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martedì 20 giugno 2017

L'ARTIGLIO DEL DIAVOLO


L'artiglio del diavolo è una pianta perenne rampicante che appartiene alla famiglia delle Pedaliacee. Il genere Harpagophytum è lo stesso del sesamo.

Cresce in Africa Meridionale e soprattutto nelle regioni orientali e sud-orientali della Namibia, nel sud del Botswana, nella regione del Kalahari, nel Northern Cape e in Madagascar.
L'artiglio del diavolo deve il suo nome alle quattro appendici dure e nastriformi che caratterizzano i suoi frutti ovoidali. Queste escrescenze sono dotate di robusti uncini che, penetrando nel corpo o nelle zampe degli animali, procurano serie ferite, costringendoli a compiere una danza "indiavolata".
La parte usata a scopo medicamentoso è costituita dalle escrescenze laterali della radice tuberosa (dette radici secondarie), che contengono alte percentuali di principi attivi.

L'uso etnobotanico dell'artiglio del diavolo ha avuto origine in Africa Meridionale.
Questa pianta è uno degli “emblemi floreali” del Botswana, dove si crede possa essere utile nel trattamento di varie condizioni dolorose.
L’artiglio del diavolo è un ottimo rimedio da utilizzare quando i muscoli riprendono l’allenamento dopo un periodo di inattività per far fronte, in modo naturale, a contusioni, strappi e sciatalgie (i dolori dovuti all’infiammazione del nervo sciatico).

Giunge in Europa agli inizi del Novecento e qui ne viene confermata l’ azione antidolorifica, antinfiammatoria, antireumatica e spasmolitica, specialmente a livello muscolare e articolare. Inoltre, stimola la digestione, riduce l’assorbimento del colesterolo e aiuta nella fase premestruale facilitando lo sfaldamento dell’endometrio e calmando i dolori.



Queste proprietà sono dovute a particolari sostanze presenti nel suo fitocomplesso: in particolare, i fitosteroli (beta-sitosterolo) ovvero dei composti vegetali che manifestano un’azione antinfiammatoria simile al cortisone e l’arpagosite, un monoterpene che ha dimostrato di contrastare la formazione di alcuni mediatori dell’infiammazione (prostaglandine e ossido nitrico), responsabili di dolore e gonfiore.

Sono le radici secondarie dell’artiglio del diavolo, che possono raggiungere il peso di ben 600 grammi, ad essere raccolte, sminuzzate e trattate per ottenere le diverse formulazioni. Tradizionalmente applicata in crema, si può assumere allo stesso tempo anche in estratto secco e tintura madre per potenziarne l’azione.

L’azione dell’artiglio del diavolo, completamente naturale e priva di tossicità, anche per lo stomaco, lo rende utilizzabile per un tempo prolungato. Gli effetti si manifestano dopo una settimana ed è preferibile assumere il rimedio in modo ciclico in quanto, oltre i due mesi continuativi, può dare assuefazione e perdere la sua efficacia. Si possono manifestare reazioni locali di tipo allergico, generalmente di rossore sulla pelle, che spariscono sospendendo l’applicazione. Può interferire con alcune classi di farmaci: antinfiammatori cortisonici e non steroidei, anticoagulanti, antiaritmici. È sconsigliato in caso di diabete, ipertensione, reflusso gastroesofageo, gastrite, ulcera, gravidanza e allattamento. In ogni caso è consigliabile consultare il proprio medico di base.

Il suo uso è diffuso ampiamente e ben noto anche nel mondo dello sport, dove i disagi causati dalle malattie reumatiche sono vissuti in contemporanea all’impossibilità di assumere certe categorie di farmaci, considerati dopanti, che possono essere sostituiti da medicinali di origine naturale, come appunto i derivati di questa pianta. Può essere impiegata anche come antispastico per i dolori mestruali e per i dolori intestinali di origine nervosa.
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lunedì 3 ottobre 2016

LA RESINA



La resina vegetale è qualsiasi miscela prodotta da una pianta, di tipo liposolubile costituita da composti terpenici volatili e non volatili e/o di composti fenolici che siano:
prodotti e stoccati in strutture specializzate interne o superficiali,
che svolgano un ruolo nelle relazioni ecologiche della pianta.
In alcuni casi le resine possono essere indotte in un sito di lesione senza essere preformate e stoccate. Operativamente si possono poi distinguere le resine in vari modi, a seconda che esse siano state indotte da lesioni o siano già presenti nelle strutture delle piante, o a seconda che la resina sia un essudato chiaramente identificabile e fisicamente separabile dalla pianta (come nel caso della resina di pino e abete) oppure parte integrante dei tessuti (come nel caso della Calendula).

Comunque intese le resine sono un gruppo complesso di sostanze solide od occasionalmente liquide che tendono ad essiccarsi all'aria, insolubili in acqua ma solubili in alcool, etere e cloroformio. Di composizione chimica assai variabile, sono prodotte dalle piante sia spontaneamente sia a seguito di uno stress (ferita, attacco di patogeni); il loro ruolo è probabilmente quello di proteggere la pianta da insetti, funghi o altre infezioni, o di chiudere le ferite.

Le resine sono complesse, ma per buona parte sono di tipo terpenoidico, composte da diterpeni (come acido abietico e acido agatico) e altri componenti minori quali resinati, resinoli, resino-tannoli, esteri e sostanze inerti (reseni). Le resine fenoliche sono più rare, e sono caratterizzate da fenilpropanoidi, lignani e flavonoidi liposolubili.

Sono spesso confuse anche nella letteratura scientifica con altre sostanze molto differenti: gomme; mucillagini; oli grassi; cere; lattici.

L'ambra è resina fossilizzata.

Le resine hanno un odore particolare; per riscaldamento si rammolliscono senza presentare un netto punto di fusione; sono insolubili nell'acqua, solubili nell'alcool, etere, ecc. Generalmente le resine si ottengono per incisione del tronco di certi alberi: il succo che scola dall'incisione s'ispessisce o si solidifica all'aria. Alcune resine si possono ricavare da altre piante per estrazione con solventi organici. Altre resine infine si ritrovano in natura allo stato fossile, ma sono indubbiamente anch'esse di provenienza vegetale.

Dal punto di vista chimico, le resine costituiscono un gruppo di sostanze organiche molto eterogeneo perché sono miscele più o meno complesse di composti appartenenti a diversi tipi: in esse bisogna sempre distinguere il vero composto resinoso dalle sostanze che lo accompagnano. Molte resine contengono come costituente principale un acido organico, libero o esterificato. Gli acidi resinosi sono composti aliciclici con molti atomi di carbonio, la costituzione chimica dei quali è strettamente legata a quella dei politerpeni. Tali sono l'acido abietinico, l'acido pimarico e l'acido silvinico ricavati da diverse qualità di trementina, l'acido copaivico del balsamo del Copaive, l'acido guaiaconico della resina di guaiaco. Altri costituenti caratteristici di molte resine sono alcuni alcoli resinosi (i resinoli e i resinotannoli) composti anch'essi aliciclici a molti atomi di carbonio con funzione di alcoli: liberi o esterificati con diversi acidi, formano la parte resinosa vera e propria di molte resine naturali. Fra i composti più noti di questo tipo sono il benzoresinolo del benzoino, il peruresinotannolo ricavato dal balsamo del Perù e le amirine della resina Elemi, le quali appartengono probabilmente al gruppo delle sterine. Composti particolari delle resine sono anche alcune sostanze designate col nome di reseni, di natura chimica finora sconosciuta. Nelle resine si ritrovano poi sempre, in quantità maggiore o minore, diversi idrocarburi appartenenti al gruppo dei terpeni, quali il pinene, il limonene, il cadinene, il fellandrene, ecc. Come componenti secondari delle resine possiamo ritrovare la vainiglina o altre aldeidi o chetoni aromatici, l'acido benzoico, l'acido salicilico, gli acidi cinnamico, cumarico, p-ossicinnamico, caffeico, ferulico, ecc., generalmente esterificati da resinoli, resinotannoli oppure dagli alcoli benzilico, cinnamico, ecc. o da fenoli diversi.

Alcune resine naturali, accanto ai composti resinosi caratteristici e ai composti terpenici, contengono quantità più o meno grandi di gomme, sostanze, com'è noto, appartenenti al gruppo degl'idrati di carbonio. Queste speciali resine sono distinte col nome generale di gommoresine. Tali sono l'incenso, la mirra, l'olibano, l'opopanax, l'assa fetida, il galbano, la scammonea. Le resine tipiche sono costituite invece da acidi resinosi liberi o esterificati, mescolati con quantità più o meno grandi di composti terpenici. Sono queste le oleoresine delle quali il tipo è la trementina (ricavata dai pini, abeti, larici, ecc.) costituita per la massima parte da acido abietinico e pinene. Altre resine di questo tipo sono la resina Elemi, la resina di guaiaco, la lacca giapponese (ricavata dalla Rhus vernicifera).



Un gruppo particolare di resine naturali è quello noto fin da tempo antico col nome di balsami costituito da una serie di prodotti semisolidi di odore gradevole. In essi predominano gli esteri benzoici o cinnamici degli alcoli benzilico, cinnamico e di resinoli e resinotannoli: contengono piccola quantità di composti terpenici e niente acidi resinosi. La resina nota col nome di balsamo del Copaive per la sua composizione chimica non deve però esser classificata fra i balsami perché, come le oleoresine tipiche, è costituita essenzialmente da un acido resinoso (acido copaivico) e da composti terpenici. Lo stesso si può dire per il cosiddetto balsamo del Canada.

Alcune resine si ritrovano come fossili, avanzi di una vegetazione estinta, specialmente nei giacimenti di lignite. La più nota resina fossile è l'ambra che il mare rigetta sulla spiaggia in alcune località del Baltico e anche in Italia. Essa è formata essenzialmente da acido succinico e da acido succinabietinico esterificati con borneolo e con un resinolo. Un'altra importante resina fossile è la coppale che si può ricavare per incisione dagli alberi del genere Tachylobium o da altre piante, ma in maggior quantità si ritrova depositata sotto la sabbia, specialmente nell'Africa orientale, prodotta certamente da piante vissute in epoche passate. Una varietà di coppale è la resina Kauri chiamata impropriamente gomma Kauri. Tanto l'una quanto l'altra sono vere oleoresine.

