martedì 22 marzo 2016

JIAD

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Sui social media diversi account riconducibili a jihadisti esultano dopo le esplosioni all'aeroporto di Bruxelles e alla stazione della metro di Maelbeek che hanno seminato il terrore nella capitale belga. "Incursione a Bruxelles: è magnifico", twitta Karim Abdul Salam sul suo account "Ksalam". Un altro: "I leoni di Bruxelles vi dicono: o lasciate libero Salah o questo è il negoziato dello Stato Islamico". Ma il mondo islamico si spacca. "Il terrorismo colpisce tutti" ha detto il Gran Mufti dell'Egitto Sheik Shawki Allem, in un discorso al Parlamento europeo.

Jihad è un termine nel linguaggio dell'Islam che connota un ampio spettro di significati. Letteralmente significa "sforzo", individua lo slancio per raggiungere un dato obiettivo e può fare riferimento allo sforzo spirituale del singolo individuo per migliorare sé stesso. Nella dottrina islamica indica tanto lo sforzo di miglioramento del credente (il «jihad superiore»), soprattutto intellettuale, rivolto per esempio allo studio e alla comprensione dei testi sacri o del diritto, quanto la guerra condotta «per la causa di Dio», ossia per l'espansione dell'islam al di fuori dei confini del mondo musulmano (il «jihad inferiore»).

Nel mondo occidentale la traduzione di jihad esclusivamente come "guerra santa" è fuorviante perché ci porta a equivocare il vero significato del termine. Prevalentemente, però, il termine jihad è stato interpretato come la guerra santa contro gli infedeli, lo strumento armato per la diffusione dell'Islam.

L'interpretazione militante del jihad dello Shaykh al-Azzam descrive il "jihad offensivo" come una campagna che può essere dichiarata solo da un'autorità musulmana legittima e legale, tradizionalmente il califfo. Secondo questa interpretazione, nessuna autorità è richiesta per intraprendere il "jihad difensivo", poiché, secondo questa opinione, quando i musulmani vengono attaccati, diventa automaticamente obbligatorio per tutti i maschi musulmani in età militare, entro un certo raggio dall'attacco, prendere le difese.

La questione di quale autorità musulmana, ammesso che ve ne sia, possa adempiere doveri come dichiara il jihad è divenuta problematica da quando, il 3 marzo 1924, Kemal Atatürk abolì il califfato, che i sultani ottomani detenevano dal 1517. Non esiste oggi un'unica autorità politica costituita che governi la maggioranza del mondo musulmano. A causa della mancanza di organizzazione ecclesiastica all'interno della vasta maggioranza dei musulmani, qualsiasi aderente può autoproclamarsi alim (esperto in materia di religione) e proclamare un jihad offensivo per mezzo di una fatwa. Il riconoscimento è a discrezione di colui che riceve il messaggio.

In assenza di un Califfo, i soli leader politici islamici di fatto sembrerebbero essere i governi dei moderni stati-nazione musulmani emersi dagli sconvolgimenti della prima parte del XX secolo. Comunque, a causa dell'alleanza e della sudditanza degli Stati-nazione secolari e pseudo-democratici o monarchici del Vicino e Medio Oriente alle superpotenze economiche e militari mondiali non islamiche, Stati Uniti, Europa e Russia, i militanti islamisti reputano che gli Stati-nazione moderni emersi a metà XX secolo siano non-islamici e non rappresentativi di società islamiche. Il secolarismo è ampiamente percepito dagli islamisti militanti come rappresentativo di interessi politici americani ed europei ostili all'Islam.

Di conseguenza, movimenti islamisti (come al-Qaida e Hamas) si sono assunti il compito di proclamare il jihad, scavalcando l'autorità tanto degli Stati-nazione quanto degli esperti religiosi tradizionali. Analogamente, alcuni musulmani (specialmente i takfiristi) hanno dichiarato il jihad contro specifici governi che percepiscono come corrotti, oppressivi e anti-islamici.

