domenica 13 novembre 2016

L'ALBERO DELLA CANFORA

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L'albero della canfora (Cinnamomum camfora) è un grande albero sempreverde originario dei Paesi asiatici Cina, Taiwan e Giappone, dove la sua crescita è spontanea. Nell'area mediterranea l'albero è presente soltanto se coltivato. Raggiunge un'altezza tra i 20 e i 35 metri ed ha un fusto massiccio ed eretto. La sua chioma è rotonda e molto ramificata. La corteccia è si colore marrone grigiastro con fessure profonde. Le foglie sono ovali e di grandi dimensioni, di colore verde scuro ed un po' appuntite. Nel momento in cui spuntano, le foglie sono rosse con venature verde chiaro. Nella stagione primaverile l'albero della canfora produce spighette formate da fiorellini di colore bianco crema, non molto appariscenti. In seguito, appaiono delle bacche rosse rotonde che, a maturazione conclusa, diventano nere.

Note a tutti sono le proprietà antisettiche e antiparassitarie della canfora, tanto che si è soliti utilizzare la stessa per proteggere gli indumenti. Diversi studi sono stati condotti anche sull’azione repellente della canfora nei confronti di parassiti, funghi e insetti e, quindi, sul suo possibile impiego nell’industria alimentare.

La canfora si è dimostrata utile per la conservazione di semi dall’attacco di parassiti e insetti; altra azione è rivolta contro funghi tossigeni, dove la canfora agisce bloccando la crescita degli stessi.

La canfora è presente in commercio soprattutto sottoforma di olii, unguenti e creme per applicazioni topiche.

La canfora, per uso esterno, è utilizzata per il trattamento di problematiche infiammatorie. Applicata sulla cute è in grado di richiamare il sangue; quest’azione rubefacente è utile nella cura delle nevralgie, delle infiammazioni, distorsioni, reumatismi, crampi e dolori muscolari.

Inoltre la canfora agisce in modo efficace anche nel trattamento di stadi febbrile e bronchiti. La canfora abbassa di poco o nulla la temperatura normale corporea, ma di molto quella febbrile. La canfora ha dimostrato una buona azione antibatterica e antifungina.



Per uso interno è utilizzata raramente come cardiotonico o come rimedio per la tosse. La canfora rappresenta uno dei migliori rimedi per il cuore e la circolazione.

Per uso esterno ed alle dosi massime consigliate la canfora non da reazioni avverse, a meno che la persona non sia sensibile al tale principio attivo.

L'avvelenamento per canfora è rarissimo e in ogni modo i sintomi sono di breve durata; nelle intossicazioni gravi si manifestano nausea, vomito, vertigini, disturbi visivi, movimenti impulsivi, delirio, perdita della coscienza.

Un albero di canfora è stato impiantato nel 1820 dal conte Vitaliano VIII Borromeo (1792-1874) nei giardini del palazzo Borromeo sull'Isola Bella (Stresa), sul Lago Maggiore. Nel 1907 aveva 4,30 m di circonferenza del tronco alla base e un'altezza di 24 m, mentre la chioma raggiungeva un diametro di 16 m, mentre secondo gli elenchi stilati dal Corpo forestale dello Stato ha raggiunto in seguito una circonferenza del tronco di 5,8 m per un'altezza di 17 m. L'albero è citato in Piccolo mondo antico, il romanzo di Antonio Fogazzaro, dove viene ammirato dallo zio di Luisa nel corso di una visita ai giardini del palazzo.

Un esemplare ancora più grande è presente al Parco di Capodimonte a Napoli, presente negli elenchi del Corpo forestale dello Stato è caratterizzato da 6,7 m di circonferenza alla base e 17 m di altezza ed è ritenuto dal corpo un esemplare di eccezionale valore storico e monumentale. Un altro esemplare di notevole importanza è presente nel cosiddetto "giardino segreto" della Regina Maria Amalia di Sassonia, consorte del Re Carlo di Borbone, nel real sito denominato "Reggia di Portici", in provincia di Napoli.



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giovedì 10 novembre 2016

IL TUCANO



Il tucano toco è il più grande fra le 11 specie di tucani. Misura 53-60 centimetri di cui ben 19 spettano al becco; il peso si aggira sui 550 grammi. Il piumaggio è di un bel nero brillante che fa risaltare ulteriormente il becco arancione. Sulla sua punta è presente una macchia nera di forma ovale. La gola è bianca. Quando è in volo si notano le copritrici rosse della coda e il codrione bianco. Attorno agli occhi, viola o blu, è presente una zona di pelle nuda di colore giallo-arancione. Il becco, nonostante all'apparenza sembri molto pesante, è in realtà cosparso di sacche d'aria che lo rendono leggerissimo. Possiede una lunga lingua consumata ai lati. Le zampe sono grigie, corte ma molto robuste, con due dita rivolte in avanti e due indietro per facilitare l'appoggio sui rami.
Il tucano toco, sebbene sia meno socievole di altri tucani, è un uccello che vive in comunità suddivise in piccoli gruppi familiari di circa dieci o dodici individui. Ogni famiglia si sposta separatamente durante le ore dedicate alla ricerca del cibo, ma tornano tutte insieme durante le ore di riposo. Le famiglie volano assieme; il volo è ondulato e aggraziato, che alterna planate a volo battuto. Il becco viene utilizzato per spaventare i predatori, ma non è una vera arma, è anzi molto fragile rispetto alle apparenze.

