venerdì 5 febbraio 2016

I MOTORINI

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Da sogno adolescenziale a tallone d’Achille del mercato delle due ruote. Il «motorino» sembra sparito dai desideri dei quattordicenni. Lo dicono i numeri di vendita, che mostrano da una decina di anni un’emorragia continua, una discesa fatta di percentuali a doppia cifra. I 685.962 mezzi immatricolati nel 1998 sono il picco e l’inizio del declino. Già l’anno successivo se ne registrano oltre centomila in meno. Meno duecentomila nel 2000. Ulteriore dimezzamento nel 2001. Poi un declino più lento, ma costante. Fino al 2009, quando si scende sotto la soglia dei centomila. Il dato del 2013 fa impressione: 31.648 vendite. Cioè: 130 mila in meno rispetto a dieci anni prima. Cioè: un crollo del 75% in meno in dieci anni. Il 2014 conferma la tendenza: -16% fra gennaio e settembre rispetto allo stesso periodo dell’anno prima.

Non è soltanto l’eclissi di un segmento del mercato. È l’addio a un’epoca. Dell’Italia di metà anni Cinquanta, in corsa verso la motorizzazione di massa, il «cinquantino» era il mezzo simbolo. Facile e accessibile. Per tutte le tasche e tutte le età. Nel ‘55 se ne vendono quasi centomila (il triplo di oggi).
Qualcosa è cambiato nel costume e negli interessi dei più giovani, quei ragazzi fra i 14 ed i 16 anni che sognavano il Ciao, la Vespa, il Fifty e prima ancora l’Aspes e il Caballero. «La valenza di status che ha avuto il motorino - spiega Stefano Laffi, sociologo, ricercatore dell’agenzia Codici di Milano e autore di diversi libri sui giovani - oggi è giocata da altri oggetti. Il motorino era il mezzo per trovarsi con gli amici, ora quella funzione è relegata ad Internet: sul web ci sono tutti i tuoi amici e gli amici dei tuoi amici, c’è la fidanzata e l’anteprima virtuale di tutti i luoghi possibili; oramai è naturale “vedersi” lì prima di uscire di casa».

Spostarsi da casa per coltivare le relazioni è sempre meno necessario. «Quando io ero ragazzo si prendeva il motorino e si partiva insieme per un weekend in tenda. Oggi con 40 euro sali in aereo e raggiungi una qualunque capitale europea», commenta Pier Francesco Caliari, direttore generale di Confindustria Ancma, l’associazione che riunisce i produttori italiani di due ruote.
La fonte del senso di libertà e di autonomia è cambiata: il motorino è stato rimpiazzato da uno dei tanti (o da tutti quanti contemporaneamente) dispositivi che assicurano la connessione con il mondo. Smartphone, tablet, computer. E forse quell’anelito di libertà non è più così urgente: «I giovani - continua Laffi - sentono meno la spinta all’autonomia, consapevoli e rassegnati a un ciclo economico che prolunga la loro adolescenza e li trattiene in famiglia più a lungo».
Il declino dei ciclomotori non è cominciato con la crisi mondiale del 2008, ma di certo questa ha fatto da acceleratore: i costi elevati scoraggiano. Per salire in sella al «motorino» la lista delle spese è lunga: si deve acquistare il mezzo (si parte da circa mille euro, ma per le «repliche» di quelle di maggiore cilindrata si supera anche quota 4.000), poi ci sono il patentino (dai 100 euro, per chi lo prende come privatista, ai 4/500 dell’autoscuola), il bollo di circolazione (poche decine di euro: varia da regione a regione) e l’assicurazione. «La polizza è il costo più importante, dopo l’acquisto, e a questo riguardo - anticipa Caliari - stiamo per scoprire il vaso di Pandora con una ricerca che abbiamo commissionato all’Università Luiss».

