglia dei viperidi il cui morso comporta un'intossicazione molto simile da specie a specie ed una sintomatologia comparabile: in primo luogo compare dolore nel punto colpito (punto nel quale si possono riscontrare i segni lasciati dai denti veleniferi) successivamente compare una tumefazione alla quale fanno seguito sintomi generali di shock, con dolori gastrici ed intestinali, vomito e diarrea; in alcuni casi (bambini, anziani, persone debilitate), in assenza di terapie adeguate, il morso può provocare la morte.

La terapia si basa, principalmente, sul rallentamento dell'assorbimento del veleno, fino alla somministrazione di un siero antiofidico, che deve essere fatta in ambiente ospedaliero per non rischiare gli effetti di un possibile shock anafilattico.

Il dualismo di fascino e timore che questi animali suscitano in noi ha contribuito al diffondersi dei serpenti come animali da compagnia. Per la stabulazione di gran parte di queste specie occorre un terrario con le pareti di vetro o legno, sebbene poche necessitino di un acquario o di un acquaterrario. Tra i più diffusi figurano i colubridi, i pitoni ed i boidi.

Le specie velenose (e non solo) vengono anche utilizzate nella ricerca medica.

La pelle è coperta di squame. La maggior parte dei serpenti utilizza le squame della pancia per muoversi. Le loro palpebre sono squame trasparenti che rimangono perennemente chiuse. I serpenti mutano periodicamente la loro pelle. Diversamente da altri rettili, questa mutazione è fatta in un solo passo, come tirarsi fuori un calzino. Lo scopo della muta è la crescita delle dimensioni del serpente, dunque indispensabile per il miglioramento del movimento.

I ritrovamenti fossili dei serpenti sono relativamente scarsi, a causa dei loro scheletri fragili che difficilmente si fossilizzano. I più antichi resti fossili attribuibili a serpenti datano a circa 167 milioni di anni fa (Eophis underwoodi ) e sono stati ritrovati in Inghilterra. Si suppone che questi antichi serpenti siano derivati da animali del gruppo delle lucertole, probabilmente da forme scavatrici e acquatiche. Si conosce una forma del Cretaceo superiore, Najash rionegrina, che era dotata di due zampe posteriori e di osso sacro; presumibilmente era un animale compiutamente terrestre e scavava tane nel terreno. Una forma attuale, forse analoga a questi antenati scavatori, è il lantanoto del Borneo (Lanthanotus borneensis), una "lucertola" varanoide dalle abitudini semiacquatiche e priva di orecchie esterne.

I serpenti preistorici erano predatori terrestri muniti di zampe: lo sostiene uno studio pubblicato su Science, dov'è descritto in dettaglio uno straordinario fossile di Tetrapodophis amplectus, una specie vissuta circa 110 milioni di anni fa: lungo l'impronta dello scheletro sono a un certo punto evidenti quattro minuscoli arti, che secondo i ricercatori non servivano già più per la locomozione.

Il capo della ricerca David Martill ha raccontato che il reperto (scoperto in Brasile) si trovava nel museo di Solnhofen, in Germania, dov'era «parte di un'ampia esposizione di fossili del periodo Cretaceo: ma nessuno aveva colto la sua importanza», ha spiegato il paleontologo. «Quando l'ho visto ho capito che si trattava di un esemplare incredibilmente importante.»

Lo scheletro sinuoso, che misura 19,5 centimetri, conta 272 vertebre e due paia di zampe lunghe meno di un centimetro. All'altezza dello stomaco si vedono i resti dell'ultimo pasto, un piccolo vertebrato che dimostra le abitudini carnivore del rettile.

Come ha evidenziato Nick Longrich, coautore dello studio, le appendici erano ormai inadatte a camminare, ma sarebbe sbagliato liquidarle come semplici organi vestigiali. Le dita affusolate farebbero infatti pensare a  strutture altamente specializzate, usate forse per afferrare e stringere le prede.
Nonostante di recente fossero già emerse prove che gli antenati dei serpenti moderni avessero almeno due zampe posteriori, è la prima volta che gli scienziati si trovano di fronte a un fossile con quattro arti. Questo rafforzerebbe l'ipotesi, molto dibattuta, secondo cui i rettili striscianti non arriverebbero dal mare, ma sarebbero un'evoluzione di un'ancestrale lucertola terrestre.

Non tutti sono però concordi nel classificare il T. amplectus come un possibile anello di congiunzione tra le due specie. Michael Caldwell, paleontologo presso Università di Alberta (Canada), ha ad esempio dichiarato che diverse caratteristiche della colonna vertebrale non giustificano l'inserimento dell'esemplare nell'albero evolutivo dei serpenti.  «Penso che il campione sia importante, ma non so ancora dire che cosa sia.»

L’organo di copulazione, in posizione retratto, è alloggiato fra l’apertura cloacale e la punta della coda. Per questo fatto quasi in tutti i maschi, in questo tratto e per una certa lunghezza, la coda mantiene più o meno la stessa larghezza.
Nelle femmine invece, la coda si restringe praticamente subito dietro la cloaca.

La femmina può conservare in vita a lungo lo sperma nel suo ventre per poi fecondarsi quando ritiene il momento più propizio. Sembra addirittura che si siano osservate nascita da femmina che erano state separate da più di un anno dal maschio. Il periodo di gestazione è molto vario e dipende soprattutto dalla temperatura ambientale.

I serpenti si dividono in due gruppi:
OVIPARI: depongono uova con il guscio molle in luoghi caldi e molto umidi. Di questo gruppo fanno parte per esempio i colubridi e i pitoni.
OVOVIVIPARI: la femmina porta le “ uova” dentro di sé, nell’ovidotto fino al completo sviluppo della prole. I piccoli vengono alla luce avvolti uno per uno in una sacca trasparente e gelatinosa. In questo gruppo troviamo i boa, i viperini ed i crotalidi.

La durata dell’incubazione dipende dalla temperatura ambientale oltre che dalla specie. Una volta deposte nel luogo ideale, le uova vengono in genere abbandonate. Ma vi sono delle eccezioni:
alcune specie di pitoni sono in grado di “covare” le proprie uova. Durante tutta la cova il pitone non lascia mai le uova incustodite
la femmina del cobra difende la propria covata da chiunque voglia avvicinarsi
il cobra reale è l’unico serpente che costruisce un nido raccogliendo scarti vegetali con le sue spire.
I piccoli nascono completamente formati e del tutto indipendenti. Dopo la prima muta, che avviene di norma nei primi tre giorni dalla nascita, i neonati si cimentano con il primo pasto. Appena venuti alla luce, i serpenti velenosi sono in grado di iniettare il loro veleno.



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lunedì 27 luglio 2015

LO SNOWBOARD

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Lo snowboard, è uno sport di scivolamento sulla neve, nato negli anni sessanta negli Stati Uniti. Lo si pratica utilizzando una tavola costruita a partire da un'anima di legno e provvista di lamine e soletta in materiale sintetico, simili a quelle dello sci.

Lo snowboard è divenuto disciplina olimpica nel 1998. Ai Giochi olimpici invernali del 2006 si sono disputate anche le gare di snowboardcross, sia maschile che femminile.