Alcune resine, quali l'ambra e la lacca giapponese, furono impiegate fino dall'antichità per fare oggetti d'ornamento. Ad epoche remote risale pure l'uso di altre resine come profumi (mirra, incenso, benzoino, ecc.). Alcune resine hanno largo impiego nell'industria delle vernici: fra queste prima di tutte la coppale. Ma la resina che ha più estese applicazioni industriali è la trementina che si ricava per incisione dai pini, abeti, larici oppure per distillazione del legno di questi alberi con vapor d'acqua. Dalla trementina per distillazione si ricava l'essenza di trementina e resta come residuo la colofonia o pece greca. Secondo le piante da cui derivano, l'essenza di trementina è costituita da diversi idrocarburi terpenici (pinene, dipentene, silvestrene, ecc.) e la colofonia è formata da diversi acidi resinosi (acido abietinico, acido pimarico, acido silvinico). Dalla colofonia per distillazione secca si ottiene un prodotto liquido (chiamato "olio di resina") che serve, come l'essenza di trementina, nell'industria delle vernici. La colofonia tale e quale serve per molti altri usi: per fare la ceralacca e il linoleum (a questo scopo viene spesso usata invece la Kauri), nell'industria della carta, in pirotecnia, ecc. Larga applicazione hanno anche i sali dell'acido abietinico (resinati). Il sale di sodio viene spesso aggiunto ai comuni saponi. I sali coi metalli pesanti si adoperano per fare lacche e vernici diverse.

Le resine vengono adoperate in farmacia per la preparazione di unguenti resinosi, pomate, ecc. e in terapia per le loro svariate proprietà. Alcune sono purgative, come le resine di gialappa, scammonea, podofillo, elaterio, ecc.; altre sono antispasmodiche come la gommo-resina della mirra, l'assa fetida, quelle del Dorema ammoniacum, della Pistacia lentiscus e della Ferula galbaniflua. Talune oleoresine sono disinfettanti e anticatarrali, quali il balsamo del Perù, del Tolù e lo storace; altre ancora si usano come parassiticide, antelmintiche, revulsive.
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domenica 11 settembre 2016

SERENOA REPENS

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Serenoa repens è una palma a ventaglio della tribù delle Livistoneae, con foglie aventi un semplice picciolo terminante in ventaglio arrotondato di circa 20 foglioline. Il picciolo è provvisto di spine delicate. Le foglie sono lunghe tra uno e due metri, mentre le foglioline variano tra i 50 e 100 cm di lunghezza, e sono simili alle foglie del genere Sabal.
I fiori sono di colore tra il giallognolo e il bianco, 5 mm di larghezza, e producono una densa infiorescenza lunga fino a 60 cm.
Il frutto è una drupa di colore nero-rossastro.

Il frutto rappresenta per gli animali selvatici un'importante fonte di cibo.

La pianta viene utilizzata come nutrimento dalle larve di alcune specie di lepidotteri tra cui il Batrachedra decoctor di cui la pianta è l'unico alimento.

È una pianta endemica nel sud-est degli Stati Uniti, soprattutto lungo le coste e lungo il litorale dell'oceano Atlantico e anche all'interno come nel sud dell'Arkansas.

Cresce in fitte boscaglie adiacenti alle coste o nei sottoboschi di pini e latifoglie.

Sono state eseguite diverse ricerche sugli estratti dei frutti e si è potuto dimostrare che la Serenoa repens è ricchissima di acidi grassi e fitosteroli.

I principi attivi della pianta sono in grado di stimolare a livello prostatico i recettori estrogenici e di inibire quelli progestinici, e sono in grado di produrre effetti antiestrogenici e antiandrogenici, che si manifestano con blocco causato dall'inibizione della 5-alfa-reduttasi di tipo I e II del legame da parte del diidrotestosterone a livello dei recettori androgenici.

I nativi americani utilizzano il frutto come cibo, ma anche per una grande varietà di problemi legati al sistema urinario e all'apparato riproduttivo. I coloni europei impararono presto a utilizzarla. Per almeno 200 anni venne usato l'estratto secco per diverse patologie: stanchezza, debolezza, problemi urogenitali e così via.

Risultati di una meta-analisi, pubblicate sul Journal of the American Medical Association, ha dimostrato l'efficacia nel trattamento dei sintomi della iperplasia prostatica benigna (ingrossamento della prostata), in doppio cieco con un placebo e tra due dei più comuni medicinali in commercio.

Vi sono anche trial clinici che mostrano l'efficacia della Serenoa repens nella cura della calvizie maschile.

Una ricerca ha dimostrato che la combinazione tra la Serenoa repens e la radice di ortica ha mostrato un effettivo miglioramento, nelle persone anziane, dei sintomi del tratto urinario, ma senza la riduzione delle dimensioni della prostata, così come è stato dimostrato nel febbraio 2006 in una ricerca condotta a doppio cieco, pubblicata sul New England Journal of Medicine. Entrambe le ricerche sono state oggetto di critiche: per la prima si sospetta un difetto nella metodologia, per la seconda si ipotizza un insufficiente dosaggio del principio attivo.



Altri studi in vitro hanno dimostrato che le proprietà della pianta si estendono anche alla riduzione delle cellule cancerogene nella prostata, ma mancano trial clinici al riguardo.

Gli effetti collaterali della Serenoa repens sono di gran lunga inferiori, rispetto a qualsiasi analogo medicinale di sintesi (finasteride), nel trattamento della iperplasia prostatica benigna, così come citato nella meta-analisi JAMA (nausea, riduzione della libido, disfunzioni erettili); spesso però può manifestarsi nausea, specialmente quando il farmaco venga preso a stomaco vuoto. Possibilità di episodi di dolori addominali e allo stomaco per circa una mezz'ora dopo l'assunzione. Inoltre non sono state individuate interazioni dannose con medicinali di sintesi. Si consiglia comunque di evitare la somministrazione del composto a donne in gravidanza e in allattamento o a bambini piccoli, in quanto si teorizza la possibilità di interferenze ormonali. Anche se la Serenoa repens viene considerata un'erba sicura, uno dei suoi composti principali, il beta-sitosterolo, è chimicamente simile al colesterolo. Alti livelli di questa sostanza nel sangue possono aumentare la probabilità di infarto in soggetti recidivi.

La serenoa è un rimedio valido ed efficace, tanto che il suo estratto lipido-sterolico costituisce il principio attivo di un farmaco utilizzato proprio per contrastare i disturbi funzionali legati all'IPB.
L'estratto lipofilo della pianta è in grado di esercitare la sua azione attraverso diversi meccanismi. Più nel dettaglio, quest'estratto è in grado di inibire il legame del diidrotestosterone ai recettori degli androgeni e, allo stesso tempo, è in grado di inibire anche l'attività dell'enzima 5-alfa-reduttasi (tipo 1 e tipo 2). Quest'ultimo è il responsabile della trasformazione del testosterone in diidrotestosterone, suo metabolita attivo responsabile dello stimolo sulla proliferazione cellulare tipica dell'ipertrofia prostatica.
Per i suoi effetti a livello ormonale, la serenoa repens è anche usata contro la caduta dei capelli (alopecia androgenetica), per uso orale e topico, proprio in relazione al blocco della 5-alfa-reduttasi.
Tuttavia, queste non sono le uniche proprietà attribuite alla serenoa. Infatti, è stato dimostrato da vari studi che la serenoa - in particolar modo il suo estratto lipidico - è in grado di esercitare anche un'azione antinfiammatoria attraverso l'inibizione degli enzimi ciclossigenasi e 5-lipossigenasi, con conseguente inibizione della sintesi di prostaglandine infiammatorie e di leucotrieni.
Inoltre, pare che l'estratto della pianta sia anche dotato di azione antispasmodica, esercitata attraverso la riduzione dell'influsso cellulare di calcio e l'attivazione di un meccanismo di scambio ionico sodio/calcio.

Nella medicina popolare, la serenoa repens viene utilizzata per il trattamento di disturbi flogistici di diversi organi e tessuti. Più nel dettaglio, la pianta viene impiegata per contrastare le infiammazioni a carico del tratto urinario, della vescica, dei testicoli e delle ghiandole mammarie.
Inoltre, la serenoa viene sfruttata dalla medicina tradizionale come rimedio contro l'enuresi notturna, la tosse, gli eczemi e perfino come rimedio per incrementare la libido.

In seguito all'uso sono possibili nausea, vomito e diarrea.

Evitare l'assunzione di serenoa repens in caso d'ipersensibilità accertata verso uno o più componenti.
Inoltre, l'utilizzo della serenoa è controindicato anche in gravidanza e durante l'allattamento.

La serenoa può instaurare interazioni farmacologiche con:
Terapie ormonali, a causa dell'attività anti-androgena esercitata dalla pianta.
Ferro. Poiché i tannini contenuti nella pianta potrebbero complessare il ferro eventualmente somministrato in concomitanza, con conseguente formazione e accumulo nel sangue di complessi non assorbibili e insolubili che possono esercitare effetti negativi sulle cellule ematiche.



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domenica 10 luglio 2016

MANDRAGORA

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La mandragora è un genere di piante appartenenti alla famiglia delle Solanaceae comunemente note come mandragola.
Le loro radici sono caratterizzate da una peculiare biforcazione che ricorda la figura umana (maschile e femminile); insieme alle proprietà anestetiche della pianta, questo fatto ha probabilmente contribuito a far attribuire alla mandragola poteri sovrannaturali in molte tradizioni popolari.

La mandragola costituì uno degli ingredienti principali per la maggior parte delle pozioni mitologiche e leggendarie. Innanzitutto il nome, probabilmente di derivazione persiana (mehregiah), le è stato assegnato dal medico greco Ippocrate. Nell'antichità le venivano accreditate virtù afrodisiache; era utilizzata anche per curare la sterilità.

Alla mandragora venivano nel Medioevo attribuite qualità magiche e non è un caso se era inclusa nella preparazione di varie pozioni. È raffigurata in alcuni testi di alchimia con le sembianze di un uomo o un bambino, per l'aspetto antropomorfo che assume la sua radice in primavera. Da ciò ne è derivata la leggenda del pianto della mandragola ritenuto in grado di uccidere un uomo e per questo, come ricorda Machiavelli nell'omonima sua commedia, il metodo più sicuro per coglierla era legarla al guinzaglio di un cane e quindi lasciarlo libero di modo che, tirando la corda, questi avrebbe sradicato la mandragola udendone il lamento straziante e morendo all'istante, consentendo così al proprietario di coglierla.