Ma i costi non sono l’unico problema sollevato dall’Associazione italiana genitori: «C’è anche la preoccupazione legata alla sicurezza, la paura nel consegnare il motorino al figlio che non sempre adotta tutte le cautele possibili nella guida», sostiene il presidente, Fabrizio Azzolini. Per questo motivo a volte si preferisce una minicar, anche se sulla sicurezza di questa i dubbi non mancano: «Il 35% degli incidenti delle minicar non coinvolgono altri mezzi e sono dovuti principalmente a comportamenti alla guida disinvolti», spiega Raffaele Caracciolo, dell’Unione nazionale consumatori. E, in caso di collisione, non proteggono certo come le normali automobili: l’Aci ha segnalato che nei 2.152 incidenti che hanno coinvolto i quadricicli fra il 2010 e il 2012 si sono registrati 2.922 feriti (il 40% con un’età fra i 14 e i 18 anni) e 40 morti.
Intanto, le biciclette stanno vivendo una stagione d’oro: «Com’è successo per molte innovazioni, ci stiamo rendendo conto - osserva Laffi - che un mezzo nuovo non decreta il superamento del precedente. La bicicletta costa molto meno, si personalizza meglio, si impara in fretta ad aggiustare, è un mezzo leggero, non ha bisogno di garage, basta un cortile o al limite si porta in casa, mentre la continua sofisticazione elettronica del mondo dei motori ha allontanato quegli oggetti dalle mani dei ragazzi, che un tempo potevano anche “truccarli”». Anche questa pratica è stata ormai relegata al passato di chi, con le mani sporche di grasso, sostituiva il carburatore della propria Vespa con un glorioso 19/19.

La movimentazione è una necessità che ha sempre spinto l'essere umano a studiare e sviluppare macchine per il trasporto. Necessità che ha assunto un valore primario al termine dell'ultimo conflitto mondiale quando si è verificata una spasmodica ricerca di veicoli economici, sia nel prezzo di acquisto che di manutenzione, tanto da orientare le industrie a convertirsi dalla produzione militare a quella di mezzi di trasporto.

Nasce così, alla fine degli anni Quaranta, il moderno ciclomotore. Moderno perché i primi esperimenti di abbinare un motore a una bicicletta risalgono addirittura alla fine dell'Ottocento.
Come allora anche il moderno ciclomotore è di fatto un motore ausiliario, chiamato anche micromotore, da montare su una comune bicicletta e dotato, quasi sempre, di trasmissione del moto a rullo di aderenza. Ma con rapidità il nostro ciclomotore si è sviluppato tecnicamente con trasmissione a catena e cambio di velocità.



Con l'aumentare del benessere anche il "cinquantino" si arricchisce di accessori e, negli anni Sessanta, diventa sempre più simile ad una piccola motoleggera, con un aspetto così accattivante da diventare un "cult" per i quattordicenni dell'epoca. E' proprio negli anni Sessanta ma soprattutto negli anni Settanta che il nostro "motorino", come veniva e viene ancora chiamato, ha fatto il salto di qualità e si è prepotentemente imposto sul mercato.

Nel 1963 la 38ma edizione del Salone del Ciclo e Motociclo di Milano viene ricordata come il Salone dei cinquantini, tanto elevato è stato il numero di ciclomotori esposti. Vengono presentati dei bellissimi motorini sportivi, vere repliche delle moto da corsa, e cinquantini da fuoristrada nelle versioni enduro e trial. Si tratta sempre di veicoli performanti nella ciclistica ma vincolati dai limiti di legge con una potenza di 1,5 CV e velocità di 40 km/h che ne mortificano le prestazioni.
Vincoli che vengono maggiormente appesantiti dal 1989 al 1994 con l'obbligo del cambio a soli tre rapporti. Poi si ritorna al libero numero delle marce con cambi a cinque, sei e anche sette rapporti.