Il suo becco, enorme e colorato, lo ha reso uno degli uccelli più popolari al mondo. Il becco del tucano è lungo circa 19 centimetri e può essere considerato come un tratto desiderabile per l'accoppiamento, ma in quanto tale è comune sia ai maschi che alle femmine. In realtà, entrambi i sessi usano il becco per afferrare gustosi bocconi e lanciarseli a vicenda in un rituale di accoppiamento basato sullo scambio di frutti.

Come arma di difesa, il becco è più apparenza che sostanza. Si tratta di un osso a nido d'ape che in realtà contiene molta aria. Se le sue dimensioni possono fungere da deterrente per i predatori, esso è di scarsa utilità per combatterli. Ma il becco del tucano è utile come strumento di alimentazione. Gli uccelli lo usano per cogliere frutti da rami troppo esili per sostenere il loro peso e per sbucciare il raccolto. Oltre alla frutta questi esemplari mangiano insetti e a volte piccoli uccelli, uova o lucertole.
Il tucano è notoriamente un giocherellone. Tra i suoi giochi preferiti, i combattimenti col becco sono i più frequenti; i contendenti amano spingersi a vicenda finché uno dei due cede. Un'altra particolarità di questi Piciformi è lo strano modo di riposare: dentro la cavità di un albero dormono anche in sei; ognuno appoggia il proprio becco sul dorso, ruotando il capo di lato, e porta la coda vicino alla testa, diventando così delle piccole palle.
Sebbene sia stanziale, alle volte effettua delle brevi migrazioni per l'inverno, oppure, in determinati anni, si sposta in stormi numerosi per occupare nuovi territori.



Il verso del tucano è un suono profondo, alto e monotono, udibile a quasi un chilometro di distanza.

Principalmente frugivoro, il tucano si nutre anche di insetti, piccoli uccelli, uova e rettili, granchi, piccoli pesci che trova nei ruscelli e anche di topi.

Il maschio corteggia la femmina lanciandole col becco una bacca o un altro frutto. Se la femmina ricambia, lancia a sua volta la bacca al maschio, creando così un grazioso rituale amoroso. Il nido non è altro che una cavità di un albero posta molto in alto. La femmina vi depone dalle due alle quattro uova. Il periodo di incubazione è di 16-20 giorni, dopo i quali nascono dei pulcini senza piume e ciechi. Lo sviluppo è molto lento, i piccoli apriranno gli occhi solo dopo tre settimane. I genitori si prenderanno entrambi cura dei piccoli fino a sei settimane dopo che avranno messo le piume. I pulcini hanno un tipico cuscinetto carnoso sotto le zampe che li protegge dalla ruvidezza della cavità, il quale sparirà col passare del tempo.

Questo tucano vive nel Sud America centro-orientale. È presente in Guyana, Suriname, Guayana Francese, Brasile, Perù orientale, Bolivia, Paraguay e nord Argentina.

Frequenta i boschi, le foreste a galleria, le zone alberate della savana, le campagne aperte e le piccole macchie di arbusti; evita il fitto della foresta pluviale, preferendo le zone più aperte. Lo si incontra anche presso i corsi d'acqua e nelle vicinanze degli insediamenti umani.

Quest'icona tra gli uccelli è assai popolare come animale domestico, e molti tucani vengono catturati proprio per soddisfare la domanda di questo mercato.

Le popolazioni indigene guardano questo uccello con venerazione: secondo la tradizione sarebbe un canale di comunicazione tra il mondo dei viventi e quello degli spiriti.

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VIVERRE

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Le viverre sono un genere di Carnivori della famiglia dei Viverridi (sottofamiglia dei Viverrini), comprendente le 3 specie di viverre propriamente dette o civette dell'Asia meridionale: Viverra zibetha, Viverra megaspila e Viverra tangalunga, che vivono in una varia gamma di habitat. La specie più nota è Viverra zibetha, lunga sino a 80 cm ca., dalla pelliccia a pelo lungo, con fitta maculazione nera su fondo grigiastro o bruno-fulvo, con alcune strisce larghe bianche e nere sui lati del collo e della gola, formanti di solito 3 collari neri e 2 bianchi. Ha unghie retrattili. Di abitudini terricole e notturne, vive prevalentemente nelle foreste; la dieta è carnivora, integrata da vegetali. Le sue ghiandole anali producono lo “zibetto” in grande quantità, sostanza pregiata per la profumeria, ciò che ne motiva l'allevamento in cattività. Viverra megaspila è limitata a parte della Malesia, mentre Viverra tangalunga alle Indie orientali e alle Filippine.