Non è facile stabilire chi sia stato il primo ad inventare lo snowboard. La gente di montagna ha sempre avuto la necessità di spostarsi sulla neve, e di trasportare carichi con la minor fatica possibile. I contadini in inverno scendevano a valle con la slitta, in estate trasportavano il fieno su appositi slittoni giù per i prati. Possiamo dire comunque che lo snowboard attuale è nato negli Stati Uniti. Deriva quasi certamente dal surf da mare, a sua volta originario della Polinesia in Oceania e delle Isole Hawaii nel Pacifico. Fu addirittura il grande navigatore ed esploratore James Cook, alla fine del ‘700, ad osservare gli indigeni polinesiani mentre si facevano trasportare dalle onde sulle canoe e su lunghe tavole di legno.
Il primo esempio documentato di rudimentale snowboard risale al 1929, quando Jack Burchett, un costruttore di slitte, tagliò un pezzo di legno piatto con dei lacci di stoffa per i piedi. Un’altra documentazione certa risale a circa trent’anni dopo: nel 1963 Sherman Popper, un ingegnere chimico, per far giocare i suoi figli inventò un attrezzo che battezzò snurfer. Popper unì due sci con l’intento di riprodurre un attrezzo simile al monosci, che all’epoca stava diffondendosi tra gli sciatori più spericolati. Si accorse però che i suoi ragazzi salivano sulla tavola di traverso, proprio come i surfisti da onda.
Popper prese allora un surf da onda e lo elaborò montando dei bordi metallici e progettando un attacco per la scarpa. L’attrezzo ebbe un grande successo tra gli amichetti dei suoi figli. Quindi registrò il nome e cedette i diritti alla ditta Brunswick che incominciò a produrre in serie lo Snurfer. Queste tavole giallo-nere di legno compensato fecero il giro degli Stati Uniti e una di esse arrivò tra le mani di Jack Burton Carpenter che, allora quattordicenne, cominciò ad elaborare lo Snurfer per migliorarne le prestazioni agonistiche.
Nel 1969 un ingegnere di New York, D. Milovitch, anch’egli ispirato dal surf d’onda, costruì alcuni prototipi di tavole da neve e ne registrò il brevetto con il nome di Winterstick. La leggenda narra che l’idea gli venne dopo aver ‘surfato’ sulla neve, per scherzo, con dei vassoi da mensa. Quelle di Milovitch furono costruite dapprima in legno resinato, ma così erano troppo fragili: utilizzò allora un’anima schiumata racchiusa tra laminati in fibra di vetro e con base in P-tex, un nuovo materiale. Per un certo periodo le cose andarono molto bene e i suoi attrezzi ebbero una grande notorietà grazie ad articoli pubblicati su Newsweek, Playboy e Powder.
Milovitch andò però incontro ad enormi spese di produzione che ne impedirono il decollo commerciale: le tavole risultarono troppo costose per invogliare le masse ad affrontare l’avventura dello snowboard. Milovitch produsse tavole fino agli anni 80, quindi abbandonò l’attività anche se la Winterstick, dopo vari problemi finanziari, riuscì a sopravvivere. Anche Jack Burton nel 1977 iniziò a produrre surf da neve. I suoi modelli somigliavano molto allo Snurfer di Popper: si differenizavano per il fatto che erano stretti come un monosci, costruiti in legno di acero laminato e con gli attacchi di gomma regolabili, muniti di una superficie antisdrucciolo. Con un nuovo prototipo Burton sorprese tutti vincendo molte gare. Decise così di trasferirsi a Londonderry, nel Vermont, per dedicarsi appieno al suo business. Nel ’79 disegnò gli attacchi tipo strap. Nello stesso periodo Popper interrompeva la produzione tornando al suo lavoro di ingegnere.
Un altro personaggio iniziò l’avventura nel mondo dello snowboard contemporaneamente a Burton: Tom Sims. In realtà egli era un produttore di skatebord, lavorava nel suo garage con l’amico Chuck Barfoot. Sims provò ad incollare dei pezzi di tessuto sopra il legno e usò un foglio di alluminio come soletta. Sims tuttavia continuò a concentrarsi sulla produzione di skateboard. La svolta decisiva arrivò ancora una volta da Jack Burton: ispirandosi alla tecnologia dello sci, introdusse nel 1980 un prototipo con soletta in P-tex, strati di legno laminato e lamine. Nel Vermont nel 1982 si organizzò il primo campionato nazionale americano: la gara consisteva nel partire dalla cima di una montagna e arrivare in fondo, possibilmente interi. La leggenda narra che un certo Bob Boutin abbia raggiunto la folle velocità, per l’epoca, di 100 km orari con una tavola Backhill. Nei primi anni ’80 erano pochissime le stazioni di sci che accettano lo snow. In alcune si richiedeva una specie di esame per poter accedere agli impianti e scendere sulle piste, con il quale si doveva dimostrare di avere una buona padronanza dell’attrezzo. Il primo prototipo di attacco moderno è del 1984 grazie ad un personaggio che non avrà il riconoscimento che meritava: Jeff Grell. Egli mise a punto un tipo di attacco che facilitava molto la guida della tavola, e che in seguito sarà imitato da tutti.
I campionati americani si spostarono a Stratton, nel Vermont, e diventarono gli U.S Open. Jack Burton aprì ad Innsbruck, in Austria, la divisione europea Burton. Nelle edicole americane apparvero due importanti riviste del settore che diventarono in breve il punto di riferimento degli appassionati: Snowboarder e successivamente Absolutley Radical.
Apocalypse snow, esplode la mania
Un altro episodio importante nella storia dello snowboard accadde nel 1981, quando due riders americani della Winterstick, che si trovavano a Les Arc in Francia, vendettero una tavola ad un certo Regis Rolland, il quale a metà degli anni ’80 produsse il primo video-film di snowboard intitolato Apoclypse Snow, che diventerà una pietra miliare del genere.
Il film provocò una specie di contagio, una diffusione a macchia d’olio dello snowboard in tutta Europa. Nel 1989 si svolse a St. Moritz-Livigno il primo contest di snowboard in Europa in collaborazione tra ISA (International Snowboard Association) e la PSA (Professional Snow Association) due movimenti che unendosi daranno poi vita alla ISF (Federazione Internazionale Snowboard), che è tuttora l’organizzazione più vicina alla realtà dello snowboard.
Con la diffusione crescente di questo sport migliorarono le tecnologie e i materiali. Nel 1994 lo snowboard raggiunse la definitiva consacrazione entrando a far parte degli sport olimpici. Nel 1996 un altro celebre video contribuì alla popolarità di questo nuovo sport: Subject Haakonsen. Nel 98 lo snowboard, con tutte le sue discipline, approdò ai giochi olimpici di Nagano in Giappone. In Italia, oggi, il successo di questo sport è testimoniato da più di 100 club e da oltre 1600 soci.
Lo snowboard si è evoluto fino ai giorni nostri fino a diventare per molte persone un vero e proprio stile di vita, ragion d’essere, modo di vivere la montagna e in montagna.
L’attrezzatura si è evoluta rapidamente: studi e ricerche hanno migliorato i materiali e cambiato molte abitudini di riding. Le tavole ‘sbananate’ oggigiorno sono dappertutto.
I camber delle tavole, da come eravamo abituati a concepirli fino a poco tempo fa, sono diventati ora una vera e propria fonte inesauribile di studi. I produttori di tavole si sbizzarriscono ogni anno con camber sempre più estremi: tavole con camber a banana, ad ali di gabbiano, inversi, tradizionali, sfaccettati, c’è n’è veramente per tutti i gusti!
Unico neo di questa innovazione è il fatto che al momento per ogni tipo di terreno esiste una diversa tavola: c’è la tavola per i box e i rail, la tavola per i kicker, la tavola per le piste dure ghiacciate, la tavola per la fresca e la tavola per il fuoripista… c’è da aspettarsi un giorno che i consumatori si stufino e vogliano tornare indietro per avere 2 massimo 3 tipi di tavole con proprietà sensibilmente differenti. Per il futuro dunque c’è da aspettarsi un ritorno alla normalità con una standardizzazione delle varie forme e proprietà delle tavole.
Anche gli scarponi e gli attacchi sono cambiati notevolmente in questi ultimi anni: è ormai quasi impossibile trovare sul mercato attacchi che non stringono sulla punta piuttosto che sulla parte superiore del piede e scarponi che non abbiano sistemi di allacciatura semi-automatici per cui basta tirare un cordino o girare una rotella per stringerli o allentarli a proprio piacimento.
Per non parlare poi dell’evoluzione degli snowpark che da inizio anni 2000 ha visto l’impennata nella costruzione di ‘parchi giochi’ sulla neve con strutture sempre più moderne, sicure e divertenti.
I pionieri degli snowpark in Italia sono senza dubbio Livigno e la sua crew che già nei primi anni 2000, grazie agli European Open di Burton, hanno fatto molto per la crescita dello snowboard freestyle in Italia. Dopo Livigno, a credere nel freestyle sono state stazioni sciistiche come Obereggen, Val Senales, Alleghe, il mitico Grappa oramai scomparso e subito dopo molte altre stazioni.
Oggigiorno in Italia è praticamente impossibile trovare uno ski resort che non abbia almeno un paio di salti e un paio di box.
Di pari passo con la nascita dei vari snowpark in Italia, sono nate anche aziende che si occupano della progettazione e costruzione di strutture per snowpark quali ad esempio park e F-Tech le quali da anni, progettano, studiano e producono prodotti di qualità testati e creati ad hoc per le esigenze degli snowboarder.