La mandragora veniva considerata una creatura a metà del regno vegetale e animale, come il meno noto agnello vegetale di Tartaria. Nel 1615, in alcuni trattati sulla licantropia, tra i quali quello di Njanaud, appariva l'informazione dell'uso di un magico unguento a base di mandragora che permetteva la trasformazione in animali.

Secondo le credenze popolari, le mandragore nascevano dallo sperma emesso dagli impiccati in punto di morte. La mandragola può essere ricondotta ad alcune usanze della stregoneria nelle quali era utilizzata come surrogato delle più famose bambole di cera. È considerata una pianta magica anche dalla Wicca moderna, in particolare nei giorni di plenilunio.

La pianta della mandragora viene pure ricordata nell'omonima rappresentazione teatrale di Niccolò Machiavelli, fra le piante magiche del romanzo fantasy Harry Potter e la camera dei segreti e dell'omonimo film da esso tratto, nel nome di due personaggi dell'anime e manga I Cavalieri dello zodiaco, nonché nel lungometraggio Il labirinto del fauno e nel film di Stefano Bessoni Krokodyle dove una mandragola viene utilizzata nel processo di fabbricazione di un homunculus. Inoltre viene descritta in Haunting Ground per le sue proprietà rivitalizzanti. Nel videogioco Pokémon, Oddish è ispirato a questa pianta. Nel romanzo di Luigi Santucci Il mandragolo il protagonista Demo (un essere deforme, ma dotato di straordinari poteri medianici) viene paragonato alla pianta magica. Nel film prodotto da Iginio Straffi Winx Club - Il Segreto del Regno Perduto uno dei personaggi, ostili alle fate, si chiama Mandragora.

La mandragora aveva (ed ha tutt’oggi) anche un impiego medicinale, afrodisiaco e psicoattivo. In Oriente, è citata nel Vecchio Testamento in Genesi e nel Cantico dei Cantici con il nome di dudaim, “amore e paura”. Nel primo episodio, Rachele, disperata per non avere figli, supplicò Lea di darle una delle mandragore trovate dal figlio Ruben, concedendole in cambio il marito per una notte. Nel secondo episodio, Shulammite invita il suo amante ad andare nei campi dove crescono le mandragore. Flavio Giuseppe, nella Guerra Giudaica, menziona una pianta nota come baaras, “ardore”, probabilmente la mandragora, che “ verso sera emette una luce brillante, elude le persone che tentano di raccoglierla, a meno che non si pongano su essa certe secrezioni del corpo umano. Applicata al paziente, la radice fa espellere i demoni”.

Un nome significativo è quello attribuito nell’Arabia preislamica, cioè abu ‘lruh, “signore del respiro vitale” o “signore dello spirito”, a indicare la carica spirituale della mandragora e probabilmente la sua identificazione con una divinità. Con l’avvento dell’Islam, ritroviamo Tufah al-jinn, “mele del demonio”, Baydal-jinn, “testicoli del demonio” e anche “candela del diavolo”. Questo valore negativo attribuito dagli Arabi alla mandragora si ritrova in una formula per la preparazione di un veleno a base di radici decomposte della pianta. In Persia, il nome è sag-kan, “scavata da un cane”.



Nell’Europa medievale, alla mandragora furono attribuiti numerosi epiteti, per esempio “mela di Satana”, “testicoli di Satana”, “mela dello stolto” e “mela dell’amore”. Per i Germani era nota come Drachenpuppe, “pupazzo-dragone”, e Galgenmännlein, “piccolo uomo delle forche”, mentre in Islanda come thjofarot, “radice dei ladri”. Altre denominazioni ricordavano l’effetto narcotico e le streghe. Una della caratteristiche della mandragora che suscitò la fantasia degli antichi fu la somiglianza della sua radice con la figura umana. Sembra che sia stato Pitagora uno dei primi a descrivere la radice come antropomorfa. E come per tutte le piante magiche, estirparla era pericoloso. Occorreva seguire un preciso rituale e rispettare certe precauzioni. Teofrasto di Lesbo, poi ripreso da Plinio il Vecchio, scrive che per raccoglierla bisogna tracciarle attorno tre cerchi con una spada e tagliarla rivolgendosi a ovest. Tagliandone una seconda parte, si dovrebbe danzarle attorno e dire “quante più cose è possibile sui misteri dell’amore”.

Durante il Medioevo, il rituale prevedeva di recarsi sul posto il venerdì al crepuscolo, con un cane nero affamato. Dopo essersi tappate le orecchie, si facevano tre segni di croce sulla pianta, si scavava attorno e si poneva attorno alla radice una corda, poi annodata al collo o coda del cane. Poco lontano si poneva del cibo per l’animale, il quale strattonando staccava la radice che emetteva un grido. In questo modo, il cane moriva al posto dell’uomo.

C’è addirittura chi fa nascere la mandragora nel Giardino dell’Eden: i primi Esseri umani non sarebbero stati che giganti mandragore sensitive; essi avrebbero poi mantenuto per sempre intimi rapporti con la Pianta Madre specie per quanto riguarda l’aspetto delle sue radici.

Essendo una pianta potenzialmente bisex, quindi ambivalente nei suoi rapporti con l’Essere umano, essa poteva sia guarire la mente e il corpo, come anche portarlo alla perdizione: sia donargli il sonno ristoratore che provocargli la pazzia; sia proteggerlo contro il veleno dei serpenti che ucciderlo senza pietà; oppure lenire il dolore, o (in forti dosi) produrre allucinazioni e deliri.

Nel I secolo d.C. Dioscoride testimonia l’impiego della radice di mandragora, stemperata nel vino, come antidolorifico nei pazienti sottoposti a incisioni e cauterizzazioni.

Sempre come analgesico, a Roma lo stesso preparato (importato dall’Egitto) era anche in uso (come anche la coda essiccata di vipera) contro il mal di denti. Gli erbari medioevali attribuivano poteri prodigiosi a tutte le parti di questa pianta, non di rado tuttavia vicini alla realtà, quali ad esempio la proprietà di indurre anestesia. E verso la fine del XIII secolo Arnaldo da Villanova, tra i rappresentanti più eminenti della famosa Scuola Medica di Montpellier, nella sua Opera omnia improntata alle dottrine della Medicina araba (allora all’avanguardia) riporta una “ricetta anestetica” consistente nell’applicare sul naso e sulla fronte del paziente un panno imbibito di un miscuglio acquoso di oppio, mandragora e giusquìamo in parti eguali, che consentiva di far “cadere il paziente in un sonno così profondo da poterlo operare senza che sentisse dolore e potergli quindi fare qualsiasi cosa”.

Tuttavia, nel Rinascimento molte delle tante virtù medicinali ascritte alla mandragora furono contestate, talvolta derise, anche se le farmacie erano stracolme dei preparati più diversi a base della pianta. Poiché comunque la gente continuava a credere che bastasse possedere un po’ di mandragora, anche senza utilizzarla, per assicurarsi la felicità, la salute e la ricchezza, la richiesta era molto alta. E laddove per le condizioni climatiche e del terreno di mandragora DOC non ne cresceva, abilissimi sofisticatori provvedevano a soddisfare le crescenti e lucrose richieste trasformando in “autentiche” piante che le assomigliavano solo vagamente.

Superfluo dire che le leggende legate alle proprietà magiche della mandragora sono ormai sfatate. La moderna Scienza ne ha riconosciuto i reali effetti sul corpo umano nel suo contenuto in principi chimici attivi come la scopolamina, l’atropina e la josciamina, le cui proprietà vengono oggi utilizzate dalla farmacologia ufficiale in dosi ben determinate e non arbitrarie come un tempo. Tuttavia, nei secoli, nella medicina popolare la mandragora ha continuato ad avere avuto gli impieghi più diversi e fantasiosi: oltre che contro l’epilessia e la depressione, ad esempio, anche contro l’insonnia (commista a rosso d’uovo e latte di donna) e contro l’incontinenza urinaria, nonché (in piccole dosi) come anestetico e antiveleno.

Tuttavia, nonostante le attuali convalidate conoscenze scientifiche circa la reale natura chimica e gli effetti farmacologici dei suoi princìpi attivi, nella fantasia popolare la mandragora ha mantenuto pressoché immutato l’antico fascino. All’Orto Botanico di Berlino si è addirittura rinunciato a coltivarla: le Autorità comunali preferiscono mantenere vuoto lo spazio riservato alla sua coltivazione piuttosto che vederlo continuamente espoliato dai continui furti. E - assicurano gli esperti, nel convulso mondo odierno di super-computer e di missili interplanetari, esiste tuttora un fiorentissimo commercio di “preparati” di mandragora, contenenti frammenti delle sue radici (ma talora sono di rapa), variamente commisti a grani di papavero o di giusquìamo, a polvere di mirra o di ferro calamitato, e (nelle confezioni più ambìte e costose) a sangue di pipistrello.



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giovedì 12 maggio 2016

LA IUTA

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La iuta è una fibra tessile naturale ricavata dalle piante del genere Corchorus, inserito nella famiglia delle Malvaceae. Come per il lino e la canapa, la materia tessile per la produzione si ricava dal fusto della pianta.

La iuta è altamente igroscopica, di colore bianco, giallognolo o bruno. Le fibre sono ruvide e tenaci e il filato risulta anch'esso ruvido, rigido e molto resistente. La iuta si può lavorare all'uncinetto da sola o mescolata con altri filati, per realizzare oggetti vari, come borse, cinture, cappelli o tappeti.

La iuta è al 100% biodegradabile e riciclabile.
È una fibra naturale con riflessi lucenti e dorati e perciò è chiamata la fibra d'oro.
Ha un elevato carico di rottura, una bassa estensibilità, e garantisce un'alta traspirazione del tessuto. La iuta è, quindi, molto adatta nell'imballaggio dei pacchi di beni agricoli.
Può essere usata per creare i filati, tessuti, reti e sacchi della miglior qualità industriale. Insieme allo zucchero può essere usata per costruire i pannelli degli aeroplani. È una delle fibre naturali più versatili mai usate come materiale grezzo nei settori dell'imballaggio, del tessile, dell'edilizia e dell'agricoltura. Il volume del filato conferisce una ridotta tenacia e una maggiore estensibilità quando unito in una "ternary blend" (lett. "mistura ternaria").
La pianta della iuta è imparentata con la pianta della Cannabis sativa. Ciononostante la iuta è completamente priva di elementi narcotici od odorosi.
Le varietà della iuta sono la Corchorus olitorius (riflessi dorati) e la Corchorus capsularis (riflessi argentei).
Al mondo la migliore area produttiva per la iuta è considerata essere la pianura del Bengala (delta del Gange), regione compresa prevalentemente nel Bangladesh.