La Viverra-civetta o Civetta misura circa cm. 70 di lunghezza di testa e tronco, 35 di coda e 30 di altezza alla spalla, ha forma robusta, con arti relativamente alti, testa assai larga con muso aguzzo, rinario piuttosto stretto, occhi relativamente grandi con pupilla rotonda, orecchi piuttosto piccoli ma acuminati, ghiandole perineali fortemente sviluppate. Il piede anteriore e il posteriore hanno la porzione interdigitale della palma, rispettivamente della pianta, nuda. Il pelame è assai lungo, non molto fitto, piuttosto ruvido, in sostanza grigiobruno argentato più o meno giallastro, assai variamente macchiato e striato di nero; una cresta erigibile, nera, assai cospicua va dalla nuca fin sulla parte basale della coda. La Civetta si nutre di piccoli mammiferi, di uccelli e particolamente delle loro uova, in mancanza di meglio di rettili, anfibî, insetti, frutta e radici. Partorisce da 2 a 5 piccoli. Se ne distinguono 4 specie e sottospecie (1935) distribuite in Africa a sud del Sahara. La secrezione della ghiandola perineale chiamata in commercio zibetto, dal profumo intenso di muschio, ha avuto e ha tuttora rilevante importanza nell'economia umana, un tempo anche come cardiocinetico ed ora come ingrediente di profumeria specialmente in Oriente. Sino dalla fine del 1500 è documentato il fatto, ancora oggi in uso, che le Civette venivano catturate, tenute in prigionia e largamente esportate per estrarre, circa due volte alla settimana, lo zibetto dalle loro ghiandole perineali. Dall'Egitto questa pratica si diffuse nel passato anche in molte città d'Italia, del Portogallo, d'Olanda e di Germania. Nel 1927 la Colonia Eritrea importò dall'Etiopia per lire 76.000 di zibetto a L. 1800 il chilogrammo.



La Viverra-zibetto o Zibetto, chiamata Tangalunga nella penisola malese e nella Sonda è della statura della precedente o lievemente maggiore, ha forme più snelle, rinario più largo, orecchi un poco più grandi e tondeggianti, palma e pianta rivestite di pelo nella loro porzione interdigitale, pelame più denso, meno ruvido e sprovvisto di cresta dorsale. Se ne distinguono 12 specie e sottospecie diffuse nell'India, India ulteriore, Cocincina, Siam, Annam, Cina, Formosa, Filippine, Sumatra, Borneo, Celebes.

L'Osbornittide si avvicina indubbiamente alle Genette anche per le dimensioni e per l'aspetto generale, ma è di forme un poco meno snelle, con coda assai meno lunga e più villosa. Il rinario è minuto, la palma e la pianta sono nude. L'unica specie, Osbornictis piscivora Allen, dal colore rosso-castagno lucente, con macchie chiare sulla guancia e con la coda nera, vive in luoghi acquitrinosi del Congo Belga tra i fiumi Ubanghi e Congo.


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IL TAPIRO

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Ossa di tapiri fossili sono state rinvenute in Europa ed in Asia, e anche nell'America settentrionale e meridionale. I più antichi di questi reperti datano di 50 milioni di anni fa e molte di queste ossa, benché ovviamente della stessa famiglia, differivano da quelle del tapiro di oggi. Ciononostante, circa 20 milioni di anni fa esistevano dei tapiri che assomigliavano considerevolmente alle specie attuali. La loro ampia distribuzione si è poi ridotta, fino a limitarsi ora a due regioni circoscritte e nettamente separate. È sorprendente come essi siano stati tanto a lungo e così largamente diffusi; non tanto sorprendente è anche il fatto che alcuni di essi siano giunti fino ad oggi, poiché, tra tutti i grossi animali della terra, essi sono probabilmente i più completamente indifesi. Infatti sono normalmente lenti e cauti nei loro movimenti, di solito con il muso vicino a terra, e non sono praticamente mai all'erta per evitare eventuali pericoli. È probabile che la proboscide abbia contribuito più di ogni altra cosa alla loro sopravvivenza. In effetti, può rappresentare una sentinella altamente efficiente, saggiando costantemente l'aria in ogni direzione, perfino durante la ricerca del cibo, poiché viene girata e contorta senza posa, con le narici spalancate. Quindi, quando si afferma che il tapiro è timido, si dovrebbe dire piuttosto che esso è sensibilissimo al suo ambiente e pronto a darsi alla fuga. Dunque, può essere questa la ragione principale per la quale i tapiri, pur di così lontana discendenza ed ora così nettamente separati dal punto di vista geografico, hanno subìto tanti pochi cambiamenti: essi si sono così bene adattati alla vita da non aver bisogno di alcun cambiamento. Sicché, il segreto della loro sopravvivenza può essere ben rappresentato da quella corta, ma straordinaria proboscide.

I tapiri hanno nasi prensili, sono indispensabili per la salute della foreste e sono una specie ombrello.
Oggi sopravvivono quattro specie di tapiro: il tapiro di montagna (Tapirus pinchaque), il tapiro di Baird (Tapirus bairdii), il tapiro americano (Tapirus terrestris) e il tapiro dalla gualdrappa (Tapirus indicus). Le prime tre specie hanno il manto bruno e vivono nelle foreste tropicali dell’America Meridionale, mentre l’ultima è di colore bianco-nero ed è diffusa nel Sud-Est asiatico.

I tapiri si riproducono molto lentamente, hanno un periodo di gestazione di 13-14 mesi e partoriscono solo un cucciolo alla volta. Questa “lentezza” potrebbe condannare i tapiri, minacciati dalla deforestazione e dalla caccia, se la popolazione dovesse subire un declino significativo è molto improbabile che possa riprendersi.