La tavola da snowboard, detta anche semplicemente "tavola", viene oggi realizzata con materiali che consentono di modellarne la forma nei modi più disparati, al fine di esaltarne il comportamento in funzione dell'utilizzo desiderato. Se tutte le tavole da snowboard sono simmetriche lungo l'asse longitudinale, lo stesso non si può sempre dire lungo l'asse trasversale. Anche osservandola di lato, non è detto che il profilo risulti sempre piano.
Una moderna tavola da snowboard viene data una forma (detta "shape" nella terminologia tecnica inglese) quanto più adatta all'utilizzo per cui essa è progettata. Una tavola monodirezionale, pensata con una punta e una coda, sarà simile a un grosso sci, con punta sollevata e coda pressoché piatta, mentre una tavola bidirezionale sarà assolutamente simmetrica anche lungo l'asse trasversale, rendendo indistinguibile la punta dalla coda.

Anche la sciancratura della tavola può essere accentuata (in stile Carving) per esaltarne l'aderenza in curva.
Il profilo della tavola (Camber nella terminologia tecnica) è l'altro elemento che la identifica e ne condiziona fortemente il comportamento sulla neve.

Le prime tavole presentavano una superficie inferiore convessa, tipica degli sci, con la parte centrale più alta rispetto alle parti anteriore e posteriore; tale profilo esalta ancora di più la sciancratura della tavola e garantisce la presa delle lamine in curva anche in condizioni di scarsa aderenza.

Un profilo concavo, al contrario, presenta delle punte più alte rispetto alla parte centrale della tavola, con conseguente minore stabilità e maggiore maneggevolezza.

Un profilo piatto garantisce la lamina a contatto con la neve per tutta la lunghezza della tavola e garantisce il massimo della stabilità nell'appoggio agli ostacoli in snowpark.

Esistono due fondamentali distinzioni che nascono dalla tipologia di attrezzatura utilizzata: il soft e l'hard.

Soft significa uso di attrezzatura morbida, ovvero scarponi cedevoli e deformabili, tavole flessibili e bidirezionali, attacchi permissivi e tendenzialmente elastici. All’interno di questa categoria possiamo distinguere due principali specialità: il freestyle e il freeride.

Freestyle è la disciplina più spettacolare dello snowboarding e per molti anche la più divertente. L'obiettivo di questo stile è di eseguire manovre (trick) ed evoluzioni sfruttando la conformazione del terreno o le strutture artificiali (salti, ringhiere, piattaforme ecc.). Per la messa in pratica molte stazioni sciistiche mettono a disposizione zone appositamente progettate dette snowpark. Ha molto in comune con lo skateboard (disciplina dalla quale eredita strutture come l'half-pipe o i rails) e la maggior parte delle competizioni è dedicata a questo stile.

Freeride è la disciplina più profonda e più pura dello snowboarding; consiste nello scendere un pendio in neve fresca seguendo liberamente una propria linea. Il freeriding, che sia alpinismo o che sia semplice fuoripista servito dagli impianti di risalita, è un’attività che comporta dei rischi in base alle condizioni della neve ed al pericolo valanghe.

Hard significa invece uso di attrezzatura rigida. È la disciplina maestra dello snowboard a livello di tecnica e conduzione della tavola in pista.
Praticato su neve ben battuta come sulle piste sciistiche, questo stile richiede scarponi rigidi simili a quelli utilizzati nello sci alpino e tavole direzionali più rigide di quelle usate per gli altri stili. La sua espressione agonistica è lo slalom.

Esistono due modi di scendere con una tavola ai piedi, vengono denominati con i termini regular e goofy. Regular è caratterizzata dal fatto che il piede sinistro, in una normale discesa, si trova davanti, vicino al nose (punta della tavola), mentre il piede destro si troverà dietro, vicino al tail (coda della tavola). L'impostazione goofy ovviamente sarà l'inverso del regular. Piede destro davanti e piede sinistro dietro.

Come altri sport invernali, lo snowboard comporta un certo livello di rischio. Il tasso di infortuni fra gli snowboarder è circa il doppio rispetto a quello fra gli sciatori. Gli incidenti sono più frequenti fra i principianti; un quarto degli infortuni accade a chi prova per le prime volte, la metà fra coloro che hanno meno di un anno di esperienza. Gli snowboarder esperti hanno meno probabilità di infortunarsi, ma le conseguenze tendono a essere più gravi.

Due terzi delle lesioni colpiscono la parte superiore del corpo e il restante gli arti inferiori. Questo dato contrasta con lo sci alpino, dove la proporzione è invertita. Il punto più soggetto a danni è il polso, con il 40% su tutti gli infortuni; il 24% degli infortuni risulta essere una frattura al polso. Ogni anno vi sono circa 100.000 fratture al polso fra gli snowboarder. Per questo motivo spesso si raccomanda l'uso di protezioni integrate o meno ai guanti, che riducono il rischio di fratture al polso della metà.

Il rischio di urti alla testa è 6 volte superiore che per gli sciatori, con la tendenza a essere più rare, ma più gravi, fra gli snowboarder avanzati. Gli urti alla testa possono essere la conseguenza di una collisione o di un errore in una manovra di curva. Quest'ultima può causare allo snowboarder un urto violento della nuca contro la superficie della pista. L'uso del casco è quindi raccomandabile. Anche l'uso di adeguati occhiali è importante, in quanto il riverbero della neve può causare gravi danni alla vista.


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IL CAVALLUCCIO MARINO



Il nome Hippocampus deriva dal greco "Hippo=cavallo" perchè ricorda un cavallo (da qui il nome cavalluccio marino) e "kampe = bruco" per via degli anelli che formano il suo corpo che ricordano appunto un bruco.
Le forme caratteristiche dei cavallucci marini non sono certo sfuggite ai popoli antichi, che lo ritenevano un animale divino. Non è un caso che la mitologia greca associ la creazione del cavallo al dio del mare Poseidone, che sarà spesso raffigurato con un carro trainato da ippocampi. Il cavalluccio marino nell'arte è quindi rappresentato sia come appare nella realtà che, soprattutto, come animale mitologico, commistione tra creatura terrestre e marina.

Il cavalluccio marino o ippocampo contrariamente a quello che può apparire dal suo aspetto così particolare è un pesce, diffuso lungo le coste dei mari e degli oceani temperati e caldi di tutto il mondo che vive fino ad un massimo di 50 m di profondità. In genere vive tra le alghe e le fronde delle piante marine e non è facilmente individuabile in quanto si mimetizza in maniera straordinaria con l'ambiente circostante.

Dato che è un pesce ampiamente diffuso negli acquari, si può affermare che la sua distribuzione in cattività è planetaria.

Nel Mediterraneo ritroviamo due sole specie: il cavalluccio marino comune Hippocampus ramulosus ed il cavalluccio marino camuso o dal muso corto Hippocampus hippocampus.

Il cavalluccio marino ha un corpo allungato, compresso lateralmente, ricoperto da placche ossee, rigide, sistemate ad anello lungo il tronco che lo proteggono dai predatori più piccoli.

La testa è disposta ad angolo retto rispetto al resto del corpo, è affusolata, caratterizzata da un muso lungo che funziona tipo "aspirapolvere" nel senso che aspira l'acqua per trattenere il plancton.
 
La stessa famiglia di appartenenza la Syngnathidae la cui parola significa in greco "dalle mascelle unite" indica che tutti gli appartenenti al genere Hippocampus, hanno un muso tubiforme, provvisto di una bocca posta all'estremità del muso e sprovvista di denti.