La pianta è di tipo erbaceo di 3-4 metri di altezza, lo stelo di circa due centimetri di diametro, le foglie sono piccole e gialle di circa 15 centimetri di lunghezza e 5 centimetri di larghezza. La fibra di juta, coltivata nel Sud-Est asiatico, è procurata dalla fibra di tiglio, la materia tessile per la produzione si ricava dal fusto della pianta.
Coltivata in un clima caldo e umido, le condizioni climatiche che ne favoriscono la crescita si verificano durante la stagione dei monsoni, quindi su terreni alluvionati argillosi, dove le precipitazioni sono tra i 75-100 millimetri durante la fase di crescita.
La juta subisce il processo della macerazione: i fusti ricevono una prima breve essiccazione, poi vengono immersi in acqua per venti giorni circa, quindi di nuovo essiccati.
Questo processo permette di separare in un secondo momento, tramite battitura, si procede alla separazione della corteccia fibrosa dall´anima legnosa dello stelo. La fibra ricavata viene lavata e poi messa ad asciugare, ed ammassate in balle per poi essere pronta per la filatura.
La fibra di juta è costituita solo dal 6% del peso della pianta. Il processo di produzione è lungo e richiede un lavoro intenso, l´estrazione della fibra viene effettuato totalmente manualmente.



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venerdì 26 febbraio 2016

LA MARIJUANA

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La marijuana non fa male" e "i danni da spinello sono praticamente inesistenti". Parola dell'oncologo Umberto Veronesi, da sempre a favore della liberalizzazione delle cosiddette 'droghe leggere', che interviene così sul tema sul numero del settimanale Oggi in edicola domani.

"La marijuana fa male? Come ministro della Salute, quando ricoprii l'incarico anni or sono, mi posi anch'io questa domanda - ricorda il direttore scientifico dell'Istituto europeo di oncologia di Milano - E me la posi anche come medico e soprattutto come padre di famiglia. Ebbene, la commissione scientifica che avevo nominato concluse che i cosiddetti 'danni da spinello' sono praticamente inesistenti. Dopo quella, altre commissioni scientifiche giunsero alle stesse conclusioni. E oggi perfino l'Organizzazione mondiale della sanità ha invitato i governi a depenalizzare l'uso personale di marijuana, consapevole su dati scientifici che l'uso di spinelli non fa male".

Nella sua rubrica lo scienziato definisce "infondata anche la credenza che la marijuana dia dipendenza e apra la strada all'uso delle droghe pesanti, come cocaina e morfina. Liberalizzare lo spinello non è malinteso permissivismo, ma una posizione realistica che punta alla riduzione del danno. Risulta che metà dei nostri giovani e molti adulti fanno uso di marijuana. Ha senso criminalizzarli?".

L'etimologia del termine marijuana (con grafia inglese) è sconosciuta. In origine questo era il nome usato comunemente in Messico (marihuana) per indicare la varietà di canapa detta indiana, ove destinata al consumo come sostanza stupefacente. La diffusione internazionale del termine marijuana per designare più genericamente la pianta della canapa, a prescindere dall'uso, è dovuta a un'alacre campagna mediatica promossa negli USA durante gli anni trenta dal magnate dei giornali William Randolph Hearst, il quale adottò un vocabolo messicano dal momento che il Messico era allora considerato negli USA una nazione ostile. I toni scandalistici dei suoi giornali crearono nell'opinione pubblica un clima di avversione per la pianta della canapa che avrebbe portato alla proibizione della stessa da parte del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, che il 14 giugno 1937 firmò il Marihuana Tax Act.

Sono innumerevoli in Italia e all'estero i termini gergali, regionali o subregionali, che identificano la marijuana e l'hashish. Nel gergo comune, per marijuana si intendono le infiorescenze delle piante femminili essiccate e conciate per essere fumate, benché il fumo non sia l'unico veicolo dei cannabinoidi, essendo liposolubili. I metodi di assunzione alternativi a quello tradizionale prevedono ad esempio l'infusione nel latte, nel burro o in altri lipidi nei quali si possano sciogliere i cannabinoidi attivi (THC). Dalle infiorescenze si ricava anche una particolare resina lavorata la cui consistenza può variare da solida a collosa in relazione alle modalità di produzione (l'hashish).

Ganja è il termine in lingua creolo giamaicana utilizzato per indicare la marijuana, erba ritenuta dai rastafariani indispensabile per la meditazione e la preghiera.

Negli anni trenta, l'antropologa Sula Benet ha evidenziato la possibilità che gli antichi israeliti facessero un uso sacrale della cannabis, desumendo l'informazione dai versetti della Bibbia in cui si parla di kaneh bosm.

La crema di hashish è usata per scopi meditativi anche dai Sadhu indiani, da molti monaci buddhisti in Nepal e, in generale, nella zona himalayana.

Gli effetti indotti dall'uso di marijuana sono svariati, hanno differente intensità a seconda del soggetto, dalle circostanze psicofisiche in cui la si assume, dalla contemporanea assunzione di alcool o altre sostanze psicoattive, dall'assuefazione del consumatore e dalla quantità di principio attivo (THC) assunta e della composizione chimica della specie presa in esame; ad esempio le specie con alti valori di CBD e moderati o bassi livelli di THC hanno effetti localizzati principalmente sul fisico, apportando analgesia e rilassamento, caratteristiche che la rendono preferibile rispetto ad altre per uso terapeutico; i principali effetti possibili sono:

analgesia
eccessiva sonnolenza diurna
euforia
rilassamento muscolare
diminuzione della pressione intraoculare ed endooculare
attenuazione della reattività fisica
temporaneo abbassamento o innalzamento della pressione del sangue
amplificazione dei sensi
aumento del battito cardiaco
aumento dell'appetito (comunemente detta "fame chimica")
se assunta in ingenti quantità, nei soggetti predisposti, può provocare stati d'ansia
nei soggetti predisposti, possibile sviluppo di patologie mentali
in alcuni soggetti (probabilmente predisposti) può provocare nausea con conseguente vomito
Mentre per alti contenuti di THC e bassi di CBD gli effetti risulteranno narcotici e in casi particolari anche psichedelici. Consumatori abituali riferiscono che in alcuni soggetti questi effetti tendono a scomparire o attenuarsi, probabilmente per via dell'instaurarsi di un certo grado di tolleranza specifica. Non è ancora chiaro se fumare marijuana aumenti o diminuisca il rischio di cancro. Inoltre, l'uso di tali sostanze può provocare, nei soggetti ove siano già presenti a livello latente, effetti come: disorientamento e forte opacità cognitiva, apatia (in caso di assunzione prolungata e predisposizione), euforia, maggiore sensibilità ai colori, sonnolenza.



In quei paesi nei quali è consentito l'uso medicale di questa sostanza, si cerca di proporre all'utilizzatore l'impiego di apparecchi atti a ridurre il danno da fumo, come ad esempio vaporizzatori che evitano la combustione delle infiorescenze estraendone, comunque, i cannabinoidi.

Al pari di ogni altra molecola attiva, anche gli effetti collaterali dei cannabinoidi sono in stretta relazione col metabolismo e con le dosi assunte dal soggetto. Uno studio condotto da ricercatori della University of Southern California e dell'Università di New York ha mostrato una diminuzione della depressione nei consumatori di cannabis.

L'assunzione di questi derivati con altri farmaci non produce controindicazioni o effetti dannosi (può accadere a volte che l'effetto di un farmaco assunto sotto uso di cannabis abbia gli effetti amplificati)

I vari effetti, come detto in precedenza, possono essere condizionati in maniera influente anche da due fattori psicologici: il set (lo stato d'animo di chi consuma) e il setting (la compagnia con cui si trova e il luogo dove si trova il consumatore). Nel marzo 2007 la rivista scientifica The Lancet pubblica uno studio che evidenzia minore pericolosità della marijuana rispetto ad alcool, nicotina o benzodiazepine. Le leggi di mercato nel campo della cannabis, e il suo prestarsi all'ibridazione, fanno sì che vengano commercializzate varietà con concentrazioni sempre maggiori di cannabinoidi (specialmente di THC); questo, ovviamente, ha ripercussioni sull'entità degli effetti.

Attualmente si stanno conducendo studi sugli effetti dell'esposizione prenatale alla marijuana, che pur escludendo l'aumento di patologie perinatali (parto prematuro, basso peso alla nascita) hanno riscontrato effetti sullo sviluppo delle cellule del sistema nervoso nella corteccia prefrontale e nell'ippocampo. Clinicamente questi bambini presentano deficit dell'apprendimento, problemi della socializzazione e turbe comportamentali (simili, nei casi più gravi, alla sindrome alcolica fetale), che compaiono in età scolare.

Tuttavia, altri studi avrebbero evidenziato che l'esposizione moderata ai cannabinoidi della marijuana durante la gravidanza diminuirebbero della metà il rischio di morte alla nascita.

La maggior parte delle sperimentazioni condotte su topi da laboratorio è stata intrapresa somministrando esclusivamente THC veicolato in soluzione diluente, per lo più non nella sua versione naturale ma nella sua variante sintetica, escludendo la somministrazione in contemporanea degli altri cannabinoidi presenti naturalmente nel fiore di cannabis che viene comunemente fumato. Come diversi studi scientifici dimostrano, i cannabinoidi hanno la capacità di interagire tra di loro una volta assunti nel corpo umano.

L'esempio più comune è dato dal principio attivo CBD, non psicoattivo, che ha la proprietà di annullare gli effetti negativi del THC su respirazione, battito cardiaco, pressione sanguigna; molto importante per pazienti che soffrono di problematiche cardio-vascolari o cardio-respiratorie. Le varietà di cannabis per uso terapeutico possono arrivare a contenere una percentuale di CBD anche del 14%, ma questo dipende molto dal tipo di malattia con cui si ha a che fare; infatti, il Bedrocan, noto farmaco importato dall'Olanda, ha una percentuale di CBD solo dell'1% circa, e THC al 19% circa.

