martedì 11 agosto 2015

LA PLASTICA

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La storia della plastica comincia nell’XIX° secolo, quando, tra il 1861 e il 1862, l’Inglese Alexander Parkes, sviluppando gli studi sul nitrato di cellulosa, isola e brevetta il primo materiale plastico semisintetico, che battezza Parkesine (più nota poi come Xylonite). Si tratta di un primo tipo di celluloide, utilizzato per la produzione di manici e scatole, ma anche di manufatti flessibili come i polsini e i colletti delle camicie.
La prima vera affermazione del nuovo materiale si ha però solo qualche anno dopo, quando nel 1870 i fratelli americani Hyatt brevettano la formula della celluloide, avendo l’obiettivo di sostituire il costoso e raro avorio nella produzione delle palle da biliardo, salvo incontrare un immediato successo presso i dentisti quale materiale da impiegarsi per le impronte dentarie. Dal punto di vista chimico, la celluloide era ancora nitrato di cellulosa ed era inadatto ad essere lavorato con tecniche di stampaggio ad alta temperatura in quanto molto infiammabile. Il problema fu superato con l’avvento del nuovo secolo, quando fu sviluppato l’acetato di cellulosa, ovvero la celluloide, che era sufficientemente ignifuga per rinforzare e impermeabilizzare le ali e la fusoliera dei primi aeroplani o per produrre le pellicole cinematografiche.

Ma il secolo della plastica è il ‘900. Nel 1907 il chimico belga Leo Baekeland ottiene per condensazione tra fenolo e formaldeide la prima resina termoindurente di origine sintetica, che brevetterà nel 1910 con il nome dei Bakelite. Il nuovo materiale ha un successo travolgente e la Bakelite diviene in breve e per molti anni la materia plastica più diffusa ed utilizzata.
Nel 1912 un chimico tedesco, Fritz Klatte, scopre il processo per la produzione del polivinilcloruro (PVC), che avrà grandissimi sviluppi industriali solo molti anni dopo.
Un anno dopo, nel 1913, è la volta del primo materiale flessibile, trasparente ed impermeabile che trova subito applicazione nel campo dell’imballaggio: lo Svizzero Jacques Edwin Brandenberger inventa il Cellophane, un materiale a base cellulosica prodotto in fogli sottilissimi e flessibili.

Con gli anni ’20 la “plastica” trova anche una rigorosa base teorica. Hermann Staudinger, dell’Università di Friburgo, avvia nel 1920 gli studi sulla struttura e le proprietà dei polimeri naturali e sintetici, proponendo per i polimeri sintetici dello stirene e della formaldeide e per la gomma naturale le formule a catena aperta e attribuendo le proprietà colloidali degli alti polimeri esclusivamente all’elevato peso delle loro molecole (definite per questo macromolecole).
Gli anni ’30 e la seconda guerra mondiale segnano il passaggio della “plastica” all’”età adulta”, soprattutto per quanto concerne la creazione di una vera e propria industria moderna: il petrolio diviene la “materia prima” da cui partire per la produzione e, al contempo, migliorano e si adattano alle produzioni massive le tecniche di lavorazione, a cominciare da quelle di stampaggio.
Nel 1935 Wallace Carothers sintetizza per primo il nylon (poliammide), una materiale che si diffonderà con la guerra al seguito delle truppe americane trovando una quantità di applicazioni, grazie alle sue caratteristiche che lo rendono assolutamente funzionale all’industria tessile: dalle calze da donna ai paracadute, inizia l’ascesa delle “fibre sintetiche”.
Partendo dal lavoro di Carothers, Rex Whinfield e James Tennant Dickson nel 1941 brevettano il polietilene tereftalato (PET), insieme con il loro datore di lavoro, la Calico Printers' Association di Manchester. Nel dopoguerra questo poliestere ebbe grande successo nella produzione di fibre tessili artificiali (Terylene), settore nel quale è largamente impiegato tuttora (per esempio, è in PET il tessuto noto come pile). Il suo ingresso nel mondo dell’imballaggio alimentare risale al 1973, quando Nathaniel Wyeth (Du Pont) brevettò la bottiglia in PET come contenitore per le bevande gassate. Leggera, resistente agli urti e trasparente, la bottiglia inventata da Wyet è oggi lo standard per il confezionamento delle acque minerali e delle bibite.
La guerra stimola l’esigenza di trovare sostituti a prodotti naturali non reperibili, per cui vengono sviluppati i poliuretani in sostituzione della gomma, soprattutto in Germania, mentre dal 1939 sono industrializzati i primi copolimeri cloruro-acetato di vinile, sviluppando scoperte di inizio secolo. Da allora il cloruro polivinile (PVC) servirà, ad esempio, per i dischi fonografici.