Possono pesare fino a 300 chili. Grazie alla loro stazza i tapiri possono fare leva sugli alberi per raggiungerne i frutti. Sono animali docili per natura, ma possono attaccare se si sentono minacciati, soprattutto una femmina con i cuccioli. I tapiri sono creature notturne, trascorrono il giorno a dormire nelle fitte macchie boschive e si svegliano nel pomeriggio per mangiare.



Le abitudini notturne del tapiro e la sua predilezione per le zone di giungla più impervie fanno sì che sia difficile studiare sul campo questi animali. Tutt’oggi non si sa molto dell’etologia di questi mammiferi e molti dati sono stati raccolti da esemplari in cattività.

I tapiri coprono grandi distanze, attraversano habitat differenti e “creano” un collegamento tra le varie zone della foresta. Ingoiano i semi della frutta, camminano a lungo e defecano lungo i loro percorsi, disperdendo i semi e favorendo la creazione di un flusso genetico vegetale tra gli habitat. Non sono gli unici animali a farlo ma mangiando enormi quantità di frutta, distribuiscono un’elevata quantità di semi. La struttura delle foreste sarebbe molto diversa senza i tapiri.

Questi animali sono caratterizzati da una protuberanza sul labbro superiore, simile ad una piccola proboscide. Questo organo prensile viene utilizzato dai tapiri per afferrare foglie e frutti, come boccaglio quando si trovano in acqua per sfuggire dai predatori o semplicemente per rinfrescarsi.

I tapiri sudamericani sono presenti in tutto il Sud America. Data la loro ampia distribuzione la gente pensa che i tapiri siano molto numerosi, ma in realtà, i vari biomi che occupano non sono collegati. Il loro habitat viene distrutto costantemente e di fatto esistono solo piccole popolazioni isolate di tapiri in Sud America. Eppure ogni anno gli ambientalisti devono fare pressione per mantenere il tapiro sudamericano sulla Lista Rossa Iucn delle specie minacciate.

Recenti studi delle pratiche venatorie degli indigeni dell’Amazzonia hanno rivelato che le aree immediatamente circostanti agli insediamenti delle comunità sono prive di mammiferi. In luoghi nei quali ancora la deforestazione non è arrivata non si trovano tapiri, pecari o aguti, decimati dalla caccia.

Da piccoli i tapiri sono scuri e coperti da strisce longitudinali e macchie gialle e bianche sul corpo e sulle zampe, un po’ come i piccoli cinghiali. Questo manto serve a mimetizzarsi per eludere i predatori e viene sostituito dalla livrea adulta dopo cinque o sei mesi. I cuccioli rimangono con la madre per circa 12-18 mesi dopo la nascita.

Può sembrare che i tapiri somiglino a dei maiali con la proboscide, ma sono in realtà imparentati con i cavalli e i rinoceronti. Le origini di questa eclettica famiglia sono da ricercarsi indietro nel tempo – e lo stesso tapiro è molto antico. Gli scienziati sono dell’idea che questi animali non siano cambiati molto nelle ultime decine di milioni d’anni.

Nel Nuovo Mondo, i tapiri vivono generalmente nelle foreste e nelle praterie del Centro e Sud America. Fa eccezione il tapiro di montagna, che vive ad alte quote sulle Ande: conosciuto anche col nome di tapiro lanoso, per via del suo caldo manto protettivo, è il più piccolo di tutta la sua specie.  Il tapiro più grande si trova invece nel Vecchio Continente, più precisamente nell’Asia sudorientale. Il tapiro malese, dalla caratteristica livrea bianca e nera, può raggiungere i 363 chilogrammi di peso. Vive in Malesia e a Sumatra, tra foreste e paludi. Tutte e quattro le specie di tapiro corrono un più o meno grave rischio di estinzione, a causa soprattutto delle attività di caccia e delle alterazioni ambientali in atto nei rispettivi habitat.


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GIBBONI

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I Gibboni sono scimmie della famiglia Hylobatidae. La famiglia è divisa in quattro generi in base al loro numero cromosomico diploide: Hylobates, Hoolock, Nomascus, e Symphalangus. Il gibbone Bunopithecus è un gibbone scimmiesco estinto che, fino a poco tempo fa, è stato considerato strettamente legato al gibboni hoolock.

Vivono nelle foreste tropicali e subtropicali del Sud-Est Asiatico, su alberi di alto fusto sui quali si spostano agilmente; scendono al suolo raramente. Hanno braccia e dita molto lunghe, alluce forte; sono privi di coda. Vegetariani, si nutrono occasionalmente di insetti e uova di uccelli. Vivono in gruppi familiari. Non vi è dimorfismo sessuale. Specie più comuni sono Hylobates lar, diffuso dalla Cina sud-occidentale a Sumatra, e Hylobates agilis, diffuso in Malesia, Borneo e Sumatra.

