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giovedì 21 gennaio 2016

RUPOFOBIA




Il celebre primo ministro britannico Winston Churchill soffriva di rupofobia, trascorrendo di conseguenza molte parti della sua giornata nella vasca da bagno.

La rupofobia è un disturbo d'ansia, il termine deriva dal greco “rupo” che significa “sudiciume”, s'intende quindi una paura persistente di entrare in contatto con i germi e con lo sporco in generale; nelle persone affette da questa fobia, anche solo l'idea di un possibile contatto con lo sporco può provocare un intenso disagio, irragionevole e persistente.

Trattandosi di una fobia, la persona reagisce con una risposta fobica di fronte allo stimolo ansioso e molto spesso la situazione – entrare in contatto con lo sporco - viene sistematicamente evitata.

Il soggetto che manifesta una fobia dello sporco, potrà mettere in atto una serie di comportamenti atti a limitare questa paura: potrà lavarsi continuamente le mani o pulire in modo scrupoloso la casa e gli altri oggetti di uso quotidiano con detergenti e disinfettanti, far uso, di guanti e grembiuli ogni volta che entra in contatto con lo sporco e quando suo malgrado non può evitarlo, può sperimentare un'intenso disagio e ansia, fino ai casi più gravi in cui la persona reagisce con veri e propri attacchi di panico.

Tali comportamenti possono essere il segnale di un disturbo ossessivo-compulsivo, nel momento in cui la persona presenta i seguenti sintomi:
presenza di ossessioni, si tratta di pensieri, immagini mentali o impulsi di varia natura che causano un notevole disagio nella persona. Ci possono essere idee di contaminazione: ovvero un' insistente fissazione che loro stessi, o qualcuno dei loro familiari, possa ammalarsi entrando in contatto con qualche sostanza tossica o germe. In alcuni casi non vi è il timore di contrarre una malattia, ma soltanto un intenso disgusto nell'entrare in contatto con certe sostanze. Molto spesso è la persona stessa a ritenere infondati o esagerati i contenuti ossessivi anche se in altri casi l'ansia legata ai contenuti ossessivi è così intensa da non ritenerli eccessivi o irrazionali;

presenza di “rituali”intesi come compulsioni (lavaggio, pulizia, sterilizzazione o disinfezione), volti a neutralizzare l'azione dei germi e a tranquillizzarsi rispetto alla possibilità di contagio o a liberarsi dalla sensazione di disgusto. Tali rituali, coinvolgono spesso i familiari, che sono "costretti" dal paziente ad evitare luoghi "contaminati" e a lavarsi più del necessario;

pensiero magico: il soggetto crede che potrà controllare l'andamento di certi eventi (es. i miei famigliari non si ammaleranno, non farò alcun danno a nessuno, non prenderò una malattia, ecc.) soltanto se metterà in atto una serie di rituali come ad esempio; ripetere una certa azione un numero di volte, oppure vedere o non vedere certi oggetti, numeri o colori, ecc.;

comportamenti di evitamento correlati allo sporco: le situazioni che possono avere a che fare con lo sporco o la contaminazione vengono costantemente evitate;

tendenza al controllo e al perfezionismo;

in alcuni casi la persona può manifestare delle preoccupazioni ipocondriache, può compiere visite ripetute ai medici, in cerca di rassicurazione, ma ciò nonostante le sue preoccupazioni non si placano.

Questo disturbo, causa un marcato disagio e i rituali di pulizia che il soggetto è costretto a mettere in atto interferiscono con le normali abitudini della persona e con il funzionamento lavorativo (o scolastico), sociale e affettivo.

Nei casi più gravi, le persone possono passare talmente tante ore al giorno a compiere dei rituali che non riescono più a svolgere alcuna attività lavorativa o la realizzano in modo discontinuo. Altre volte, invece, debbono accontentarsi di mansioni a bassa responsabilità. Questo disturbo, inoltre, si riflette negativamente anche sulla qualità e la durata delle relazioni di amicizia ed affettive. Tale disturbo ha, infine, una naturale tendenza alla cronicizzazione; ne consegue che se non è trattato in modo adeguato può influire pesantemente su tutto l’arco della vita del soggetto.



Nella cura di questo disturbo, la terapia cognitivo-comportamentale si avvale di tecniche cognitive e comportamentali. Il trattamento cognitivo comportamentale della rupofobia permette sia una riduzione del sintomo, sia una ristrutturazione cognitiva dei pensieri distorti e dei meccanismi mentali che sono alla base del disturbo.

La rupofobia segnala la presenza di un'angoscia interiore, che deve essere trasferita su un oggetto esterno, avente la funzione di "parafulmine", in modo da consentire una diminuzione nell'intensità della sensazione angosciosa. La rupofobia evidenzia una scarsa fiducia nei confronti dell'ambiente circostante, che porta il malato a ritenere pericoloso qualunque contatto con la polvere, con i metalli, con altri materiali fino al punto di uscire di casa indossando un paio di guanti "protettivi".

Qualche esperto ritiene che il paradigma della pulizia imposto dai mezzi di comunicazione, dalla letteratura, dalle arti e così via, possa influire sulla diffusione di questa fobia. Altresì è possibile che il fenomeno sia interpretabile come un'esasperazione ossessiva del fatto che si possa, banalmente, aver paura di rimanere sporchi.