Dopo la guerra, le scoperte dettate da esigenze “militari” invadono il mondo civile. Gli anni ’50 vedono la scoperta delle resine melammina-formaldeide (il vasto pubblico le conosce sotto la denominazione commerciale di una specifica tra esse, la “Fòrmica”), che permettono di produrre laminati per l’arredamento e di stampare stoviglie a basso prezzo, mentre le “fibre sintetiche” (poliestere, nylon) vivono il loro primo boom, alternativa “moderna” e pratica a quelle naturali.
Quegli stessi anni sono però soprattutto segnati dall’irresistibile ascesa del Polietilene, che trova pieno successo solo due decenni dopo la sua invenzione, sfruttando il suo più elevato punto di fusione per permettere applicazioni sino ad allora impensabili, e dalla scoperta di Giulio Natta nel 1954 del Polipropilene isotattico, a coronamento degli studi sui catalizzatori di polimerizzazione dell’etilene che gli varranno nel 1963 il Premio Nobel insieme al Tedesco Karl Ziegler, che l’anno precedente aveva isolato il polietilene. Il Polipropilene sarà prodotto industrialmente dal 1957 col marchio “Moplen”,  rivoluzionando le case di tutto il mondo ma entrando soprattutto nella mitologia italiana del “boom economico”

Gli anni ’60 vedono il definitivo affermarsi della plastica come insostituibile strumento della vita quotidiana e come “nuova frontiera” anche nel campo della moda, del design e dell’arte. Il “nuovo” materiale irrompe nel quotidiano e nell’immaginario di milioni di persone, nelle cucine, nei salotti, permettendo a masse sempre più vaste di accedere a consumi prima riservati a pochi privilegiati, semplificando un’infinità di gesti quotidiani, colorando le case, rivoluzionando abitudini consolidate da secoli e contribuendo a creare lo “stile di vita moderno”.

I decenni successivi sono quelli della grande crescita tecnologica, della progressiva affermazione per applicazioni sempre più sofisticate ed impensabili, grazie allo sviluppo dei cosìddetti “tecnopolimeri”. Il polimetilpentene (o TPX) utilizzato soprattutto per la produzione di articoli per i laboratori clinici, resistente alla sterilizzazione e con una perfetta trasparenza; le poliimmidi, resine termoindurenti che non si alterano se sottoposte per periodi anche molto lunghi a temperature di 300°C e che per questo vengono utilizzate nell’industria automobilistica per componenti del motore o per i forni a microonde; le resine acetaliche, il polifenilene ossido, gli ionomeri, i polisolfoni, il polifenilene solfuro, il polibutilentereftalato, il policarbonato usato, fra l'altro, per produrre i caschi spaziali degli astronauti, le lenti a contatto, gli scudi antiproiettile. I "tecnopolimeri" hanno tali caratteristiche di resistenza sia termica che meccanica (peraltro ancora in parte inesplorate) da renderli spesso superiori ai metalli speciali o alla ceramica, tanto che vengono utilizzati nella produzione di palette per turbine e di altre componenti dei motori degli aviogetti, o nella produzione di pistoni e fasce elastiche per automobili.



Una volta raccolta, la plastica viene pressata per agevolarne il trasporto presso gli stabilimenti che si occupano di selezione e riciclaggio della plastica per il suo riutilizzo come “materia prima seconda”, ovvero come materia prima non vergine. Dalla raccolta della plastica, questa viene destinata o ai centri di selezione e riciclo oppure ai centri di compattazione.