Chiamato anche la scimmia minore, il gibbone differisce dalle grandi scimmie (scimpanzè, bonobo, gorilla, orango e l'uomo) in quanto più piccolo, e in possesso di alcuni dettagli anatomici che si avvicinano maggiormente alle scimmie di piccola taglia. Il Gibbone, a differenza della maggior parte delle grandi scimmie, oscillando da un ramo all'altro può fare salti fino a 8 m, e camminare a due piedi con le braccia alzate per mantenersi in equilibrio. Il gibbone è comunemente considerato il più veloce e il più agile mammifero volante. Un aspetto unico della fisionomia del gibbone è che il polso è composto da un giunto a sfera, che consente movimenti biassiali. Questo riduce notevolmente la quantità di energia necessaria nella parte superiore del braccio e del tronco, ma anche di ridurre lo stress sulla spalla. I gibboni hanno anche lunghe mani e piedi, con una profonda spaccatura tra le prime e la seconde dita delle mani. La pelliccia è di solito nero, grigio o marrone, spesso con macchie bianche sulle mani, piedi e viso. Il gibbone maschio a volte finisce con alcune macchie scure nel bianco per dimostrare che è una scelta adatta per l'accoppiamento. Alcune specie hanno un sacco alla gola, che si gonfia e funge da cassa armonica, fungendo da richiamo per gli altri gibbone. Questa struttura è enorme in poche specie, pari alle dimensioni della testa dell'animale. Il teschio del Gibbone somiglia a quello delle grandi scimmie, con una cassa cranica allargata, e le orbite di grandi dimensioni che si affacciano in avanti. Il gibbone ha il naso tipico dei primati con narici che sono vicine tra loro e la faccia in avanti e leggermente verso il basso. I denti sono simili alle grandi scimmie: molari superiori dalle grandi dimensioni e canini importanti.



I Gibboni sono animali sociali, fortemente territoriali e difendono i propri confini con vigorosi effetti vocali. L'elemento vocale, che spesso può essere sentito per distanze fino a 1 km, è costituito da un duetto composto da un paio di gibboni accoppiati. Nella maggior parte dei maschi delle specie, e in alcuni casi anche nelle femmine, cantare assoli è un istinto naturale per attrarre i compagni attraendoli nel proprio territorio. I giunti a sfera e i talloni dei gibboni consentono loro un incredibile velocità e precisione quando oscillano tra gli alberi. Ciononostante, la loro modalità di trasporto può comportare rischi quando si rompe un ramo o una mano scivola, e i ricercatori stimano che la maggior parte dei gibboni subiscono fratture ossee una o più volte durante la loro vita.

Purtroppo, la maggior parte delle specie sono minacciate o in pericolo, soprattutto per il degrado o la perdita del loro habitat forestale.

La presenza umana ha portato anche ad altre attività che hanno contribuito al declino della popolazione, come la caccia per ricavare carne o ingredienti per la medicina tradizionale, e la cattura di esemplari vivi per essere venduti come animali domestici o esibiti negli zoo. Sulla Lista Rossa della IUCN, la maggior parte delle specie viene classificata come in pericolo di estinzione e quattro di esse vengono catalogate come specie in pericolo critico. Una specie compare inoltre sulla pubblicazione biennale I 25 primati più minacciati del mondo 2012-2014.

La piattaforma della Sonda, sopra la quale poggiano le isole del Sud-est asiatico, emerse circa 12 milioni di anni fa creando una nuova porzione di terraferma, che attirò fauna e flora dal resto del continente asiatico. Le fluttuazioni del livello del mare, soprattutto alla fine del Pleistocene, costrinsero una grande massa di continente a ritirarsi e numerose isole a elevarsi di nuovo. In queste circostanze si crearono condizioni di isolamento geografico ideali per la speciazione, con conseguenti migrazioni di queste specie all'interno della stessa piattaforma quando si ristabilirono i ponti di terra. Una volta originatisi vari generi in zone diverse di questa piattaforma (Hoolock, Hylobates, Nomascus e Symphalangus), la suddetta speciazione avvenne in loco, piuttosto che sul continente asiatico.

I resti fossili indicano come possibile antenato degli ilobatidi il Dendropithecus, vissuto in Africa tra 20 e 17 milioni di anni fa. Era una catarrina piccola e agile, parzialmente brachiatrice, con una dentatura che suggerisce una dieta simile a quella dei gibboni e dei siamanghi moderni.

Nel 2010, uno studio basato sul DNA mitocondriale realizzato in specie dei generi Hylobates, Nomascus e Symphalangus ha indicato che la separazione tra gli ilobatidi e gli ominidi (uomo, oranghi, gorilla e scimpanzé) avvenne circa 19,25 Ma, un dato compatibile con altre stime basate sull'analisi del gene del citocromo b mitocondriale, indicanti 16,26 Ma. Lo stesso studio situa la divisione tra Nomascus e gli altri generi della famiglia circa 8,67 Ma, mentre il genere Hylobates si sarebbe originato circa 4,17 Ma. L'ulteriore divergenza tra H. lar e H. pileatus avrebbe avuto luogo circa 2,90 Ma e la separazione da H. moloch di H. klossii, e di H. muelleri da H. agilis circa 2,77 e 2,62 Ma, rispettivamente. Un altro studio del DNA mitocondriale stima che il genere Nomascus sarebbe apparso circa 8 milioni di anni fa, e Symphalangus e Hylobates circa 7 Ma; Hylobates pileatus circa 3,9 Ma, Hylobates lar e Hylobates agilis circa 3,3 Ma, durante il Pliocene. Gli studi indicano inoltre Hoolock come ultimo genere a essersi originato a partire da Hylobates circa tra 1,3 e 1,8 Ma.