Sulla sommità della testa è presente una sorta di corona, più o meno evidente a seconda della specie formata dalle placche ossee dello scheletro la cui funzione non è ancora nota.

Frontalmente si trovano gli occhi che ruotano in modo indipendente l'uno dall'altra permettendo a questo animale una visione ad ampio raggio.

Tutte le pinne ad eccezione di quella dorsale sono assenti o di dimensioni estremamente ridotte. Il cavalluccio marino si muove grazie alla pinna dorsale a forma di ventaglio che ha la particolarità di essere formata da estensioni flessibili della pinna dorsale invece che da raggi della pinna. La sua particolarità è che nuota in posizione eretta muovendo la piccola pinna dorsale. Quando nuota velocemente, ad esempio in caso di pericolo, riesce a compiere anche 70 oscillazioni della pinna al minuto inclinandosi in avanti in posizione quasi orizzontale e distendendo la coda in modo da creare minore attrito con l'acqua raggiungendo anche 20 cm al secondo.

Alcune specie di ippocampo sulla testa hanno delle appendici dermiche spinose (es Hippocampus ramulosus).

Presenta una coda prensile utilizzata per ancorarsi alle alghe per evitare di essere trascinato dalla corrente.

Le diverse specie di cavalluccio marino si distinguono in base al numero degli anelli nel tronco e di come hanno conformatata la parte superiore della testa.

Sono pesci che presentano dimorfismo sessuale in quanto il maschio è molto più lungo della femmina che risulta più compatta e meno allungata.

Non si sa con precisione quanto sia lunga la loro vita in quanto in natura non è stato mai appurato. In cattività si è visto che alcune specie vivono fino a 5 anni.

Il cavalluccio marino è un pesce abbastanza schivo anche se non è aggressivo nei confronti dei suoi simili. In genere vive o da solo o in coppia ed è un animale diurno.

Una particolarità del cavalluccio marino è quella di cambiare colore a seconda delle diverse circostanze o dell'ambiente nel quale si trova. In pratica si tratta di una sorta di mimetismo di protezione ma anche sociale in quanto si è osservato che il cambiamento di colore della livrea avviene anche in situazioni di non pericolo ma strettamente legate ad un particolare stato sociale quali ad esempio: durante una malattia, un corteggiamento o l'accoppiamento.

Sono soliti fare delle danze rituali, maschio e femmina, ogni giorno, durante la gestazione del maschio.

L'unico nutrimento del cavalluccio marino è lo zooplancton: piccoli crostacei, pesci e larve che cattura aspirandole avidamente con il lungo muso. Contrariamente a quello che può sembrare dal loro aspetto minuscolo e mansueto il cavalluccio marino è un voracissimo predatore che aspetta pazientemente per ore che la sua preda passi nelle vicinanza per divorarla.

La particolarità che rende ancora più spettacolare questa specie è che le uova sono allevate dal maschio e non dalla femmina. Infatti quando si avvicina la stagione riproduttiva il maschio di ippocampo sviluppa nella parte ventrale una sorta di tasca ed inizia a corteggiare la femmina con danze rituali affinchè deponga le uova nella sua tasca. La femmina a quel punto poggia il suo ovopositore nella tasca incubatrice del maschio e trasferisce le proprie uova. Una volta che la femmina le ha deposte, il maschio le feconda con il suo sperma ed inizia così il periodo dell'incubazione che dura da 4 a 6 settimane.

Il sacco incubatore si può considerare una sorta di "pseudoplacenta" perché dopo che le uova sono state deposte le pareti si addensano e diventano più porose. All'interno del sacco inoltre circola ossigeno, nutrimento (la rete capillare di questa pseudoplacenta alimenta le uova); i rifiuti vengono rimossi e si ha una vera e propria osmoregolazione vale a dire la regolazione della concentrazione salina del liquido del sacco per abituare gradatamente i giovani all'ambiente marino.

Durante tutto il periodo dell'incubazione delle uova, la femmina fa delle visite quotidiane al maschio e compie con lui delle danze rituali per circa 5 minuti.

Trascorse le 4-6 settimane il cavalluccio marino inizia ad avere delle contrazioni muscolari che permetteranno l'espulsione dalla tasca dei giovani cavallucci marini di dimensioni molto piccole e non ancora completamente formati che subito si allontano per iniziare una vita autonoma. Il padre, a quel punto ripulisce per bene la tasca preparandola ad accogliere una nuova nidiata.

Una volta che i piccoli sono nati non ricevono più alcuna cura parentale.

Il principale predatore di questi particolarissimi pesci è l'uomo che li caccia per il commercio di animali vivi da vendere per gli acquari. I predatori naturali del cavalluccio marino adulto sono pochi a causa della loro struttura fisica che li rende poco appetibili per gli altri animali. Sono comunque maestri nell'evitare la predazione grazie alla mimetizzazione; tuttavia sono stati ritrovati nello stomaco delle tartarughe marine, dei tonni, dei granchi e delle razze.

Ci sono animali che da sempre esercitano sull'uomo un fascino fortissimo. Molto spesso questi animali sono mammiferi ma ci sono alcune eccezioni. Senza alcun dubbio i cavallucci marini fanno parte di questo gruppo.
Oggi, milioni e milioni di questi piccoli animali vengono uccisi per i più svariati motivi: strane credenze che riguardano le loro proprietà terapeutiche (essiccando il loro corpo se ne ricava una polvere che dovrebbe curare l'asma); oppure diventano portachiavi e ornamenti della casa. Nell’Agosto del 2012 in Perù sono stati sequestrati più di 16.000 cavallucci marini essiccati che dovevano essere esportati illegalmente verso i paesi asiatici.  I cavallucci, che si trovano nelle acque calde a nord del Perù sono protetti dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES). La loro diffusione di fatto è notevole in molti continenti.

Sono pesci ossei lunghi da poco meno di un pollice (questa specie vive nel golfo del Messico) fino alla specie considerata gigante, lunga circa 16 cm.

La forma del loro corpo sembra una composizione di un artista folle. Se volessimo paragonarlo ad un mammifero è senza dubbio l'ornitorinco dei pesci.



L’animale simbolo Celtico del Cavalluccio marino è enormemente flessibile e pieno di risorse, è la persona che ama gestire le finanze o manipolare questioni legali perché infinitamente intelligente,(se c’è una scappatoia , la trovano o la inventano) .

Hanno anche sorprendente memoria, sono, a volte, difficili da seguire perché con menti parecchio taglienti. Possono anche cambiare umore improvvisamente, ma mantengono sempre un alto carisma .

Queste persone sono incredibilmente versatili e si adattano molto bene in qualsiasi ambiente. I Cavallucci marini sono davvero molto piacevoli, amano essere adorati, e ricambiano facilmente l’affetto che ricevono.

Le leggende ritraggono il cavalluccio marino come salvatore caritatevole di tante fanciulle cadute tra i flutti, e molti autori latini, da Galeno a Plinio il Vecchio, narrano con partecipazione le virtù medicali delle polveri da esso ricavate, impiegate in farmacopea per rimarginare le ferite. Analizzando il simbolo in campo mitologico, il cavalluccio marino è un animale con corpo metà cavallo e metà pesce, su cui le ninfe marine cavalcavano nelle profondità dell’oceano, simbolo dell’inconscio. Come il mare rappresenta l’inconscio, così l’ippocampo simboleggia il mezzo con cui lo si esplora.
In maniera più comune viene considerato simbolo di fedeltà coniugale.


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LA CALCE

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Già i Romani ed i Fenici prima avevano imparato ad usare la calce come materiale da costruzione, mescolata con la sabbia a formare la malta. Vitruvio, nella sua opera De architectura ne descrive la produzione a partire da pietre bianche, cotte in appositi forni (le calcare) dove perdono peso (oggi sappiamo in conseguenza della liberazione di anidride carbonica). Il materiale ottenuto, la calce viva, era poi spenta gettandola in apposite vasche piene di acqua.

Inizialmente adoperata nella forma di calce aerea (che indurisce solo se a contatto con aria) venne successivamente mischiata con pezzi di argilla cotta (vasellame, mattoni ecc.) oppure a pozzolana, una sabbia ricca di silice, che ne alterano le caratteristiche di resistenza, impermeabilità e soprattutto ne consentono la presa anche in ambienti non a contatto con aria (tipicamente sott'acqua). Nascevano così le malte idrauliche, sebbene a base di calce aerea.