Durante il periodo della rivelazione coranica, allorché Maometto si trovava a La Mecca, lo jihad si riferiva essenzialmente alla lotta non violenta e personale, quindi a quello sforzo interiore necessario per la comprensione dei misteri divini. In seguito al trasferimento (Egira) da La Mecca a Medina nel 622 e alla fondazione di uno Stato islamico, il Corano (22:39) autorizzò il combattimento difensivo. Il Corano iniziò a incorporare la parola qital (combattimento o stato di guerra) per scopo difensivo:

« Combattete contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono. »
(Corano 2:190 (tradotto da Shakir))
« Se vi assalgono uccideteli, se però cessano allora Allah è perdonatore. »
(Corano 2:191-192 (tradotto da Shakir))
« Combatteteli finché non ci sia più persecuzione. »
(Corano 2:193 (tradotto da Shakir))
« Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi idolatri ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l'orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore, misericordioso. »
(Corano 9:5 (tradotto da Shakir))
« Combattete coloro che non credono in Allah e nell'Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati. »
(Corano 9:29 (tradotto da Shakir))
Tra i seguaci dei movimenti liberali interni all'Islam, l'interpretazione di questi versi è quello di una specifica "guerra in corso" e non una serie di precetti vincolanti per il fedele.

Questi musulmani "liberali" tendono a promuovere una comprensione dello jihad che rigetti l'identificazione dello jihad con la lotta armata, scegliendo invece di porre in risalto principi di non violenza. Tali musulmani citano la figura coranica di Abele a sostegno della credenza per cui chi muore in conseguenza del rifiuto di usare violenza può ottenere perdono dei peccati.

Nonostante le interpretazioni posteriori di queste porzioni del Corano, i passaggi in questione sottolineavano chiaramente, all'epoca, l'importanza dell'autodifesa nella comunità musulmana.

I musulmani spesso si rifanno a due significati di jihad citando un hadith riportato dall'imam Bayhaqi e da al-Khatib al-Baghdadi, benché il suo isnad (la catena di tradizioni che può ricondurre sino alle parole di Maometto) sia classificato come "debole":

"grande jihad (interiore)" – lo sforzo per autoemendarsi, contrastando le pulsioni passionali dell'io;
"piccolo jihad (esteriore)" – uno sforzo militare, cioè una guerra legale; da esercitarsi solo in caso di attacco personale.
Altri esempi di azioni che potrebbero essere considerati jihad (sulla base di hadith con migliore isnad) includono:
parlare francamente contro un governante oppressivo ("Sunan" di Abu Dawud, libro 37, numero 4330);
andare in pellegrinaggio a Mecca – per le donne, questa è la migliore forma di jihad ("Sahih" di Bukhari, volume 2, libro 26, numero 595);
prendersi cura dei genitori anziani, come il profeta Maometto ordinò di fare a un giovane, invece di unirsi a una campagna militare (narrato da Bukhari, Muslim, Abu Dawud al-Sijistani, al-Tirmidhi e al-Nasa'i).
Il significato più letterale di jihad è semplicemente "sforzo" e così è talvolta soprannominato lo "jihad interiore". Lo "jihad interiore" si riferisce essenzialmente a tutti gli sforzi che un musulmano potrebbe affrontare aderendo alla religione.

La tradizione di identificare lo sforzo interiore come grande jihad (cioè, non militare) pare essere stato profondamente influenzato dal sufismo, un movimento mistico interno all'Islam antico e diversificato.

Sia per i musulmani, sia per i non musulmani gli attacchi dei militanti sotto l'egida dello jihad possono essere percepiti come atti di terrorismo. Due gruppi islamisti si chiamano "jihad islamico": l'Egyptian Islamic Jihad e il Palestinian Islamic Jihad. I fiancheggiatori di questi gruppi percepiscono una giustificazione religiosa forte per un'interpretazione militante del termine jihad quale risposta adeguata all'occupazione israeliana della Cisgiordania (o "West Bank", all'inglese) e della Striscia di Gaza.



I musulmani credono che un posto in Paradiso (Ganna) sia assicurato a colui che muore come parte in lotta contro l'oppressione in qualità di shahid (martire, cioè testimone). Descrizioni del Paradiso, nell'Islam come nel Cristianesimo, sono intrinsecamente problematiche. Considerazioni negli hadith e nel Corano circa le ricompense spettanti allo shahid — i settantadue "puri spiriti" conosciuti come Huri, i fiumi che scorrono, l'abbondanza di freschi frutti — possono, a seconda delle prospettive, essere considerati realtà letterali o metafore per un'esperienza trascendente l'umana espressione.