Tra le specie estinte note unicamente a partire dai fossili vi è Bunopithecus sericus, i cui resti sono stati rinvenuti in Cina, nel Sichuan, in depositi del Pleistocene Medio. Nel sud della Cina, in depositi del Pleistocene, sono stati scoperti anche resti fossili delle attuali specie Nomascus concolor e Hoolock hoolock; ciò dimostra che durante questa epoca la famiglia aveva una distribuzione più ampia in questa regione.

Il primo studioso ad aver descritto una specie della famiglia Hylobatidae fu Carlo Linneo, che nel 1771 descrisse Homo lar; successivamente, nel 1821, Thomas Raffles descrisse il siamango (Symphalangus syndactylus) come Simia sindactyla, e in seguito Richard Harlan descrisse Simia concolor e Simia hoolock, rispettivamente nel 1826 e 1834. Vaughan, nel 1978, incluse questa famiglia all'interno della famiglia Pongidae, all'epoca considerata distinta da Hominidae, ma in seguito vari autori inclusero Hylobatidae dentro Hominidae. Inizialmente tutte le specie della famiglia venivano classificate tutte nell'unico genere Hylobates; Goodman e i suoi collaboratori separarono Symphalangus e Hylobates in generi differenti (1998), ma quest'ultimo venne provvisoriamente suddiviso in quattro sottogeneri da Groves (2001) per poter così aggirare il problema della posizione tassonomica di Bunopithecus. All'inizio degli anni 2000, la maggior parte degli autori riconosceva l'esistenza di quattro generi - Bunopithecus, Hylobates, Nomascus e Symphalangus -, ma nel 2005 alle due specie di hulok, precedentemente incluse nel genere Bunopithecus, venne assegnato un proprio genere, Hoolock, a dimostrare che non sono poi così strettamente imparentate con la specie estinta Bunopithecus sericus, la quale viene tuttora classificata nel proprio genere estinto e monofiletico, Bunopithecus. La divisione in quattro generi è basata sul numero di cromosomi: 44 (Hylobates), 38 (Hoolock), 52 (Nomascus) e 50 (Symphalangus).


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LE SALANGANE



Le salangane sono una specie di Uccelli ApodiformiApodidi appartenenti al genere Collocalia. Di aspetto simile a un piccolo rondone (13 cm di lunghezza, di cui poco meno della metà sono rappresentati dalla coda),  La sua notorietà è legata al fatto che, durante il periodo riproduttivo, le sue ghiandole mandibolari producono un secreto colloso che si solidifica dopo essere stato emesso nell'ambiente. Tale secreto, eventualmente mescolato ad altri materiali (piume, fili d'erba, ecc.), viene impiegato dall'animale per costruire, entro caverne o su pareti rocciose, un singolare nido semitrasparente simile alla metà di una coppa. Sin da tempi remoti i nidi di salangana (noti come nidi di rondine) costituiscono un alimento apprezzato per talune popolazioni asiatiche.
I nidi sono solitamente costruiti sulle sporgenze delle pareti più inaccessibili di grotte e la costruzione richiede circa 30 giorni.



Il nido ha la forma approssimativa di un quarto d'uovo, è molto sottile, ma l'orlo superiore si allarga all'indietro verso la linea di unione con la rupe e forma ai lati due appendici che hanno l'aspetto di ali e costituiscono una base larga e piatta che è il suo principale sostegno.  Le Salangane vi depongono due uova, raramente tre; esse nidificano nelle caverne delle coste e delle montagne dell'India e della Malesia e sono molto abbondanti a Giava. Si nutrono d'insetti, di altri piccoli artropodi e di vermi, specialmente volteggiando tra gli scogli bagnati dai marosi. I nidi che hanno la consistenza e il sapore di gomma, sono molto apprezzati dai Cinesi, i quali ne importano milioni per un valore complessivo assai notevole. Quelli bianchi, ritenuti i più nuovi, sono preferiti. In alcune località della costa meridionale di Giava, la raccolta dei nidi di Salangane costituisce una delle principali industrie degl'indigeni, i quali si espongono a gravi pericoli perché le loro ricerche si svolgono in fondo a paurosi precipizi.


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venerdì 4 novembre 2016

LE MISURAZIONI DEI TERREMOTI

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« Preferisco usare l'analogia delle trasmissioni radio. Viene applicata in sismologia perché i sismografi, o i ricevitori, registrano le onde di disturbo elastico, o onde radio, che sono irradiate dalla sorgente del terremoto, o stazioni radio. La magnitudo può essere paragonata alla potenza emessa in kilowatt delle stazioni radio. L'intensità locale in base alla scala Mercalli è dunque comparabile alla forza del segnale dal ricevitore alla località dove arriva; vale a dire la qualità del segnale. L'intensità, come la forza del segnale, generalmente cadrà distante dalla sorgente, sebbene dipenda anche dalle condizioni locali e dal percorso dalla sorgente al punto specifico. »

Charles Richter, inventore della magnitudo Richter.