In tempi moderni, gli ingegneri francesi della scuola di Ponts et Chaussées nel 1750 iniziavano a costruire le fondazioni dei ponti mescolando al cemento quella stessa calce idraulica che sarà studiata dall'inglese John Smeaton. Alcune marne calcaree contengono al loro interno impurità argillose o silicee; da questi minerali si può ottenere la calce idraulica naturale in quanto contiene già le caratteristiche di idraulicità senza l'aggiunta di parti esterne.

È il prodotto di cottura della pietra da calce, che è un calcare costituito di carbonato di calcio allo stato di discreta purezza; è uno dei cementati, e tra di essi è il solo che dà il fenomeno dello spegnimento quando è messo in contatto dell'acqua. Si distingue la calce aerea dalla calce idraulica; la prima fa presa solo all'aria, la seconda fa presa all'aria e sott'acqua.
Quanto è antica l'arte del costruire con pietre naturali od artificiali, altrettanto antica è l'industria della preparazione della calce, mediante la cottura del calcare, e la sua applicazione a preparare quelle malte (miscele di calce, sabbia ed acqua) che nelle costruzioni servono ad ottenere, a causa del fenomeno di presa, l'adesione dei materiali adoperati. Così si possono ottenere grandi strutture quasi monolitiche partendo da materiale di piccola dimensione, come i mattoni.
Nella cottura del calcare (prescindendo per ora dalle impurità che esso può contenere e che possono superare anche il 10 e il 15%) avviene la reazione: CaCO3 ? CaO + CO2. Si ha cioè eliminazione di anidride carbonica con perdita del 44% circa in peso, il calcare si contrae da 1/10 fino ad 1/5 del proprio volume, e resta l'ossido di calcio chiamato calce viva. Siccome la tensione di dissociazione del carbonato di calcio raggiunge 760 mm. solo ad 812°, è conveniente per la rapidità dell'operazione eseguire la cottura a temperature intorno agli 800°; e siccome la reazione provocata dalla cottura è una dissociazione, bisogna che nei forni impiegati non stagni l'anidride carbonica; ne deriva la pratica, applicata da qualche fornaciaio, di bagnare la pietra da calce con acqua, giacché lo svolgimento del vapore aiuta lo spostamento dell'anidride carbonica. L'uso di temperature superiori agli 800° accelererebbe la cottura; però la calce viva ottenuta a temperatura molto elevata reagisce con qualche difficoltà con l'acqua (si spegne male); economicamente poi l'operazione non sarebbe conveniente.

Diversissimi sono i forni adoperati per la cottura del calcare. Dai più antichi che consistevano in una semplice cavità praticata nel terreno, nella quale si disponeva la pietra da cuocere e sotto di essa si bruciava del combustibile, si, arriva ai forni moderni che si possono distinguere in intermittenti e in continui; questi ultimi possono essere stazionari (o verticali), e rotativi, simili a quelli usati per la cottura del cemento, quantunque di dimensioni più modeste essendo inferiore la temperatura richiesta per la cottura. Si noti che i forni stazionari forniscono un materiale in grossi blocchi (zolle), come appunto si usa in Italia mettere in commercio la calce, mentre i forni rotativi dànno un materiale piuttosto minuto. Vario è il consumo di combustibile nei diversi tipi di forni: come media si ritiene che esso sia del 10 al 15% della calce, se si tratta di carbon fossile, e del 30 al 35% se si ratta di legna.

La calce viva si presenta con colore variante dal bianco al giallastro; essa oltreché nella preparazione delle malte è usata in moltissime industrie, si può dire ovunque occorre un alcali attivo e a buon mercato. Se ne consumano quantità notevoli nella preparazione della soda, della soda caustica, della potassa caustica, dei saponi, dell'ammoniaca, del cloruro di calce (polvere imbiancante), nella depurazione del gas luce, in metallurgia, nell'industria degli zuccheri, in alcune operazioni di tintoria, nella preparazione del vetro e di materiali rarefatti; ha applicazioni come correttivo di terreni e come disinfettante.

Caratteristico per la calce viva è il fenomeno dello spegnimento quando la si tratta con acqua. Spruzzata con acqua, o immersa per mezzo di un cestello per qualche minuto nell'acqua, essa comincia a riscaldarsi, la temperatura può in qualche caso elevarsi sino a 300°: parte dell'acqua viene eliminata come vapore, il materiale si sgretola e finisce col polverizzarsi, aumentando notevolmente di volume. Si ottiene la calce spenta rispondente alla composizione Ca (OH)2 se l'acqua impiegata è in quantità sufficiente. Aggiungendo acqua alla calce spenta si ottiene prima una pasta densa, untuosa, il grassello, che per nuova aggiunta d'acqua si converte in una poltiglia più o meno consistente, il latte di calce, e finalmente in un liquido limpido, soluzione di idrossido di calcio, l'acqua di calce. Il grassello lasciato all'aria essicca e si fessura.

Il fenomeno dello spegnimento serve a classificare le calci quando si tenga conto della rapidità con la quale si effettua, della temperatura che produce e dell'aumento di volume del grassello rispetto alla calce viva. Si chiama rendimento di una calce il rapporto del volume del grassello (misurato ad incipiente fessurazione) al volume della calce viva. Le calci sotto questo riguardo si dividono in:  Calci grasse sono quelle che si spengono più rapidamente, dànno maggiore elevazione di temperatura; il grassello è consistente ed untuoso, il rendimento varia tra 2 e 3; 2. Calci magre sono quelle che si spengono lentamente; il grassello è poco legante, l'acqua assorbita è minore, il rendimento è inferiore a 2.

Dalla cottura di calcari sufficientemente puri si hanno calci grasse, da quella di calcari non puri le magre; ottime le prime, scadenti le seconde quando le impurità del calcare non siano costituite da argilla.

Adoperando la calce per costruzioni bisogna anzitutto preparare il grassello, e questa operazione deve essere fatta qualche giorno prima della messa in opera per essere sicuri che tutto l'ossido si sia idratato e non siano rimasti noduli di calce viva, che spegnendosi dopo la messa in opera produrrebbero con il loro rigonfiamento degli scrostamenti, specialmente negli intonachi. Il grassello si conserva in fosse sotto acqua ed ivi lo si tiene per due o tre mesi quando deve servire per pitture a fresco (pare che così restino eliminati sali solubili dannosi). Per la messa in opera bisogna fare una malta con grassello, sabbia ed acqua; la malta interposta fra le pietre serve a legarle. È necessaria l'aggiunta di sabbia; l'uso del solo grassello non produrrebbe legamento, giacché il grassello per essiccamento si contrae e si fessura, se invece è mescolato con sabbia la sua contrazione non è tanto sentita avvenendo sulle piccole porzioni che restano fra i grani di sabbia che costituiscono una specie di scheletro. Non bisogna però eccedere nella quantità di sabbia, perché si ridurrebbe il potere collegante; buona norma è preparare la malta in proporzioni tali che, avvenuta la presa, non si abbia materiale troppo prezioso. Si capisce che la sabbia non deve essere costituita da minerali facilmente friabili; la migliore sarebbe la silicea; non conviene l'uso di sabbie argillose, le sabbie marine si usa alcune volte lavarle con acqua dolce per liberarle dai sali solubili che potrebbero provocare macchie di umidità nella costruzione.

Si chiama presa l'insieme dei fenomeni presentati dalla malta dopo la messa in opera, e che originano il collegamento tra le varie pietre. Dapprima si ha l'essiccamento, cioè la malta perde l'acqua d'impasto; dopo segue il periodo di carbonatazione: la calce spenta Ca(OH)2 si converte in carbonato di calcio CaCO3 combinandosi con l'anidride carbonica contenuta nell'aria; infine la cristallizzazione del carbonato di calcio consolida il tutto. Il fenomeno della carbonatazione è molto più lento dell'essiccamento dovendo l'anidride carbonica, che viene fornita solo dall'aria, reagire con tutta la calce che trova sul suo cammino prima di penetrare attraverso fori capillari nell'interno dei muri. In demolizioni di vecchie murature di fortezze, molto spesse, si trovò all'interno calce non carbonatata.