Uno studio pubblicato sulla rivista New Scientist nel 2008 ha evidenziato che un consumo a lungo termine di canapa provoca anormalità strutturali dell'ippocampo (ovvero l'area del cervello che regola le emozioni e la memoria) e dell'amigdala (l'area del cervello che controlla la paura, e l'aggressività). Questo studio ha evidenziato una diminuzione del 12% del volume dell'ippocampo e del 7,1% del volume dell'amigdala in consumatori regolari.

Alcuni studi avevano suggerito, per i consumatori abituali di cannabis, una probabilità più elevata di sviluppare alcune malattie psichiatriche rispetto alla popolazione generale; tuttavia, uno studio effettuato dall'Università di Harvard nel 2013 ha dimostrato che non vi sarebbe correlazione tra consumo di canapa e sviluppo di problemi psichiatrici. Uno dei maggiori studi osservazionali su larga scala conclude che la probabilità di ammalarsi di schizofrenia sarebbe tanto più elevata quanto maggiore è stata l'esposizione alla cannabis, con un effetto di tipo "dose-risposta" (tutto questo attraverso l'esposizione e l'uso prolungato e continuo della cannabis in età adolescenziale). Studi più recenti giungono a conclusioni simili ma anche opposte.

Uno studio della durata di 35 anni pubblicato nell'agosto del 2012 dalla National Academy of Sciences ha fornito evidenza oggettiva di danni irreversibili sull'apprendimento nei consumatori cronici adolescenti. Lo studio ha evidenziato danni persistenti all'intelligenza, alla capacità cognitiva e di memoria in soggetti minori di 18 anni, danni invece non evidenziati in soggetti che hanno cominciato a fumare in età adulta. Risultati affini sono stati raggiunti da un altro studio pubblicato nel luglio 2012, in cui sono stati evidenziati problemi cerebrali e scompensi nell'attività neurale in alcune zone del cervello in consumatori adolescenti e di giovane età.

Nonostante questi studi, in un'intervista sul settimanale Espresso, l'ex ministro della salute, l'oncologo Umberto Veronesi, ha affermato che la marijuana non è dannosa e che i danni da spinelli sono praticamente inesistenti.

La marijuana è generalmente fumata in una sigaretta (spinello), ma può anche essere fumata in una pipa. Meno spesso, viene mescolata al cibo e mangiata o usata in infuso. A volte gli utenti aprono sigarette e rimuovono il tabacco, sostituendolo con marijuana: questo viene chiamato “blunt” . Spinello e “blunt” a volte sono mischiati con altri farmaci più potenti, come ad esempio crack o PCP (fenciclidina, un potente allucinogeno).

Quando una persona fuma uno spinello, di solito sente il suo effetto nel giro di pochi minuti. Le sensazioni immediate: accelerazione del ritmo cardiaco, diminuzione di coordinamento e di equilibrio, e un “sognante” e irreale stato d’animo, raggiungono l’apice entro i primi 30 minuti. Questi effetti a breve termine di solito finiscono nel giro di due o tre ore, ma potrebbero durare più a lungo, a seconda della quantità assunta, della potenza del THC e della presenza di altre droghe aggiunte nel miscuglio.

Dato che un tipico consumatore inala più fumo e lo trattiene più a lungo di quanto non farebbe con una sigaretta, un spinello crea un grave impatto sui polmoni di una persona. A parte il disagio che accompagna mal di gola e raffreddore, si è scoperto che il consumare uno spinello espone a sostanze chimiche cancerogene come fumare cinque sigarette.

Le conseguenze mentali dell’uso della marijuana sono ugualmente gravi. I fumatori di marijuana hanno memoria e attitudine mentale peggiori di chi non ne fa uso.

Gli animali a cui i ricercatori hanno somministrato marijuana hanno persino subito danni strutturali al cervello.



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giovedì 31 dicembre 2015

IL VISCHIO



Il vischio è una pianta sempreverde epifita, emiparassita di numerosi alberi, soprattutto latifoglie come ad esempio pioppi, salici, tigli, aceri, meli, betulle, mandorli, Prunus mahaleb e addirittura Loranthus europaeus - esempio di iperparassitismo. In più è un esempio di autoparassitismo, perché può svilupparsi molto bene, sulla pianta "madre", se la capinera (Sylvia atricapilla) - in mancanza di insetti in inverno, si nutre dell'involucro delle bacche e sta schiacciando fuori il seme contro rami del vischio di latifoglie, liberandosi in una maniera straordinaria dai due fili tenaci-collosi estendibili a più di 20 cm. La pianta madre non soffre di questo autoparassitismo. Risultano soltanto ramificazioni stupefandi. - Su latifoglie come olmi, ontani, noci, e querci si trova il vischio soltanto se si tratta di specie non ancora immunizzate perché d'origine americana come Alnus rubra, Juglans nigra e Quercus rubra; ma anche su certi conifere: pino silvestre e pino montano ed un'altra sottospecie (Viscum album ssp. abietis) sull'abete. Se ne può notare la presenza sui latifoglie specialmente in inverno, quando i suoi cespugli piantati nei rami sono evidenziati dalla perdita delle foglie della pianta che li ospita.

La foglia verde del vischio indica la presenza di clorofilla, quindi questa pianta è in grado di compiere la fotosintesi come tutte le altre. L'unico handicap è nell'approvvigionamento dell'azoto, che il vischio non è in grado di ottenere per conto proprio ma lo sottrae alla pianta ospite.

Caratterizzato da foglie oblunghe e coriacee della larghezza di circa 2 cm (più larghe su la Robinia, meno larghe dalla sottospecie dei pini Viscum album ssp. austriacum) poste a due a due lungo i rami biforcati ed articolati, il vischio ha i fiori gialli e frutti dalle bacche sferiche bianche o giallastre translucide e con l'interno gelatinoso e colloso.

I semi di queste bacche, trasportate e disperse da certi uccelli (che se ne cibano), anzitutto la tordela (Turdus viscivorus), si insediano su un ramo di una pianta "ospite" e iniziano a germinare.

Finché sono sufficiente la luce e l'umidità, i semi possono germogliare su un qualsiasi sostrato, anche legno morto o pietra, perché gli embrioni, nel loro involucro sottile e semitrasparente, sono verdi già nel seme: con le piogge e l'irradiazione solare fanno fotosintesi. Così l'asse embrionale o ipocotile fuoriesce dal seme e si allunga - non verso la luce, ma curvandosi in direzione contraria - caso raro di "fototropismo negativo". La punta toccando il sostrato forma un piccolo disco appoggiandosi al sostrato ed il germoglio può innalzarsi. Se adesso il sostrato è la corteccia assai liscia e giovane di un ramo di una pianta "ospite", continua lo sviluppo del germoglio di vischio: Attraverso un cono di penetrazione ha inizio la formazione di un piccolo tronco, di strutture speciali sotto la corteccia viva e lo sviluppo del vischio. Di solito la pianta ospite non subisce danni a patto che non ci siano troppi individui, in tal caso per liberarsene si dovrà procedere a recidere il ramo.

La coltivazione del vischio è praticata per fini ornamentali ed in erboristeria su un ramo da una pianta ospite sensibile (né faggio, né platano o Ailanthus) e innestando, schiacciandola, una bacca di vischio matura su parti di corteccia ben' liscia e non troppo vecchia. Dopo un lento sviluppo, talvolta anche nascosto nella corteccia viva, che può durare perfino un paio di anni, inizierà la sua crescita spontanea.




Al vischio sono riconducibili leggende e tradizioni molto antiche: per le popolazioni celtiche, che lo chiamavano oloaiacet, era, assieme alla quercia, considerato pianta sacra e dono degli dei; secondo una leggenda nordica teneva lontane disgrazie e malattie; continua in molti paesi a essere considerato simbolo di buon augurio durante il periodo natalizio: diffusa è infatti l'usanza, originaria dei paesi scandinavi, di salutare l'arrivo del nuovo anno baciandosi sotto uno dei suoi rami. A questo proposito il mito di Baldur (raccontato nel Gylfaginning), figlio del dio Odino e signore della luce (per questo sovrapponibile a Cristo), che muore ucciso da una bacchetta di vischio da cui, idealmente e simbolicamente, proviene, in quanto il padre Odino è identificato con l'albero cosmico Yggdrasill su cui nasce il vischio: come era accaduto a Cristo per il legno della croce.

Nel VI libro dell'Eneide (vv. 133-141) di Virgilio, dove si racconta la discesa di Enea nell'oltretomba, la Sibilla cumana gli ordina di trovare un "ramo d'oro" (cioè di vischio, secondo gli studi antropologici) che sarà necessario per placare le divinità infere durante la sua catabasi. L'antropologo britannico James Frazer ha dedicato a questo mito una poderosa ricerca.

Considerato dai Druidi una pianta sacra in grado di guarire ogni malattia, per i Celti invece era un modo per raccogliere i fulmini (queste infatti colpivano molto spesso querce ricoperte di vischio) e quindi un collegamento diretto con il cielo.

Fino al Medioevo per i cristiani è stato simbolo di maledizione, tanto che leggenda narra che quando Cristo venne condannato alla croce tutte le piante si frammentarono a esclusione del vischio, che per questo, fu condannato a essere una pianta parassita.

Nonostante sia simbolo di buon auspicio per l’anno che verrà e milioni di innamorati si siano baciati sotto i suoi rami, le sue bacche sono fatali: 10 di queste potrebbero uccidere un uomo.

Il vischio ha una lunghissima tradizione che arriva fino alle credenze celtiche. Per questi popoli il vischio infatti allontanava sventure e malattie, portando invece fortuna e serenità.

Ma il potere fortunato del bacio arriva dai Druidi del nord Europa: quando due nemici si incontravano sotto una pianta di vischio erano infatti soliti abbandonare le armi e concedersi una tregua, sancendo il patto con un bacio.

Da quella tradizione si è giunti fino alla nostra per cui, appendere il vischio alla porta della propria casa o all’interno dell’abitazione è augurio di prosperità!