La plastica, una volta raggiunto l’impianto di riciclaggio, viene inserita in un apposito impianto che provvede alla lacerazione degli eventuali sacchetti di raccolta. La prima selezione della plastica di tipi meccanico avviene in un vaglio rotante che separa le varie famiglie di plastiche in base alla loro dimensione. A seguito di questa prima separazione meccanica che è effettuata dal vaglio rotanto (una sorta di enorme centrifuga), avvengono delle ulteriori separazione a opera di lettori ottici che separano la plastica in base ai polimeri di composizione e a eventuali colorazioni, in questo caso la separazione non avviene con un movimento rotatorio (centrifuga) ma con dei soffi d’aria. A questo punto avviene una seconda compressione con stoccaggio dove si vanno a formare degli imballi omogenei dati dalle stesse tipologie di plastiche.

Oltre alle divisioni meccaniche vi sono anche quelle manuali dove la plastica passa su un nastro trasportatore e gli addetti ai lavori rimuovono eventuali materiali plastici non idonei al riciclaggio come giocattoli in plastica erroneamente smaltiti nella raccolta differenziata della plastica…

La manodopera umana va a correggere gli eventuali errori delle macchine, per esempio quelli effettuati dal lettore ottico circa i pigmenti di colorazione delle bottiglie, solo in questo modo si potrà avere un controllo di qualità atto a ottenere una selezione di plastica adatta al riciclaggio. Solo dopo la plastica sarà convogliata in una pressa che darà varie balle di materiale plastico: PET (data principalmente da bottiglie) in tre diverse colorazioni, cioè colorato, azzurrato e trasparente, polietilene ad alta densità (dato principalmente dai fustini dei detersivi e flaconi vari) e polietilene a bassa densità (dato principalmente da buste, shopper e altro estensibile industriale).

A fine delle lavorazione vi è sempre una parte di materiale plastico non recuperabile, il cosiddetto rifiuto. Il rifiuto è dato da materiale erroneamente inserito nella raccolta della plastica o materiale plastico che non è stato scompattato. Il rifiuto andrà a costituire la base per il recupero energetico (termovalorizzatore).



La produzione mondiale di plastica è di circa 200 milioni di tonnellate/anno. Per confronto, la produzione mondiale di carta è circa 330 milioni di tonnellate/anno. Tale produzione, in costante aumento negli ultimi 50 anni, ha fatto sì che venisse coniata l’espressione "Era della Plastica", applicata a tutta la seconda metà del novecento. Questa definizione dà un’idea di quanto l’avvento delle materie plastiche abbia inciso sui comportamenti e le abitudini quotidiane dei paesi sviluppati e in via di sviluppo, e di quanto abbia contribuito allo sviluppo di importanti settori come trasporti, comunicazioni, elettronica, informatica.

In particolare, le materie plastiche hanno assunto crescente importanza nei settori dell’imballaggio e dell’edilizia, dove fanno competizione alla carta e ai metalli.

Accanto ai vantaggi, sono sempre più fortemente emersi negli anni problemi di inquinamento ambientale causato dalla dispersione della plastica nei rifiuti urbani, e conseguentemente nelle discariche. La plastica dispersa nell’ambiente origina un elevato danno paesaggistico e un inquinamento dell’ecosistema, soprattutto a causa della natura "indistruttibile" di questi materiali.

Il metodo tradizionale di smaltimento dei rifiuti (interramento in discariche ed incenerimento) non può essere applicato alla plastica perchè:
alcune materie plastiche quando bruciano producono gas tossici;
quasi tutte le plastiche bruciando producono una notevole quantità di calore che, se non viene utilizzato per produrre energia, si disperde nell’ambiente circostante causando un indesiderato aumento della temperatura (inquinamento termico);
la plastica non è degradabile, se non in tempi lunghissimi (centinaia di anni), quindi una volta abbandonata permane nell’ambiente.
Il problema dell’impatto ambientale della plastica può essere risolto, o almeno ridotto, con metodi di recupero tramite raccolta differenziata e di ri-utilizzo degli stessi materiali a fine vita (riciclo). Per soluzioni più definitive, si punta oggi a sostituire le plastiche tradizionali con plastiche degradabili. La ricerca in questo campo è attiva in istituzioni pubbliche e private in tutto il mondo. Un altro modo di eliminare la plastica è bruciarla per produrre energia.



LEGGI ANCHE .:http://marzurro.blogspot.it/2015/08/mare-inquinato.html







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