Analisi di malte vecchie hanno fatto invocare anche un altro fenomeno come determinante della presa, la silicatizzazione, cioè la combinazione della calce con la silice della sabbia. Si potrebbe prestar fede alle analisi se esse si potessero ripetere sulle calci prima della messa in opera; certo è che la calce reagisce con la silice, nelle condizioni in cui ordinariamente avviene la presa; la reazione è però talmente lenta da rendere sensibile la sua azione solo dopo qualche decina d'anni, quando cioè la costruzione si è completamente assodata.

Calce idraulica fa presa sott'acqua ed è una calce magra derivante dalla cottura di calcari impuri per argilla. La questione dei cementanti che fanno presa sott'acqua ha sempre attirato l'attenzione dei costruttori, specialmente per opere marine. I Romani adoperavano malte pozzolaniche, cioè impasti di buona calce, pozzolana e sabbia; tale sistema fu seguito per tutto il Medioevo e nei primi secoli dell'era moderna. I materiali pozzolanicí non sono però molto diffusi; il disagio derivante dai trasporti e soprattutto lo sviluppo sempre crescente delle costruzioni a mare spinsero alla ricerca di cementanti che non richiedessero pozzolane. Nel sec. XVIII furono trovati alcuni calcari che per cottura davano calce idraulica; allora in ogni località fu sperimentato un gran numero di calcari e per quelli che producevano calci idrauliche si studiò qual era la sostanza che contribuiva a determinare l'idraulicità. Disparatissime e alcune volte anche strane furono le ipotesi emesse da eminenti chimici e costruttori per spiegare l'idraulicità La questione fu definitivamente chiarita dall'ing. Vicat; egli, in base a lunghi studi, nel primo quarto del sec. XIX enunciò che si potevano avere calci idrauliche cuocendo calcari contenenti argilla intimamente mescolata al carbonato di calcio; in base a questo fondò uno stabilimento per calci idrauliche, fabbricando artificialmente una miscela di calcare puro e di argilla; stabilimento fallito perché il costo della calce non compensava le spese della lavorazione. La produzione pertanto delle calci idrauliche si fa oggi solo cuocendo calcari argillosi naturali.

Nei forni per cottura di calci idrauliche la temperatura deve essere superiore a quella adottata per le calci aeree, deve superare i 900°. Durante la cottura gli ossidi costituenti l'argilla (SiO2, Al2O3, Fe2 O3) si combinano parzialmente con l'ossido di calcio generato dal carbonato di calcio originando dei composti di calcio (silicati, alluminati, ferriti) che per idrolisi con l'acqua generano il fenomeno della presa senza l'intervento dell'anidride carbonica dell'aria.

La calce idraulica è messa in commercio in zolle o in polvere. Nulla di speciale vi è da osservare per le zolle; la calce viene inviata ai cantieri quale esce dai forni. Invece bisogna avere speciali avvertenze quando la calce idraulica è messa in commercio in polvere. La polvere non si prepara per macinazione, ma con un processo di parziale spegnimento. La calce viene distesa in strati di uno spessore di 40 a 50 cm., la si innaffia con acqua, cioè si provoca il fenomeno dello spegnimento avendo cura di non eccedere nella quantità di acqua, in guisa da arrivare ad una polvere secca, non ad una pasta; si aiuta l'operazione rimescolando lo strato. La pratica insegna a dosare l'acqua; teoricamente si dovrebbe adoperarla in quantità appena sufficiente a convertire in idrato, Ca(OH)2, con la calce viva, CaO, ancora contenuta nel prodotto cotto e non combinata con gli elementi dell'argilla, cioè la calce libera; l'idratazione dei silicati, alluminati, ferriti, produrrebbe i fenomeni determinanti la presa prima della messa in opera della calce. La calce sfiorita, dopo raffreddamento, viene passata ai buratti che la dividono in una polvere fina, fior di calce o calce idraulica leggera, e in noduli di diversissime grandezze chiamati grappiers. La calce idraulica leggera viene posta in sacchi o in barili e messa in commercio.

Duplice può essere l'origine dei grappiers. Essi non si formerebbero se il calcare cotto fosse omogeneo se la cottura riuscisse uniforme; trattandosi però di materiale naturale è facile trovare in esso punti di irregolare composizione ed è pure facile avere temperature non uniformi in tutti i punti del forno; si capisce che in tali punti l'ossido di calcio si sarà combinato in diversa proporzione coi costituenti dell'argilla producendo composti che con l'acqua più non si spengono (cementi). I grappiers vengono essiccati, macinati, e la polvere è messa in commercio come cemento di grappiers, ben diverso dal cemento Portland. Alcuni mescolano la polvere dei grappiers al fior di calce; in commercio tale prodotto prende nome di calce idraulica pesante.

Le calci limiti fanno presa rapidamente e prontamente induriscono; presentano l'inconveniente di rammollirsi col tempo, quindi il loro uso dev'essere molto controllato. Data poi la composizione chimica dei calcari che portano alle calci limiti, è preferibile cuocerli a temperature più elevate e preparare dei cementi, prodotti di valore ben più alto.
La calce viva (calcium oxydatum) fu adoperata come caustico, associata per lo più alla potassa (pasta caustica di Vienna) e per disinfezione. Per quest'ultimo scopo serve anche il latte di calce che si prepara spegnendo in poca acqua 100 parti di calce viva e diluendo poi con acqua fino al volume di mille parti. L'acqua di calce è la soluzione acquosa satura, a temperatura ordinaria, d'idrato di calce; si unisce spesso al latte di vacca che rende più digeribile, perché facilita la formazione nello stomaco di fini coaguli di caseina.

La calce viva è il più importante tra i correttivi dell'acidità del terreno agrario e presenta anche il vantaggio di essere facilmente trasportabile e perciò utilizzabile in posti lontani da quello di fabbricazione. Disposta sui campi da calcitare in grandi mucchi, essa subisce l'azione dell'umidità e dell'aria e si idrata lentamente, trasformandosi in idrato di calcio o calce sfiorita. L'idrato può essere ottenuto da un conveniente annacquamento; è però sempre opportuno limitare la quantità di acqua perché l'idrato risulti polveroso e asciutto, in condizioni cioè da poter essere uniformemente sparso e incorporato nel terreno. È pertanto opportuno coprire con uno strato di terreno i mucchi esposti all'idratazione, in maniera da proteggerli da eventuali precipitazioni atmosferiche.

Nel terreno l'idrato si va poi trasformando in carbonato, cioè nel prodotto di origine, perché la calce viva si ottiene dalla calcinazione del calcare o carbonato di calcio.

È superfluo aggiungere che il carbonato così ottenuto presenta su quello originario il vantaggio di un'estrema sottigliezza e quindi di una rapida attaccabilità da parte degli acidi, laddove il calcare destinato alla preparazione della calce viva, anche se finemente polverizzato, può presentare una grande resistenza agli acidi del terreno e in qualche caso riuscire del tutto inattivo. Il maggior costo della calce viva rispetto al calcare è però compensato dalla rapidità di azione del carbonato di cahio estremamente suddiviso al quale si perviene.

Si usava in passato fabbricare calci idrauliche artificiali secondo i processi: 1. di doppia cottura, consistente nel mescolare argilla con calce spenta, formare dei blocchetti e cuocerli; 2. di semplice cottura, consistente nel mescolare argilla con carbonato di calcio e cuocere tutta la massa.

D'altro canto, in quasi tutte le regioni esistono giacimenti di calcari adatti alla fabbricazione delle calci idrauliche naturali. Frequentissimi sono tali giacimenti nel Giurassico e nel Cretacico inferiore.

I dati fondamentali di ogni progetto di fabbrica di calce idraulica naturale sono quelli che riguardano il giacimento di calcare, così dal punto di vista della qualità come dal punto di vista della quantità; quindi, per evitare sorprese, bisogna procedere alla presa di numerosi campioni del calcare studiato. Va poi risolta la questione dei trasporti facendo sporgere gl'impianti in località raccordate alla ferrovia; o, meglio ancora, in prossimità di vie d'acqua.