Il vischio ha delle proprietà terapeutiche da non trascurare, fra le quali sono note quelle antitumorali. Questa pianta, chiamata scientificamente viscum album, infatti, avrebbe la capacità di agire come agente immunoterapico contro il cancro. Oltre a questo sono, comunque, molti i benefici per la salute, conosciuti fin dall’antichità: regola il sistema circolatorio, contrasta l’arteriosclerosi, allevia i problemi gastrointestinali, riduce lo stress, riesce ad essere terapeutico nel caso di affezioni respiratorie. Vediamo nello specifico tutti i benefici apportati, tenendo conto anche delle controindicazioni e degli effetti collaterali.
Le proprietà terapeutiche del vischio sono tante. Conosciuti sono gli effetti che la pianta esercita per quanto riguarda la regolazione del sistema circolatorio. Il vischio riesce ad essere efficace contro l’ipertensione arteriosa, perché è in grado di migliorare l’irrorazione sanguigna a livello cerebrale e cardiaco e inoltre aumenta la diuresi.
Ha anche un’azione sedativa, perché calma le palpitazioni e il nervosismo. E’ considerato un rimedio contro l’arteriosclerosi, perché riesce ad arginare la formazione delle placche aterosclerotiche, le quali possono restringere o ostruire le arterie. Ecco perché questa pianta è indicata per la prevenzione nei casi di soggetti che hanno avuto delle trombosi o delle embolie cerebrali.
Il vischio ha anche un potere emostatico, difatti il suo uso è raccomandato anche in caso di irregolarità del ciclo o se si è soggetti a mestruazioni abbondanti o ad emorragie uterine. Può essere considerato un’ottima soluzione per rendere meno acuti i dolori reumatici e agisce come antinfiammatorio nei casi di sciatica.
La pianta in questione è capace di rendere meno complessi i problemi gastrointestinali, agendo nello specifico contro la diarrea. E’ ricca di sostanze molto utili per la salute, come i tannini, le mucillagini, le ammine, gli antiossidanti e l’acido caffeico.
Può essere impiegata per combattere le affezioni respiratorie, che provocano disturbi come tosse ed asma.
Le proprietà antitumorali del vischio sono state sfruttate a livello clinico in Europa fin dal 1926, quando si è utilizzato un prodotto fermentato, ottenuto dal succo crudo della pianta. Questa sostanza era utilizzata come agente immunoterapico contro il cancro. In effetti il vischio contiene delle proteine, che hanno degli effetti immunostimolanti e pertanto capaci di contrastare le cellule tumorali, inibendone la proliferazione.
L’utilizzo del vischio è consigliato anche durante il trattamento chemioterapico e nel periodo post-operatorio, per stimolare le difese dell’organismo e per rafforzare l’azione dei farmaci antineoplastici. La ricerca scientifica ha confermato che la pianta avrebbe degli effetti da non sottovalutare in alcuni tipi di tumore in particolare, come quello polmonare, del pancreas, del colon-retto, mammario e cervicale.

Le controindicazioni del vischio consistono in dei casi di eventuale ipersensibilità accertata verso alcuni componenti della pianta. E’ da tenere presente che ci possono essere delle interazioni farmacologiche da tenere sotto controllo, quando si assumono farmaci anticoagulanti, immunosoppressori e antidepressivi.
Il vischio possiede anche una certa tossicità, per cui non si deve esagerare nella sua assunzione. In genere le bacche vengono considerate più tossiche rispetto alle foglie e agli steli. Si deve fare particolare attenzione, anche se non si vuole incorrere in degli effetti negativi, che consistono soprattutto in reazioni allergiche, ma anche, nei casi più gravi, in shock cardiovascolare. Sono sempre le bacche, le quali, se ingerite in abbondanza, possono provocare vomito e diarrea.



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venerdì 18 dicembre 2015

IL MIRTO



Il mirto è una pianta celebre sin dall'antichità, sia perché ricca di virtù terapeutiche, sia perché gli eroi della mitologia greca venivano rappresentati con il capo agghindato con le sue foglie: il mirto era una dunque pianta legata alla bellezza, ma anche alla gloria e all'eroismo. Le proprietà curative del mirto sono molteplici, ma in particolare le foglie sono ricche di principi attivi  dalla notevole azione antisettica e balsamica. Grazie alle sue proprietà toniche ed antisettiche il mirto viene utilizzato in cosmesi per il trattamento di pelli sensibili.

Il mirto è un arbusto sempreverde, aromatico, che raggiunge un'altezza di 3-5 m. I fusti del mirto portano foglie lucide, coriacee, opposte; alla loro ascella nascono i fiori  con 5 petali bianchi o rosati e molti stami prominenti, che si aprono all'inizio dell'estate e sono profumati. I frutti sono bacche tonde e commestibili, di circa 1 cm di diametro e di colore blu-rossatro, coperti da una pruina bluastra quando maturano (tra novembre e gennaio) e  contenenti molti semi.
Si dice che il mirto crescesse spontaneo in Grecia, nell'Italia meridionale e in tutte le isole esposte al vento ed al sole. E' comune nella macchia mediterranea, ma anche sui monti. Il mirto viene anche coltivato da tempi antichissimi sia per scopo alimentare sia ornamentale (per fare siepi).  Noto ai Greci, che ne derivarono molte leggende, il mirto era utilizzato anche dai romani per curare l'ulcera e malattie dell'apparato respiratorio; nel medioevo dai fiori si ricavava un profumo chiamato "acqua degli angeli" e si usava anche come inchiostro.

Ne esistono numerose varietà coltivate a scopo ornamentale come il Myrtus communis var. variegata alta fino a 4,50 m, con foglie dalle eleganti striature colorate di bianco-crema e fiori profumatissimi.

È una specie spontanea delle regioni mediterranee, comune nella macchia mediterranea. In Sardegna e Corsica è un comunissimo arbusto della macchia mediterranea bassa, tipica delle associazioni fitoclimatiche xerofile dell'Oleo-ceratonion. Meno frequente è invece la presenza del mirto nella macchia alta.

Il mirto è una pianta rustica, si adatta abbastanza ai terreni poveri e siccitosi ma trae vantaggio sia dagli apporti idrici estivi sia dalla disponibilità d'azoto manifestando in condizioni favorevoli uno spiccato rigoglio vegetativo e un'abbondante produzione di fiori e frutti. Vegeta preferibilmente nei suoli a reazione acida o neutra, in particolare quelli a matrice granitica, mentre soffre i terreni a matrice calcarea.

L'interesse economico che sta riscuotendo questa specie in Sardegna ha dato il via negli anni novanta ad un'attività di miglioramento genetico da parte del Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei dell'Università di Sassari, che ha selezionato oltre 40 varietà fino al 2005. Lo scopo principale del miglioramento genetico è la produzione di bacche da destinare alla produzione del liquore di mirto, tuttavia è in corso anche un'attività di screening finalizzata alla produzione dell'olio essenziale.

Fra le caratteristiche morfologiche, fenologiche e produttive valutate ai fini del miglioramento genetico rientrano la forma e la pezzatura delle bacche, la dimensione dei semi, la vigoria della pianta, la pigmentazione dell'epicarpo, carattere fondamentale per produzione del liquore, la produttività, la percentuale di radicazione (carattere fondamentale per la moltiplicazione per talea) e, infine, la predisposizione alla rifiorenza, carattere ritenuto negativo ai fini della produzione delle bacche.

Il mirto può essere riprodotto per talea o per seme.

La riproduzione è utile per clonare ecotipi o varietà di particolare pregio da utilizzare in mirteti intensivi, perché consente di ottenere piante vigorose e precoci, in grado di fruttificare già in fitocella dopo un anno. Per ottenere percentuali di radicazione accettabili è indispensabile ricorrere a tecniche che incrementino il potere rizogeno, come il riscaldamento basale e il trattamento con fitoregolatori rizogeni, e rallentino l'appassimento delle talee, come la nebulizzazione.

La riproduzione per seme, per la sua semplicità e per i costi bassissimi, è consigliata per un'attività amatoriale da eseguire in ambito domestico. Le piante ottenute da seme sono meno vigorose e difficilmente entrano in produzione prima dei quattro anni. La semina va fatta nel periodo di maturazione delle bacche, nei mesi di dicembre-gennaio, in quanto i semi perdono ben presto il potere germinativo. Per realizzare un piccolo semenzaio si può utilizzare una cassetta da riempire con terriccio. Si sbriciolano le bacche semiappassite, distribuendo uniformemente il seme con una densità di 3-4 semi per centimetro quadrato e ricoprendolo con uno strato leggero di terriccio, dopo di che ci si deve preoccupare di irrigare frequentemente e moderatamente. La cassetta va mantenuta in un ambiente riparato, all'aperto nelle regioni ad inverno mite, in serra nelle zone ad inverno rigido. Le piantine vanno trapiantate in vasetti o in fitocelle della capacità di mezzo litro quando hanno raggiunto un'altezza di 4–6 cm.

L'impianto del mirteto si esegue con gli stessi criteri applicati nella frutticoltura e nella viticoltura. Il terreno va preparato con lo scasso e la superficie sistemata con le lavorazioni complementari, in occasione delle quali si può valutare l'opportunità di una concimazione di fondo su terreni particolarmente poveri.



Per la sua rusticità e la capacità di competizione il mirto richiede per lo più il controllo delle infestanti con lavorazioni superficiali nell'interfila, qualora si adotti un sistema d'allevamento a cespuglio, e sulla fila nei primi anni e soprattutto con l'allevamento ad alberello. In caso di coltura in asciutto si opera secondo i criteri dell'aridocoltura con lavorazioni più profonde nell'interfila per aumentare la capacità d'invaso.

Il mirto risponde positivamente soprattutto alla concimazione azotata in quanto la produzione è potenzialmente correlata allo sviluppo vegetativo primaverile. Gli interventi vanno pertanto eseguiti in epoca primaverile per incrementare il rigoglio vegetativo. La concimazione azotata e quella potassica diventano indispensabili per garantire un buon livello nutrizionale e contenere eventuali fenomeni di alternanza qualora si provveda ad asportare i rami in fase di raccolta.

L'irrigazione è indispensabile per garantire buone rese. La specie resiste bene a condizioni di siccità prolungata e potrebbe essere coltivata anche in asciutto, ma le rese sono piuttosto basse. Le dimensioni delle bacche inoltre sono piuttosto piccole e rendono proibitiva la raccolta con la brucatura o la pettinatura. Tre o quattro interventi irrigui di soccorso nell'arco della stagione estiva possono migliorare sensibilmente lo stato nutrizionale delle piante e di conseguenza le rese. I migliori risultati si ottengono naturalmente con irrigazioni più frequenti adottando sistemi di microirrigazione con turni di 10-15 giorni secondo la disponibilità e il tipo di terreno. I volumi stagionali ordinari possono probabilmente oscillare dai 1.000 ai 3.000 metri cubi ad ettaro.