La violenza di un terremoto è descritta sia dalla magnitudo sia dall'intensità. Questi due termini, frequentemente confusi, si riferiscono a differenti ma correlate osservazioni. La magnitudo caratterizza l'aspetto di un terremoto misurando indirettamente l'energia rilasciata. L'intensità indica gli effetti locali e potenziali in base ai danni prodotti da un terremoto sulla superficie della terra e di come esso colpisce uomini, animali, strutture, e oggetti naturali come le masse d'acqua. Ogni terremoto ha un solo valore di magnitudo, ma diverse intensità, a seconda degli effetti locali prodotti, poiché questi variano secondo parametri quali la distanza dall'epicentro, la resistenza sismica delle strutture e le condizioni del suolo. Ad esempio, un terremoto che si verifica in una città antica ma che conta anche costruzioni moderne, avrà un solo valore di magnitudo, ma diversi gradi d'intensità, poiché nel centro storico il terremoto provocherà più danni che nella zona moderna, proprio a causa della diversa resistenza sismica esistente tra vecchie e nuove abitazioni.

La prima semplice classificazione dell'intensità del terremoto fu escogitata da Domenico Pignataro nel 1780. La prima scala di intensità riconoscibile, nel senso moderno del termine, fu redatta da P.N.G. Egen nel 1828, anticipando i tempi. La prima scala di intensità adottata largamente, la Rossi-Forel, fu introdotta nel tardo XIX secolo. Da allora sono state sviluppate molte scale di intensità e sono usate in diverse parti del mondo. La scala correntemente usata negli Stati Uniti è la Scala Mercalli Modificata (MM); la Scala Macrosismica Europea (EMS-98) è usata in Europa; la Shindo è usata in Giappone; la MSK-64 è usata in India, Israele, Russia e negli Stati Indipendenti del Commonwealth; la Liedu (GB/T 17742-1999) è usata nella Cina continentale; Hong Kong usa la scala MM; Taiwan usa la scala Shindo. La maggior parte di queste scale hanno 12 gradi di intensità, che sono grossolanamente equivalenti gli uni agli altri in valori, ma variano nel grado di sofisticazione impiegato nella loro formulazione.

La magnitudo locale (ML) o Magnitudo Richter, anche conosciuta popolarmente come Scala Richter (in modo del tutto errato, poiché non si tratta di una scala nel senso scientifico del termine), è una misura dell'energia sprigionata da un terremoto. Nel 1930, il sismologo californiano Charles Richter escogitò una semplice funzione numerica per descrivere la relativa grandezza dei terremoti nella California del sud. La ML è ottenuta misurando la massima ampiezza di una registrazione secondo il sismometro a torsione di Wood-Anderson (o uno calibrato ad esso) ad una distanza di 100 km dall'epicentro del terremoto. Altre più recenti misurazioni di magnitudo includono: le onde di corpo (mb), le onde superficiali (Ms), e la magnitudo di durata (MD). Ognuna di queste è bilanciata per portare valori similari a quelli portati dalla magnitudo locale, ma siccome ognuna è basata su una misurazione di un aspetto del sismogramma, esse non sempre rilevano la potenza complessiva della sorgente. Specificamente, alcune possono essere influenzate dalla saturazione a una più alta magnitudo di valori significativi sottovalutando sistematicamente la magnitudo di più grandi eventi. Questo problema inizia intorno a magnitudo 6.0; la magnitudo delle onde superficiali si satura sopra il valore 8.0. Malgrado le limitazioni, le magnitudo più vecchie sono ancora largamente usate, poiché possono essere calcolate rapidamente; i loro cataloghi di molti anni addietro sono disponibili, sufficienti per la più grande maggioranza degli eventi osservati, e inoltre godono familiarità presso il grande pubblico.



A causa delle limitazioni delle scale di magnitudo, una nuova, più uniformemente applicabile loro estensione, nota come magnitudo del momento sismico (MW) per rappresentare la grandezza dei terremoti, fu introdotta da Thomas C. Hanks e Hiroo Kanamori nel 1977. In particolare, per molti grandi terremoti la magnitudo del momento porta una più affidabile stima della grandezza del terremoto. Questo succede perché il momento sismico è derivato dal concetto di momento in fisica e dunque fornisce indizi sulla grandezza fisica di un terremoto — la grandezza della rottura di faglia insieme allo spostamento — come pure la somma dell'energia rilasciata. Così, mentre anche il momento sismico è calcolato dai sismogrammi, esso può anche essere ottenuto a posteriori dalle stime geologiche della grandezza della rottura e dallo spostamento di faglia. I valori dei momenti per i terremoti osservati si estendono oltre più di 15 ordini di magnitudo, e siccome non sono influenzati da variabili come le circostanze locali, i risultati ottenuti lo rendono agevole per confrontare oggettivamente le grandezze di differenti terremoti.

La magnitudo è la misura che i sismografi usano per calcolare l'energia che si sprigiona all'epicentro di un terremoto, la sua reale intensità nel punto dal quale l'energia è liberata, mentre la scala Mercalli è una scala lineare che definisce gli effetti, i danni provocati dal sisma.

Per calcolare la magnitudo si usa l'indice Richter che non si misura in gradi, ma rappresenta delle grandezze, corrispondenti all'ampiezza delle onde sismiche che un terremoto sprigiona al suo epicentro, elevate su base logaritmica.

La scala Mercalli, invece, non è una grandezza ma, appunto, una scala lineare che valuta in gradi gli effetti distruttivi del sisma, da un minimo di zero, pari a nessun effetto su popolazione, cose ed edifici, a un massimo di 12 gradi, pari alla distruzione totale. La scala Mercalli dunque è un indice empirico, che, ad esempio, non si può calcolare in un luogo desertico o disabitato, dove non c'è niente da distruggere. Essa rappresenta l'intensità con cui un terremoto si manifesta, in base alla sua capacità distruttiva.