Secondo la natura del giacimento, l'estrazione è fatta a cielo aperto o in galleria. La natura della roccia consiglia diverse pezzature: un calcare compatto cuoce meno facilmente di un calcare tenero e perciò nel primo caso occorrono frammenti più piccoli che non nel secondo. Inoltre la polvere e i frammenti troppo piccoli riducono fortemente il tiraggio dei forni. Se poi il calcare caricato nel forno è leggermente umido, cresce il tiraggio del forno, sicché sovente si inumidisce il calcare da caricarsi. Con qualunque metodo di cottura, i prodotti migliori si hanno cuocendo un calcare di un solo tipo, non già una miscela di calcari differenti, poiché la temperatura di cottura differisce alquanto dall'uno all'altro tipo di calcare.
Se la roccia impiegata è costituita da carbonato di calcio e silice pura il prodotto sarà bianco, se invece il carbonato contiene ossido di ferro e di manganese il prodotto assumerà colori differenti secondo la natura dei composti formatisi durante la cottura.
Mentre nelle condizioni ordinarie di cottura un calcare diminuisce di peso in seguito alla sua decomposizione, se si esamina una roccia in cui gli elementi si trovano in proporzioni di dare del cemento, si osserva che il peso specifico della materia prima è di 2,50 sale a 2,60 quando tutta l'anidride carbonica è stata scacciata, mentre raggiunge il valore di 3,15 in seguito alle combinazioni chimiche che possono effettuarsi durante la cottura. La densità delle calci idrauliche è intermedia tra quella della calce aerea (2,20) e quella del cemento (3,15) e si avvicina in genere a 2,90.
Le esperienze eseguite sulla decomposizione del carbonato di calcio hanno portato a concludere che la decomposizione è nulla a 350°, si inizia a 440°, è notevole a 860° e che infine la tensione di decomposizione raggiunge la pressione atmosferica attorno ai 925° (Le Châtelier).

Una corrente d'aria (Birnham e Mahon) o di vapor d'acqua (GayLussac) consente di abbassare la temperatura di decomposizione perché in tal modo si allontana continuamente l'anidride carbonica, uno dei prodotti della decomposizione del calcare.

I forni generalmente si caricano, per la cottura, calcare e combustibile in strati sovrapposti.

La schematizzazione del processo di cottura è la seguente: nella parte bassa del forno avviene il raffreddamento della massa cotta, nella parte mediana la cottura, nella parte alta il preriscaldamento del calcare; l'aria necessaria alla combustione è riscaldata dal calcare cotto, che va così raffreddandosi; i prodotti della combustione riscaldano invece la parte superiore. Teoricamente la pietra dovrebbe uscire fiedda dal forno ed i prodotti della combustione alla temperatura più bassa possibile; la parte calda del forno dovrebbe essere soltanto quella centrale. Raramente, però, si può regolare il fuoco in questo modo; è invece frequente il caso in cui i prodotti della combustione sfuggano assai caldi dal camino e con notevole contenuto in ossido di carbonio.

Allo scopo di ottenere un più regolare andamento della combustione si sono progettati ed anche messi in esercizio dei forni con focolari indipendenti posti lateralmente ai forni e dei forni a gas; i primi vennero abbandonati perché risultavano di scarsissimo rendimento termico; i secondi, di costruzione assai difficile e notevolmente costosa, presentano buoni rendimenti, ma non sono largamente adottati perché si confida che la soluzione del problema della cottura dei calcari stia nella costruzione di un forno rotativo ben adattato.

I combustibili variano a seconda delle regioni: si usano di solito carboni magri ed antracite, soli o mescolati. Secondo il tipo del forno, la natura del calcare e quella del combustibile il consumo di combustibile oscilla tra i 120-250 kg. per tonnellata di calce prodotta. I forni antichi erano a funzionamento intermittente; essi sono talvolta ancora usati nella cottura delle calci grasse.

Per aumentare la produzione di ciascuna unità e per avere forni a funzionamento continuo si arrivò a forni del diametro massimo di 4 metri e un'altezza di 15 metri; non è detto però che tale forma sia la più razionale, soprattutto per il forte restringimento nella parte bassa, che rende difficoltosa la discesa delle pietre.

Sono ora adottati forni con camera cilindrica o quasi; l'aria entra da quattro aperture dalle quali è pure possibile estrarre la pietra cotta: l'altezza del forno è limitata a circa 10-15 metri per evitare di dover impiegare un ventilatore che assicuri il tiraggio.

Nei grandi impianti recentemente costruiti la pietra cotta cade direttamente in trasportatori posti sotto i forni e lungo l'asse longitudinale; la carica si fa rovesciando i vagonetti che scorrono su di una passerella che collega i vari fori. Un forno della capacità di 80 mc. produce in media circa 18-20 tonnellate di calce cotta.

Per avere prodotto buono e prodotto uniforme è necessario che il forno funzioni con la massima regolarità; occorre sorvegliare attentamente la combustione in modo che i prodotti di essa si scarichino a temperatura relativamente bassa e praticamente esenti di ossido di carbonio.

Ammettendo di cuocere un calcare che contenga l'80% di carbonato di calcio e il 20% di argilla e che richieda per la sua cottura il 10% di carbone (che contenga a sua volta il 10% di ceneri) rispetto alla calce prodotta, se l'eccesso d'aria fosse nullo, il fumo dovrebbe essere costituito da 40%, di CO2 e da 60% di N2 in volume ed essere esente da ossigeno e ossido di carbonio. Naturalmente questo è un dato teorico e in pratica si hanno risultati diversi.

Per ottenere un buon prodotto, la pietra cotta dev'essere assoggettata ad un'accurata cernita, scartando gli elementi non cotti e quelli sovracotti. Naturalmente la cernita diventa poco importante quando i forni funzionino regolarmente; in questi casi si usano trasportatori che consentono l'effettuazione della cernita.
Per rendere più regolare l'estinzione e per abbreviare il soggiorno nei silos è opportuno procedere alla frantumazione della pietra cotta, che dai forni viene direttamente trasportata agli apparecchi di alimentazione di frantoi a mascelle.
Prima di essere impiegata nella confezione delle malte, la calce deve essere spenta.

Se si versa dell'acqua su un frammento di calce viva, l'acqua è immediatamente assorbita; dopo un po' di tempo l'intera massa si riscalda fortemente per effetto della reazione Ca O2H2O ? Ca(OH)2; una parte dell'acqua pertanto evapora, la massa si fessura, crepita e si polverizza.

La quantità di acqua teorica sarebbe quella deducibile dalla soprascritta reazione; la quantità d'acqua impiegata è sempre superiore; si può avere così calce in polvere, calce in pasta e infine latte di calce. La sola calce in polvere interessa la fabbricazione della calce idraulica.

Si può spegnere la calce sia lasciandola all'aria aperta (si ha allora una miscela di carbonato e di idrato), sia immergendo per qualche secondo la massa nell'acqua, sia per aspersione. L'aspersione è l'unico mezzo per spegnere le calci idrauliche. In genere la calce trattiene il 6-8% d'acqua; se la calce è idraulica la quantità d'acqua trattenuta aumenta. Bisogna però impiegare un quantitativo d'acqua una volta e mezzo superiore a quella trattenuta.

Quando la natura altimetrica del terreno lo consenta, è opportuno costruire un'officina a parecchi piani; allora le sale di estinzione sono situate in basso; sotto di esse è bene siano poste le fosse per il silotaggio il cui volume deve essere tale che la calce vi possa soggiornare non meno di 20-30 giorni. In generale quanto meglio la calce idraulica è cotta, tanto maggiore è il tempo necessario per l'estinzione; se essa termina in tre giorni circa, vuol dire che la calce è poco idraulica o troppo poco cotta; cioè, o per composizione chimica del calcare o per scarsa cottura, la massa è esclusivamente formata di ossido di calcio, non combinato con la silice e l'allumina, quindi il tempo di estinzione è particolarmente limitato.