Tradizionalmente la raccolta nella macchia è eseguita con la brucatura o con l'impiego di strumenti agevolatori (pettini forniti di contenitori per l'intercettazione), questi ultimi in grado di aumentare leggermente la capacità di lavoro. Una pratica sconsiderata è quella di tagliare i rami e lasciarli appassire per qualche giorno in modo da staccare le bacche con la semplice scrollatura. Questa tecnica è deprecabile a causa del grave impatto ambientale se ripetuta negli anni: in un impianto artificiale potrebbe essere giustificata per ridurre i costi della raccolta su grandi estensioni ma oltre ad offrire un'eventuale rischio di alternanza (non documentato), richiede maggiori oneri di fertilizzazione per garantire un'adeguata rigenerazione annuale della vegetazione ed evitare un eccessivo impoverimento del terreno.

Il Dipartimento di Ingegneria del Territorio Sezione Meccanizzazione ed Impiantistica dell'Università di Sassari sta sperimentato alcuni prototipi per un'eventuale meccanizzazione della raccolta mutuati da altri sistemi di raccolta adottati in olivicoltura o in viticoltura. Allo stato attuale le ipotesi più accreditate prevedono l'impiego di macchine scavallatrici che effettuano lo scuotimento o la pettinatura con intercettazione per mezzo di reti.

Le rese possono variare sensibilmente secondo le condizioni operative. Le rese effettive nella macchia dipendono dalle caratteristiche intrinseche dell'associazione floristica, con particolare riferimento alla percentuale di copertura del mirto, dall'andamento climatico della stagione, dalle condizioni pedologiche. Prove condotte dal Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei dell'Università di Sassari e dal Centro Regionale Agrario Sperimentale della Sardegna in diverse stazioni dell'isola hanno rilevato rese variabili da poche decine di kg a massimi di 200 kg ad ettaro. Negli impianti intensivi la letteratura non ha ancora fornito indicazioni attendibili, ma le rese potrebbero attestarsi sull'ordine di 4-6 t ad ettaro in regime irriguo con investimenti di 3.000-3.500 piante.

Il prodotto più importante, dal punto di vista quantitativo, è rappresentato dalle bacche, utilizzate per la preparazione del liquore di mirto propriamente detto, ottenuto per infusione alcolica delle bacche attraverso macerazione o corrente di vapore. Un liquore di minore diffusione è il Mirto Bianco, ottenuto per infusione idroalcolica dei giovani germogli, erroneamente confuso con una variante del liquore di mirto propriamente detto ottenuto per infusione delle bacche di varietà a frutto non pigmentato. Il prezzo di mercato delle bacche si aggira intorno ai 1,8-2 euro/kg.

L'abbondante e suggestiva fioritura in tarda primavera o inizio estate o la presenza per lungo tempo delle bacche (di colore nero bluastro o rossastro o rosso violaceo) nel periodo autunnale rendono questa pianta adatta per ravvivare i colori del giardino come arbusto isolato, allevato a cespuglio o ad alberello. L'utilizzazione più interessante del mirto come pianta ornamentale è tuttavia la siepe: in condizioni ambientali favorevoli è in grado di formare una fitta siepe medio alta in pochi anni. Le foglie, relativamente piccole, e la notevole capacità di ricaccio vegetativo lo rendono adatto a formare siepi modellate geometricamente con la tosatura, ma può anche essere allevato a forma libera e sfruttare in questo caso lo spettacolo suggestivo offerto prima dalla fioritura poi dalla fruttificazione.

Attualmente si utilizzano soprattutto le bacche per la preparazione di vini e liquori (Sardegna, Corsica). Si usano anche le foglie del mirto, ricche di tannini ed olio essenziale (0.5%), contenente idrocarburi monoterpenici, alcoli, esteri ed altre sostanze.

Le parti  della pianta utilizzate sono le foglie e le cime fiorite.
Gli usi più diffusi sono quelli alimentari: l'infusione delle bacche mature in alcol e acqua più miele dà il classico liquore di mirto; le foglie e le bacche sono usate fresche o secche per ripieni e come spezia ideale della selvaggina, mentre i rami servono ad aromatizzare la carne allo spiedo.
In fitoterapia il mirto è usato contro leucorrea, emorroidi e  nelle affezioni polmonari come sedativo delle bronchiti. Ha utilizzi anche come epatostimolante, contro l'insonnia, la psoriasi, il meteorismo. Ad alte dosi è nocivo (nausea, depressione) e irritante delle mucose.
In cosmetica l'essenza è usata in profumeria e in aromaterapia per massaggi, bagni e frizioni.

Per il suo contenuto in olio essenziale (mirtolo, contenente mirtenolo e geraniolo e altri principi attivi minori), tannini e resine, è un'interessante pianta dalle proprietà aromatiche e officinali. Al mirto sono attribuite proprietà balsamiche, antinfiammatorie, astringenti, leggermente antisettiche, pertanto trova impiego in campo erboristico e farmaceutico per la cura di affezioni a carico dell'apparato digerente e del sistema respiratorio. Dalla distillazione delle foglie e dei fiori si ottiene una lozione tonica per uso eudermico. La resa in olio essenziale della distillazione del mirto è alquanto bassa.

L'impiego fitocosmetico del mirto risale al medioevo: con la locuzione di Acqua degli angeli, s'indicava l'acqua distillata di fiori di mirto.

Nella tradizione gastronomica sarda il mirto è un'importante condimento per aromatizzare alcune carni: i rametti sono tradizionalmente usati per aromatizzare il maialetto arrosto, il pollame arrosto o bollito e soprattutto sa taccula o grivia, un semplice ma ricercato piatto a base di uccellagione bollita (tordi, merli, storni).

La popolarità di cui gode questa pianta in Sardegna è notevole al punto che questa pianta è oggetto di consuetudini consolidate. In autunno presso i mercati civici e gli ambulanti si trovano facilmente le bacche di mirto pronte per essere messe in macerazione per la preparazione casalinga del liquore. Lo stesso liquore è ormai diventato il digestivo per eccellenza offerto, spesso in omaggio, nei ristoranti al termine del pasto. Infine, i rametti di mirto sono frequentissimi come ornamento nei banchi delle macellerie e delle rosticcerie. La popolarità ha ispirato la ricerca negli ultimi anni di nuove utilizzazioni in campo alimentare che però non hanno riscosso grande successo. In particolare si citano il thè freddo al mirto e il gelato al gusto di mirto.

Il mirto è bottinato dalle api per ottenere il polline. Il miele monoflora di mirto è piuttosto raro: per definizione il 90% del polline di un miele monoflora deve essere costituito da polline di mirto, ma va precisato che il mirto non produce nettare, essendo il fiore privo di nettari. Trattandosi di una specie comunemente presente in associazioni fitoclimatiche questa pianta contribuisce alla produzione del miele millefiori o di altri mieli monoflora.

Nell'antichità, il mirto era pianta sacra a Venere, in quanto si riteneva che la dea, appena nata dalla spuma del mare, si fosse rifugiata in un boschetto di mirti.

Il liquore di mirto (licòre/-i de murta in sardo, licòr di mortula in corso), detto semplicemente mirto o mirto rosso, è un liquore popolare, in Sardegna e in Corsica, ottenuto per macerazione alcolica delle bacche di mirto o di un misto di bacche e foglie. Nell'accezione comune del termine, il liquore di mirto è ottenuto dalla macerazione di bacche pigmentate mature.

A questa tipologia fa riferimento specifico il termine di mirto rosso, per la colorazione conferita dagli antociani delle bacche. Una tipologia differente è il mirto bianco termine generico con cui si indica sia il liquore ottenuto dalla macerazione di bacche depigmentate sia quello meno comune ottenuto dalla macerazione delle foglie di giovani germogli. Quest'ultimo liquore ha caratteristiche organolettiche nettamente differenti dal liquore di mirto propriamente detto.

La denominazione ufficiale, adottata dalla Regione Sardegna e dall'associazione dei produttori, è quella di Mirto di Sardegna.

Come per tutte le tradizioni popolari, le origini di questo prodotto sono antichissime. Il liquore ottenuto dalle sole bacche, o dalle bacche e le foglie, fa parte della tradizione popolare di Sardegna, in particolare la qualità rossa, ritenuta la più pregiata, mentre nella vicina Corsica il mirto, (detto murta in entrambe le isole), veniva usato solitamente come spezia per condire i prodotti di cacciagione. L'introduzione della preparazione del mirto in Corsica si ha ad opera dei banditi di Gallura, che cercando riparo nell'isola vicina, portarono con sé ed oltre mare il prezioso liquore, un tempo proibito da editti o pregoni. In tempi recenti e con il Decreto legge n. 173 del 1998, articolo 8, comma 1, il mirto di Sardegna è stato inserito nell'elenco ufficiale dei Prodotti Tradizionali.

Diverse fonti fanno risalire le origini di questo liquore alla tradizione popolare dell'Ottocento. Nelle famiglie si produceva il vino di mirto dalla macerazione idroalcolica delle bacche mature. Per la macerazione si utilizzava una miscela di alcool e acqua o, più probabilmente, acquavite e acqua oppure lo stesso vino. Al termine del periodo di macerazione all'estratto si aggiungeva zucchero o miele per dolcificarlo. Il prodotto era destinato all'autoconsumo. Di questa semplice ricetta sono citate delle varianti.

Le caratteristiche organolettiche del liquore si devono al passaggio in soluzione degli antociani presenti nella buccia delle bacche, che conferiscono la colorazione al liquore, dei tannini presenti nella polpa, responsabili del gusto astringente, e di composti volatili che conferiscono l'aroma.

Il processo d'invecchiamento, da alcuni mesi fino al massimo di un anno, è determinante sulle caratteristiche organolettiche del liquore in quanto sia gli antociani sia i tannini subiscono delle trasformazioni. In liquore appena preparato in genere ha una colorazione molto scura, tendente al nero con riflessi marcatamente violacei, e un gusto astringente al palato. Dopo diversi mesi la colorazione si attenua e presenta riflessi che tendono al rosso rubino, il gusto è più armonico e vellutato con un'attenuazione dell'effetto astringente dei tannini. Dopo 1-2 anni le proprietà organolettiche degenerano, soprattutto in riferimento al viraggio della pigmentazione verso il bruno.