Negli anni ’80 tutto sembrava possibile, o almeno così credevamo. In Italia, così come nel resto dell’Occidente, si impongono l’ottimismo e i consumi di massa, l’edonismo e lo svago, dopo un decennio tra i più difficili e cupi. Tra i simboli di libertà e di indipendenza più amati c’era sicuramente il ciclomotore, o se preferite il motorino: tutti, giovani o meno giovani, salgono in sella e percorrono a tutta velocità le vie della città o del paese, possibilmente con dietro un amico o la fidanzata, con il vento tra i vestiti e i capelli (già, l’obbligo di indossare il casco ancora non esisteva).

Negli anni ’80 il ciclomotore era un vero e proprio gesto di ribellione allo strapotere delle “sardomobili”, il nome con cui la pubblicità di allora chiamava le automobili, dipinte come opprimenti scatole per sardine.

A rileggere i nomi delle marche e dei modelli di allora viene da sorridere e da chiedersi che fine abbiano fatto. Alcuni, come la Vespa o il Ciao (entrambi della Piaggio) esistevano già da molti anni e non è strano vederli ancora in giro. Molti altri sono scomparsi nel decennio successivo, lasciando spazio ai più moderni scooter.

Parente stretto del Ciao era il Piaggio Si (“il tuo ciclomotore solare”, diceva una pubblicità…), spesso dall’inconfondibile colore rosso; entrato in produzione nel 1978, la Piaggio ha smesso di produrlo solo nel 2001, tanto è stato il suo successo.

Ma i veri protagonisti degli anni ’80 sono stati i cosiddetti “tuboni”. I tuboni erano ciclomotori dal caratteristico telaio tubolare, nella cui cavità si celava un piccolo serbatoio, di solito equipaggiati con un motore 50cc e quattro marce. Insomma, erano perfetti per l’uso cittadino e furono il mezzo di trasporto preferito da migliaia di ragazzi e ragazze in tutta Italia.

Il più famoso forse è il Malaguti Fifty, punta di diamante della casa bolognese, il “tubone” per eccellenza.

Ma non era l’unico: a fargli concorrenza c’era anche il Ciclone della Garelli, prodotto dalla casa di Sesto San Giovanni dal 1977 fino agli anni ’90, prima del fallimento.

E sempre parlando di tuboni, come non citare quelli della Motron? La Motron (nata a Modena sulla fine degli anni ’50 come “Romeo”, per contrapporsi alla rivale “Giulietta”) era tra le case di ciclomotori una delle più popolari dell’epoca. Tra i modelli più famosi, c’erano i “cugini” GTO e SV3-R, dalle linee più sportive e accattivanti.

Un altro nome che farà suonare un campanellino nell’orecchio dei nostalgici è quello del Peripoli Oxford, un tubone dalle linee e colori decisamente più “arditi” rispetto alla media, diventato col tempo un oggetto di culto. Il suo successo fu tale che la Peripoli arrivò a mettere in commercio una bicicletta che riprendeva le fattezze del cinquantino (meglio soprassedere sul risultato).

Anche la slovena Tomos produsse il suo tubone; era l’Automatic 3, prodotto a Capodistria e molto diffuso anche oltreconfine, dal Friuli in giù.

Obbligatorio ricordare anche il Master, che assieme al Califfone rappresentava il top di gamma dell’Atala, l’azienda brianzola che li produceva.

Per chi invece cercava un motociclo più sportivo, la scelta spesso ricadeva sul Fantic Caballero (che includiamo in questa lista anche se è passato fuori produzione nel 1981) o su una vera e propria moto 125cc, lo storico Cagiva Elefant, mito trasversale tra anni ’80 e ’90.

Tutti questi modelli hanno fatto la storia del costume italiano; molte delle case che lei producevano sono purtroppo scomparse o assorbite da grandi gruppi internazionali. Nei forum specializzati e nei siti di annunci sono ancora oggi tantissimi gli appassionati alla ricerca  di un pezzo di ricambio o di consigli su come riportare all’antico splendore il proprio ciclomotore. Ognuno con una storia da raccontare, ognuno con il proprio carico di chilometri e di ricordi.


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