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sabato 21 novembre 2015

FAMIGLIE CON MALATI PSICHIATRICI

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Mentre la cultura nei diversi settori della medicina avanza anche fra la gente comune per effetto del continuo apporto dei media, che crea poi domanda di ritorno, è opinione diffusa che nel campo della salute mentale esista ancora una certa misconoscenza del problema. È viceversa ben presente l’effetto del pregiudizio, come sempre avviene in questi casi, che va dalla paura, alla vergogna, alla colpa. La paura soprattutto è diffusissima nei confronti di un pericolo vago e distinto; vergogna e colpa colpiscono invece i familiari. I media purtroppo, invece di impegnarsi nella lotta al pregiudizio, ne sono anch’essi vittime acritiche, sempre alla ricerca esasperata di sensazionalismo a ogni costo.
In questo panorama si può verificare, a un certo punto, la situazione di un congiunto colpito dalla malattia mentale con diagnosi di schizofrenia o di altra psicosi grave. E qui inizia la difficoltà del confronto con qualcosa di difficile da capire, con i pareri più diversi degli addetti ai lavori (farmaci vecchi e nuovi, psicoterapie di varie tendenze, prognosi nebulose, prese in carico difficili), con il peso maggiore che grava sulla famiglia, non in grado di reggerlo per varie ragioni (età avanzata, mancanza di risorse economiche, conflittualità eccessiva…).
A differenza di altre malattie o di un handicap fisico, la malattia mentale non concede tregua, non consente una vita familiare degna di questo nome, poiché è molto distruttiva.

Convivere con il disagio mentale di un figlio o un genitore. Stare 24 ore al giorno assieme a una persona scrutando i suoi comportamenti, osservando le sue reazioni, assecondando le piccole follie quotidiane e temendo, d´altro canto, che un giorno la psiche possa dare il via a un raptus di violenza incontenibile.

Detto così, quello del disagio psichico sembra un problema per poche famiglie sfortunate. Invece una casa su due, circa un quinto della popolazione, si trova a fare i conti con situazioni di malessere, se non di vera malattia. Si tratta di dati peraltro destinati ad aumentare inesorabilmente, secondo gli specialisti, con la crescita dello stress della vita. Ma soprattutto si tratta di dati stimati, nascosti. La maggior parte dei casi non viene allo scoperto, ma resta latente: "Le famiglie, per un senso di vergogna, spesso sono restie a confidare a uno specialista di avere un problema - dice Vincenzo Villari, primario della Psichiatria 2 delle Molinette - E lo fanno solo quando esplode in modo eclatante. Invece spesso è possibile prevenire certi comportamenti violenti facendosi seguire da una persona neutrale, esterna alla famiglia, in grado di valutare certe situazioni critiche che si sono cristallizzate in casa. E questo è un problema trasversale a tutta la società, che non si fa influenzare dal ceto o dal livello culturale. Anche se spesso famiglie di estrazione sociale diversa reagiscono in modo diverso al problema".



Solo in rari casi, ovviamente, il destino di questi nuclei familiari è quello di diventare protagonisti di un caso di cronaca atroce. "Da sempre si tende erroneamente a collegare la malattia mentale alla violenza - continua Villari - Invece le statistiche non lo dimostrano affatto. Quello che cambia, piuttosto, è che la violenza nelle persone sane sembra spinta da ragioni più comprensibili, mentre i malati mentali a volte agiscono spinti da motivazioni deliranti. E questo ci spiazza. Certamente, però, va presa in considerazione l´esistenza di un precedente. Se già una persona ha avuto un episodio di violenza, capire l´origine del disturbo e curarla è fondamentale per ridurre il rischio che si ripeta".

In generale il disturbo è soggettivo, il malato non fa del male ma sta male. E stanno male i loro familiari. Da anni, ormai, la psichiatria prende in cura, oltre al malato, anche i parenti. Perché spesso sono proprio le relazioni nate sotto lo stesso tetto la causa o l´affetto di un disagio psichico. In molti casi non si può parlare di malattia mentale, ma di malessere. E spesso si instaurano relazioni familiari basate sul ricatto emotivo, comportamenti improntati sulla paura di reazioni. "È una situazione molto più frequente di quanto non si pensi - conclude Villari - ed è anche difficile da sondare dall´esterno, perché le dinamiche all´interno di una famiglia possono sembrare incomprensibili, agiscono su livelli sotterranei. La famiglia è un grande contenitore di emozioni e i suoi componenti devono essere in grado di notare quando queste dinamiche prendono una piega sbagliata: comportamenti strani, emozioni diverse dal solito, decadimento improvviso del rendimento scolastico o lavorativo. Quello è il momento in cui bisogna chiedere aiuto, prima che sia tardi".

L’attenzione riservata alle famiglie nella psichiatria ha una storia relativamente recente ed in pochi anni il lavoro con le famiglie si è radicalmente trasformato.
Fino a quando era il manicomio l'istituzione preposta a rispondere ai bisogni non solo di cura, custodia, ma anche di controllo sociale, nel rapporto tra istituzione e paziente la famiglia restava in ombra, scompariva dalla scena. La separazione netta tra la normalità e la follia costruiva la lontananza della famiglia.
Possiamo forse immaginare le ricadute emotive nelle famiglie rispetto al vissuto di colpa per l'assenza, per la distanza del familiare ricoverato. Le ricerche al riguardo sono scarse, ma sono le persone, i loro racconti a suggerirci l’esistenza di un vissuto familiare pesante anche in presenza di risposte istituzionali tanto certe quanto forti e di delega totale quali quelle manicomiali.
L’ereditarietà, questione su cui oggi s’impegnano le neuroscienze, era l’unico terreno in cui comparisse la famiglia in chiave esclusivamente deterministica e come fonte di dati anamnestici oggettivi, o presunti tali (la tara ereditaria).
Ancora oggi dobbiamo confrontarci con le famiglie che ricordano "il sangue malato" del nonno morto in manicomio, forse ricomparso nel figlio, e si vergognano, e non parlano, e piangono.



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