Anche qualora la morte di un martire in un'operazione militare sia sicura, gli islamisti militanti considerano l'atto un martirio anziché un suicidio. Qualora musulmani non combattenti periscano in tali operazioni militari, i militanti considerano queste persone shahid, anch'essi con un posto assicurato in paradiso. Stando a questa concezione, solo il nemico kafir, o i miscredenti, ricevono danno dalle operazioni di martirio. La maggioranza degli eruditi islamici rigetta questa interpretazione. Il suicidio è un peccato nell'Islam. La dottrina maggioritaria degli studiosi discorda dall'approccio militante islamista in materia, e ritiene che le operazioni di martirio siano equivalenti al peccato di suicidio, che uccidere civili sia un peccato e che la Sunna (il costume, la "Retta Via") non permetta né l'uno né l'altro. Per questi studiosi, e per la vasta maggioranza dei musulmani, né le missioni suicide né gli attacchi ai civili sono considerati legittime conseguenze dello jihad.

Praticamente tutti i musulmani, tuttavia, ritengono che la legittima difesa dell'Islam comporti ricompense nell'Altra Vita.
Le organizzazioni militanti islamiste non costituiscono uno Stato autonomo o un'autorità di fatto; nondimeno esse considerano i bersagli economici come obiettivi militari, citando come prova le numerose incursioni carovaniere. Resta il fatto, comunque, che la tradizione islamica più antica proibisce espressamente di attaccare donne, bambini, anziani ed edifici civili nel corso di una campagna militare. Il Corano, l'indiscutibile fonte di autorità nell'Islam, vieta l'uccisione di innocenti. Tuttavia, il divieto di uccidere non è assoluto, poiché viene posta una condizione:

« Chiunque uccida una persona – a meno che essa non stia per uccidere una persona o per creare disordine sulla Terra – sarà come se uccidesse l'intera umanità; e chiunque salvi una vita, sarà come se avrà salvato la vita di tutta l'umanità. »
(Corano (5:32))
In base a questo verso del Corano, se un essere umano non ha ucciso un'altra persona o creato conflitto o disordine nel mondo è da considerarsi innocente. Ucciderlo sarebbe l'equivalente di un massacro dell'intera razza umana, un delitto inconcepibilmente barbaro e un peccato enorme. Per una parte dei musulmani questo verso è decisamente abbastanza chiaro da togliere ogni dubbio o ambiguità sul rango morale degli attacchi contro civili.

La maggioranza dei musulmani considera la lotta armata contro l'occupazione straniera o l'oppressione da parte di un governo interno degne di jihad difensivo. In effetti, sembra che il Corano richieda la difesa militare della comunità islamica assediata.

In epoca coloniale le popolazioni musulmane insorsero contro le autorità coloniali sotto la bandiera dello jihad (gli esempi includono il Daghestan, la Cecenia, la rivolta indiana contro la Gran Bretagna (moti indiani del 1857, altrimenti chiamati dai britannici mutiny, cui peraltro parteciparono in maggioranza gli Hindu) e la guerra d'indipendenza algerina contro la Francia). In questo senso, lo jihad difensivo non è diverso dal diritto di resistenza armata contro l'occupazione, che è riconosciuto dall'ONU e dal diritto internazionale.

La tradizione islamica ritiene che quando i musulmani vengono attaccati diventi obbligatorio per tutti i musulmani difendersi dall'attacco, partecipare allo jihad. Quando l'Unione Sovietica invase l'Afghanistan nel 1979, l'eminente militante islamico Abd Allah Yusuf al-Azzam (che influenzò in modo determinante Ayman al-Zawahiri e Usama bin Laden) emise una fatwa chiamata, Difesa delle terre islamiche, il primo dovere secondo la Legge, dichiarando che tanto la lotta afghana quanto quella palestinese erano jihad nelle quali l'azione militare contro i kuffar (miscredenti) sarebbe stata far? ?ayn (obbligo personale) per tutti i musulmani. L'editto fu appoggiato dal Gran Mufti dell'Arabia Saudita, Abd al-Aziz Bin Bazz.