Il periodo migliore in cui gustare il liquore va dunque dagli 1-2 mesi dopo la preparazione, per chi apprezza la pigmentazione nero-violacea e il gusto astringente, ai 6-15 mesi per chi apprezza un liquore più amabile e vellutato.

Durante il periodo di maturazione in bottiglia può riscontrarsi la formazione di sospensioni, dovute ai tannini, che rendono torbido il liquore. Il fenomeno è negativo perché deprezza la qualità al senso della vista, tuttavia non influisce sulle altre proprietà organolettiche: una volta versato nel bicchiere, il liquore a contatto con l'aria riacquista la sua limpidezza.

Lo schema della preparazione casalinga prevede, in sequenza, l'infusione alcolica delle bacche mature per macerazione in alcool etilico a 95°, il recupero dell'estratto alcolico per sgrondatura ed eventuale torchiatura, l'aggiunta a freddo di sciroppo di zucchero o zucchero e miele, l'imbottigliamento e, infine, la maturazione.

Esistono diverse ricette per la preparazione del liquore, pertanto quella che segue è la descrizione di una delle possibili varianti. Le bacche appena raccolte vanno lavate accuratamente in modo da rimuovere la polvere e altre impurità. La presenza di foglie non è un fatto negativo, anzi, conferisce proprietà aromatiche in virtù dei principi attivi volatili contenuti nelle foglie.

Dopo il lavaggio si lasciano appassire le bacche per qualche giorno lasciandole stese in uno strato sottile al riparo dalla polvere. A questo punto si trasferiscono le bacche in contenitori di vetro scuro che andranno colmati con alcool etilico a 95°. La quantità di alcool da impiegare è importante: l'alcool deve appena sommergere completamente le bacche perché una quantità eccessiva fornirebbe un estratto povero di componenti. I contenitori si lasciano esposti alla luce per alcuni giorni, dopo di che vanno riposti in un luogo chiuso per tutto il periodo della macerazione, che deve durare complessivamente circa 40 giorni.

Al termine della macerazione si recupera l'estratto facendo sgrondare le bacche. Con un piccolo torchio si può recuperare un ulteriore quantitativo di estratto per aumentare la resa, tuttavia se si forza eccessivamente la torchiatura si ottiene un liquore con spiccate proprietà tanniche, pertanto si deve scegliere un congruo compromesso fra resa e qualità. L'estratto va filtrato impiegando filtri in carta assorbente.

Nel frattempo si prepara uno sciroppo sciogliendo a caldo lo zucchero in una quantità adeguata di acqua. Si tratta della fase più delicata perché un piccolo errore può ripercuotersi in modo marcato sulle qualità organolettiche del prodotto finale. Il grado di densità dello sciroppo dipende dalla gradazione alcolica e dal grado di dolcificazione desiderati. Le ricette propongono in genere quantitativi medi in peso composti da 300 g di bacche, 300 g di alcool e uno sciroppo ottenuto sciogliendo 250 g di zucchero in 250 g d'acqua, tuttavia è più razionale operare in termini volumetrici facendo un saggio preliminare su un piccolo quantitativo: si prepara uno sciroppo con rapporto acqua e zucchero di 1:1 e si aggiunge a freddo all'estratto alcolico. I rapporti volumetrici fra sciroppo e alcool sono orientativamente i seguenti:

per ottenere una gradazione alcolica del 30%: 65 ml di sciroppo aggiunti a 35 ml di estratto;
per ottenere una gradazione alcolica del 34%: 60 ml di sciroppo aggiunti a 40 ml di estratto.
Queste indicazioni hanno solo valore orientativo perché per valutarle con esattezza sarebbe necessario determinare la gradazione di partenza dell'estratto alcolico. In ogni modo, una volta effettuato il saggio preliminare si valuta l'opportunità di preparare uno sciroppo più concentrato, se si desidera un liquore più dolce, oppure più diluito se si desidera un liquore più "amaro". Nella valutazione si deve prevedere che il processo di maturazione accentua il sapore dolce perché si attenua l'effetto astringente dei tannini. In ogni modo si tratta di valutazioni soggettive legate molto all'esperienza.

Una volta preparato, il liquore si travasa nelle bottiglie. Per l'imbottigliamento si utilizza in genere la classica bottiglia bordolese da 75 cl oppure la bottiglia lirica da 50 cl, preferibilmente in vetro scuro. Prima di consumare il liquore è consigliabile una conservazione di almeno 1 o 2 mesi per ottenere la maturazione. Durante la conservazione potrebbe essere opportuno effettuare un travaso o una seconda filtrazione per eliminare i sedimenti, ma spesso questa operazione non è necessaria. È del tutto inutile, invece, cercare di eliminare l'eventuale formazione di sospensioni fioccose dai riflessi chiari: si tratta di un fenomeno fisico-chimico che non può essere rimosso con la semplice filtrazione.

Nell'industria liquoristica lo schema della preparazione tradizionale è stato adattato ad un processo industriale, in grado di operare su grossi quantitativi e applicare i controlli di qualità.

Le bacche, conferite da raccoglitori che attualmente esercitano la loro attività sulla vegetazione spontanea della macchia mediterranea, sono sottoposte ad un lavaggio in acqua fredda per l'eliminazione delle impurità, dopo di che sono sottoposte al processo d'infusione. Questo avviene per macerazione in alcool all'interno di sili in acciaio.

Al termine della macerazione, si procede con la separazione dell'estratto alcolico dalla frazione solida. L'estratto alcolico è convogliato in altri sili, mentre la frazione solida è sottoposta ad un lavaggio con acqua potabile per recuperare l'estratto che ancora impregna le bacche. L'estratto idroalcolico è convogliato nei sili in cui è contenuto il primo estratto. Quello che si ottiene, denominato prodotto di massa, è un estratto idroalcolico con gradazione superiore al 50% e viene mantenuto tal quale nei sili di stoccaggio.

Le operazioni successive si effettuano alla fine sulle partite destinate all'imbottigliamento. Si procede innanzitutto all'addolcimento del prodotto di massa, in genere utilizzando zucchero o, come fanno alcune Case, zucchero e miele o solo miele, dopo di che si aggiunge acqua deionizzata fino a raggiungere il grado alcolico previsto. Segue la filtrazione e, infine, l'imbottigliamento generalmente in bottiglie in vetro scuro da 50 o 75 cl.

Il prodotto ha in genere una gradazione alcolica del 30% o del 32%. Alcune Case offrono però al mercato liquori con gradazione inferiore (28%) o superiore (35%).

L'interesse che il mercato sta rivolgendo a questo liquore ha spinto alcune Case ad associarsi per tutelare e valorizzare il prodotto. Nel 1994 è stata istituita l'Associazione Produttori Mirto di Sardegna con i seguenti scopi: definire uno standard di produzione, di concerto con Centri di ricerca, definire un marchio di qualità, promuovere azioni di tutela.

L'attività si è concretizzata nel corso di poco più di un decennio con le seguenti azioni:

Caratterizzazione del prodotto con uno standard basato sulle caratteristiche organolettiche e sulle caratteristiche fisico-chimiche della frazione aromatica.
Definizione di un Disciplinare di produzione riferito alla materia prima, al processo di trasformazione e allo standard del prodotto.
Istituzione di una commissione tecnica di controllo, formata da rappresentanti delle Università di Sassari e Cagliari e dei produttori, che si occupa dei controlli di conformità al Disciplinare sia sui processi di produzione sia su campioni delle partite destinate al commercio.
Adozione della denominazione ufficiale Mirto di Sardegna.
Inserimento del Liquore Mirto di Sardegna nell'elenco ufficiale dei Prodotti Tradizionali (Decreto Legge n. 173 del 1998, Articolo 8, Comma 1).
Organizzazione di manifestazioni di convegni, esposizioni, iniziative di marketing.
Un ostacolo determinante alla valorizzazione e tutela del prodotto è il mancato riconoscimento del prodotto da parte della Commissione Europea. L'Associazione ha proposto la modifica al Regolamento UE n. 1576 del 1989. Il Regolamento comunitario disciplina le norme relative alla presentazione delle bevande spiritose e alla tutela delle denominazioni legate alla provenienza geografica. L'ultimo aggiornamento del regolamento risale al 1989 e l'Italia è proprio uno dei Paesi Comunitari che in passato si sono opposti a successive richieste di modifiche. L'azione in sede comunitaria è stata ostacolata proprio dal Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, contrario ad eventuali procedure di riapertura del Regolamento che avrebbero accolto anche richieste da parte di altri Paesi per prodotti concorrenti con bevande italiane già inserite nell'elenco.

Nel decennio a cavallo del 2000 il mercato delle bevande alcoliche mostra nel complesso un andamento negativo della domanda. Al contrario, la domanda del liquore di mirto è in controtendenza e registra una marcata crescita anche e soprattutto per la penetrazione del prodotto sia nel mercato nazionale sia in quello internazionale. Il successo del prodotto è comprovato anche dai tentativi d'imitazione e dall'adozione di processi che contrastano con le direttive e le finalità del Disciplinare di produzione e degradano l'immagine del prodotto. Il Disciplinare prevede infatti l'utilizzo di materia prima prodotta esclusivamente in Sardegna, la trasformazione in aziende site nel territorio regionale, l'adozione dell'infusione per macerazione, l'assoluto divieto d'impiego di additivi, con particolare riferimento ai coloranti.

Possibili frodi che violano il Disciplinare sono le seguenti:

impiego di bacche o estratti di provenienza extraregionale;
impiego di aromi naturali prodotti artificialmente o isolati da piante del genere Myrtus;
impiego di additivi coloranti per integrare un basso tenore in antociani;
estrazione per infusione alcolica in corrente di vapore.

Per le sue proprietà, il Mirto di Sardegna s'inserisce fra i digestivi, pertanto va degustato dopo i pasti, anche se molte persone lo gradiscono anche come aperitivo. Il modo migliore di apprezzarlo è consumarlo ghiacciato, versato da bottiglie tenute in congelatore.

Alcune pasticcerie isolane lo usano nell'impasto di farcitura dei cioccolatini.

Le bacche di mirto, oltre che la preparazione del liquore sono utilizzate anche per altri impieghi, come ad esempio per i prodotti di linea di cortesia con l'essenza di Mirto, per offrire ai turisti una tipicità anche nei prodotti che l'ospite trova a sua disposizione nell'Albergo: shampoo, bagno doccia, ecc.


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