Una calce idraulica va macinata molto finemente; non si può sollevare residuo alcuno per staccio da 324 maglie e molto limitato dev'essere detto residuo su staccio da 900 maglie.

Poiché una calce idraulica non è che una miscela di calce aerea e di cemento, una calce sarà tanto più idraulica quanto più elevato sarà il suo contenuto in cemento. Ne viene di conseguenza che quanto più spinta è la macinazione di una calce idraulica, tanto migliori saranno le sue proprietà meccaniche.
La calce non viene quasi mai spedita alla rinfusa per l'eccessiva perdita che presenterebbe. Viene ordinariamente insaccata in sacchi di iuta o di carta, o in barili internamente foderati in carta.
La densità apparente varia entro limiti assai vasti e cioè tra 0,4 e 1 a seconda delle proprietà chimiche del prodotto e del grado di finezza della macinazione. Il peso specifico assoluto varia, invece, a seconda della composizione chimica tra z,20 e 2,98.

Naturalmente è pure assai variabile la quantità d'acqua necessaria per la presa, variando essa rispetto alla calce secca tra il 60 e il 38%. Questi due valori estremi diversissimi, allorquando si tratta di confezionare della malta, si traducono per effetto della sabbia aggiunta, in valori meno distanziati (tra il 13 e il 10%).

Il fenomeno della presa in una calce idraulica è molto delicato, soprattutto quando la presa è molto lenta. Data la costituzione della calce idraulica (miscela di calce aerea e cemento), si comprende come la resistenza offerta dalla malta di calce idraulica sia assai variabile. Però con un calcare di media idraulicità si può facilmente ottenere una calce idraulica che risponde alla richiesta dei capitolati delle grandi amministrazioni pubbliche.

Mentre per una buona calce si può soltanto richiedere che sia esente da materiali dannosi (espansioni), che si spenga bene e che sia bianca, altra cosa è per la calce idraulica.

La silice combinata non deve scendere al di sotto del 16%; la perdita al fuoco non deve superare il 12%; la presa deve iniziarsi non prima di 12 ore e terminare entro la 36ª ora; il residuo per staccio di 900 maglie non deve essere superiore al 5%, mentre su staccio da 4900 maglie il residuo non deve superare il 25%; l'espansività a 100° secondo Le Châtelier non deve superare il 10%; infine il carico di rottura per malte 1:3 deve essere almeno di 2,5 kg./cm. dopo 7 giorni, di 6,8 kg/cm. dopo 28 giorni.

Durante l’epidemia di peste a Milano nel 1629-30, la calce era utilizzata per coprire le fosse comuni in cui erano gettati gli appestati allo scopo di arginare il contagio, poiché era radicata la credenza secondo la quale le epidemie erano causate da un miasma forse originato dai cadaveri o da altra materia che imputridiva sottoterra. Anche a Firenze, durante l’epidemia del 1656, i cadaveri erano gettati nelle fosse comuni “…..ricoperte di calce viva e cintate, per evitare che gli animali randagi disseppelliscano i morti…”. A Bergamo, nell’epidemia del 1630, gli appestati venivano gettati nei “fopponi” (grosse buche comuni scavate fuori dalle Mura venete) e coperti di calce. Per evitare il micidiale fetore che questi cadaveri emanavano, il Capitano Giovanni Antonio Zen dispose che le fosse venissero coperte da un grosso strato di calce viva e sopra di loro arse cataste di legna resinosa. Solo in seguito fu scoperto il potere causticante e battericida della calce viva, tanto che fu impiegata nella disinfestazione di abitazioni e stalle.
Un tempo i contadini usavano la calce mista a solfato di rame contro la peronospera della vite. Anche da noi molti ricordano le poche piante di ciliegio o altri frutti con il fusto imbiancato di calce per evitare l’infestazione degli afidi.
L’ossido di calcio, oltre che nell’edilizia, trova parecchie applicazioni in svariati campi, alcune recenti, altre invece piuttosto antiche e che si sono mantenute nel tempo, con le opportune modifiche. La calce spenta è essenziale nella produzione dello zucchero, sia di canna che di barbabietola, soprattutto nel processo di raffinazione. La calce viene aggiunta al succo grezzo di canna con basso pH che si ottiene trattando con acqua il raccolto  contenente impurità. La calce spenta viene aggiunta al succo per far alzare il pH e, reagendo con le impurità, forma composti organici di calcio insolubili e che possono essere facilmente rimossi. Per quest’operazione sono necessari dai 2,5 ai 5 kg di calce per ogni tonnellata di zucchero di canna prodotta. Lo stesso procedimento avviene anche per lo zucchero di barbabietola, salvo il fatto che è necessaria molta più calce rispetto allo zucchero di canna. Benché il passaggio dai processi acidi a quelli alcalini abbia ridotto il suo impiego, la calce è un prodotto importante per l’industria della cellulosa di carta. La maggior applicazione in questo settore è quella di agente caustificante negli impianti di solfato. In questo processo, la soluzione di scarico di carbonato di sodio viene recuperata e reagisce con la calce, ad elevato contenuto di calcio, per formare soda caustica da riutilizzare nel processo. Un’altra applicazione della calce si trova nel procedimento di sbiancatura della cellulosa, ottenuta attraverso l’interazione di calce e cloro. L’ipoclorito di calcio è il candeggiante più antico e più economico che ci sia, per questo è largamente usato nelle cartiere.
Nell’industria metallurgica la calce viva trova il suo maggior impiego come fondente nella purificazione dell’acciaio sia nei forni, ad ossigeno basico, che nei moderni forni ad arco elettrico. La calce è particolarmente efficace nella rimozione di alcune impurità come fosforo, zolfo e silicio. La calce viva è solitamente aggiunta alla miscela nel forno dopo l’inizio del “soffiaggio” dell’ossigeno, quando, reagendo con le impurità forma delle scorie che possono essere rimosse.
Molto importante è l’impiego della calce nel trattamento dell’acqua potabile e delle acque industriali, soprattutto nel processo d’addolcimento. La funzione della calce in questo processo è di rimuovere dall’acqua la durezza da “carbonato” (causata da bicarbonati e carbonati di calcio e magnesio).
La calce spenta è usata anche per regolare il pH dell’acqua e prepararla per altri processi. Nei trattamenti d’acque non potabili riduce la corrosione delle tubature, raccogliendo la quantità eccessiva d’anidride carbonica e neutralizzando l’acqua acida. Nei moderni impianti di trattamento delle acque di scarico, la precipitazione della calce è impiegata nei processi in cui il fosforo viene precipitato come fosfato di calcio con altri solidi sospesi o dissolti. Il trattamento con la calce, inoltre, controlla l’ambiente necessario per la crescita d’agenti patogeni nei rifiuti biosolidi e converte i fanghi in prodotto utilizzabile.
La calce è ampiamente impiegata in molti processi chimici per ottenere dei prodotti d’uso comune: ad esempio nel processo di purificazione dell’acido citrico è aggiunta calce spenta. Anche se sostituito da altri sistemi, la calce è ancora impiegata per la produzione della soda caustica. La fonte più antica di acetilene, il carburo di calcio, si forma mescolando calce viva e coke, scaldati ad una temperatura di 2000° C.  L’acetilene viene prodotto dal carburo a cui è aggiunta acqua, ottenendo gas e calce spenta di scarico. Oltre a questi esempi, la calce è impiegata per la produzione di molti altri prodotti chimici, organici ed inorganici e di prodotti farmaceutici. Usata in piccole quantità, la calce è impiegata nell’agricoltura per regolare il pH dei terreni agricoli o per altre numerose applicazioni agricole. Nell’industria casearia, oltre che come detergente negli ambienti di lavorazione del latte, è utilizzata per formare il lattato di calcio, prodotto commercializzato per scopi medicinali. Per mantenere fresche per lunghi periodi di tempo frutta e verdura, viene utilizzata la calce per assorbire l’anidride carbonica (CO²) emessa dai prodotti freschi in maturazione.
Da secoli la calce viene utilizzata come componente primario della malta per muratura e questo è certamente l’impiego più conosciuto dell’ossido di calcio.



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