La misura Richter può, in teoria, assumere infiniti valori perché è il risultato di un calcolo e di una misurazione effettuata attraverso una strumentazione scientifica in dotazione dei sismografi. Per questo gli esperti ormai utilizzano solo la magnitudo e dunque la misura Richter, l'unica realmente calcolabile. Se paragoniamo un terremoto a un trasmissione radio, la magnitudo rappresenta la potenza della stazione trasmittente e la scala Mercalli l'intensità del segnale ricevuto.

I geologi sono restii a stabilire delle corrispondenze tra la scala Mercalli e la misura Richter, perché non sempre coincidono. Un terremoto potentissimo di magnitudine 7, in pieno deserto, corrisponde al grado uno della scala Mercalli, mentre un sisma di media entità, di magnitudine 4, può corrispondere invece a un micidiale grado 7-8 della scala Mercalli se si manifesta in una zona densamente abitata in cui la gente vive in edifici vecchi e fatiscenti.

Per stabilirne l'entità si procede rilevando le misure della magnitudo, calcolo effettuato dall'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). Successivamente si descrivono i danni provocati dal sisma.

In linea di massima, un terremoto fino a 3,5 di magnitudo è in genere paragonabile a un'intensità di secondo, terzo, al massimo quarto grado della scala Mercalli e corrisponde a scosse avvertite dai sismografi ma pochissimo dalla popolazione e comunque solo ai piani più alti degli edifici all'interno della zona vicina all'epicentro.

Da considerare che a ogni 0,2 punti di magnitudo in più corrisponde il raddoppio della potenza scatenata dal sisma. Di conseguenza, una magnitudo 4 corrisponde al quinto grado della scala Mercalli e inizia a essere chiaramente percepito dalla popolazione: fa oscillare i lampadari, fa barcollare le persone, spaventa e spinge la gente a fuggire fuori di casa.

Con la magnitudo 5 le scosse diventano fortissime, le possiamo paragonare a un grado 6 della scala Mercalli: tra magnitudo 4 e 5 si passa da 625 tonnellate di quantità equivalenti di tritolo a 20 mila tonnellate, una potenza, quindi, 32 volte più forte, pari a quella della prima bomba atomica lanciata su Hiroshima. Le scosse, a magnitudo 5, possono far crollare qualche casa, specie quelle mal costruite, e provocare delle vittime. E inoltre sono avvertite anche a centinaia di chilometri di distanza.

Un terremoto di magnitudo 5,5 è 5,6 volte più violento del precedente e 1.756 volte più forte di quello di magnitudo 4: in questo caso, il sisma provoca il crollo di numerose case, apre crepe nel terreno e fa cadere i massi dalle montagne.

A magnitudo 6 siamo intorno ai 7 gradi della scala Mercalli, l'effetto è 5,6 volte più pericoloso del precedente e quasi 100 mila volte più devastante di quello a magnitudo 4: crolla il 60% degli edifici, il numero dei morti e dei feriti sale, si creano dei mini-tsunami e le ripercussioni si avvertono fino a circa 200 chilometri di distanza.

A magnitudo 7, orientativamente 9 gradi Mercalli, la potenza sprigionata è di 20 megatoni, 20 milioni di tonnellate di tritolo, un livello in cui la distruzione delle case è elevatissima. Anche quelle antisistimiche non reggono.

Poco oltre, a magnitudine 7.3, intorno ai 10 gradi Mercalli, si piegano le rotaie dei treni.

Al livello di magnitudo 8.1, cioè circa 11 gradi Mercalli, abbiamo una potenza pari a mille bombe all'idrogeno, 30,73 milioni di volte più di quella di magnitudo 4, un'apocalisse insomma: crollano le dighe e i ponti, si aprono voragini nel terreno.

Gli esperti usano la parola catastrofe solo per i terremoti dagli 11 gradi della scala Mercalli in su. La scala Mercalli prevede anche 12 gradi, oltre magnitudo 8.1, 17,2 miliardi di volte più di magnitudo 4: possiamo definirla la 'bomba fine del mondo', in grado di distruggere tutto per un raggio di 20-30 chilometri dall'epicentro, creare onde sulla superficie del suolo, deviare o far scomparire fiumi e laghi. Il terremoto più forte di sempre è stato quello del 1960 in Cile, tra Temuco e Conception, pari a una magnitudo 9,5, che ha provocato 1.655 morti e uno tsunami che ha attraversato l'Oceano Pacifico arrivando fino in Giappone e nelle Filippine.


Quel terremoto ha anche provocato uno spostamento di 8 centimetri dello 'spin' della Terra, cioè dell'asse di rotazione terrestre. Il secondo terremoto piu' catastrofico è stato quello avvenuto in Alaska nel 1964, magnitudo 9,2 all'epicentro: 15 morti per le scosse e 113 per lo tsunani. Il terzo è quello del giorno di Santo Stefano del 2004, più vicino nella nostra memoria, verificatosi nei pressi di Sumatra, di magnitudine 9.1, quando la zolla asiatica finì sopra quella indo-astraliana. Il conseguente tsunami devastò le coste di Thailandia, Sri Lanka, India, fino alla Somalia, provocando 230 mila morti.


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