Lo Jihad offensivo è l'intraprendere una guerra di aggressione e conquista contro i non-musulmani al fine di sottomettere questi e i loro territori al dominio islamico. Secondo numerose interpretazioni tra cui la Encylopedia of the Orient, "il jihad offensivo, cioè l'aggressione, è pienamente ammesso dall'islam sunnita", ma al contrario del jihad difensivo non vi è alcun obbligo di partecipazione da parte dei singoli fedeli musulmani, ma solo della comunità islamica nel suo insieme.

Il Corano usa il termine "jihad" solo quattro volte, nessuna delle quali fa riferimento alla lotta armata. Come tale, l'uso della parola jihad in riferimento alla guerra canonica islamica, fu un'invenzione posteriore dei musulmani. Tuttavia, il concetto di guerra legale islamica non fu a sua volta un'invenzione posteriore, e il Corano contiene passaggi che si riferiscono a specifici eventi storici e che possono chiarire la teoria e la pratica dalla lotta armata (qital) per i musulmani.

In questo senso è decisivo il passo 193 della Sura II, nel quale compare la parola "fitna" (arabo "prova"), che in arabo ha un significato molto ampio, che include sia la ribellione che il vizio, nei confronti di Allah e delle sue creature.

Come era pratica comune nel Medioevo, l'Islam in effetti considera i prigionieri di guerra un bottino. Quando Maometto e i suoi eserciti risultavano vittoriosi in battaglia, i prigionieri di guerra maschi o venivano restituiti alle tribù dietro riscatto, o scambiati con prigionieri di guerra musulmani, oppure venduti come schiavi, com'era costume dell'epoca. Anche le donne e i bambini catturati e fatti prigionieri correvano il rischio di cadere in schiavitù, benché la conversione all'Islam fosse una strada per ottenere la libertà.

Il trattamento di prigionieri di guerra ai tempi di Maometto in persona sembra fosse decisamente più umano di quello riservato dalle generazioni successive della dirigenza islamica. Dopo la battaglia di Badr, ai restanti furono date le seguenti opzioni: o di convertirsi all'Islam e guadagnare così la libertà, o di pagare il riscatto e guadagnare la libertà, o di insegnare a leggere e a scrivere a 10 musulmani e guadagnare così la libertà. Anche l'orientalista William Muir, non propriamente amichevole verso l'Islam, ha scritto quanto segue:

« A seguito delle decisioni di Maometto, i cittadini di Medina e coloro tra i rifugiati che possedevano case ricevettero i prigionieri e li trattarono con molta considerazione. "Siano benedetti gli uomini di Medina", disse uno dei prigionieri in epoca successiva, "ci hanno fatto cavalcare mentre essi camminavano, ci hanno dato pane lievitato quando ce n'era poco, mentre loro si accontentavano di datteri". »
(William Muir)

Con il termine jihadismo si fa tradizionalmente riferimento al macrofenomeno del fondamentalismo islamico che, attraverso una multiforme costellazione di soggetti e raggruppamenti, promuove il ‘jihad’ contro coloro che a vario titolo sono considerati infedeli. Tale prospettiva – che ha avuto modo di consolidarsi con particolare forza dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 – riconduce pertanto il jihad ad una dimensione conflittuale spesso marcatamente brutale e violenta, che funge da base ideologica per il terrorismo di matrice islamica e che, grazie anche ad una propaganda particolarmente efficace, ha attratto nell’ultimo decennio migliaia di nuovi adepti.

Nonostante la sua rilevanza, al di fuori del mondo islamico il tema del jihad è rimasto a lungo appannaggio esclusivo degli studiosi. La familiarità dell’opinione pubblica occidentale – per lo meno sotto il profilo mediatico - con il jihad e con il fenomeno del jihadismo è infatti da considerarsi recente, e in gran parte riconducibile agli sviluppi storici e geopolitici successivi agli eventi dell’11 settembre 2001, quando l’Occidente colpito nei suoi massimi simboli economici (New York e le Torri Gemelle) e militari (il Pentagono a Washington) ha scoperto al suo interno una inattesa quanto preoccupante vulnerabilità. Dai richiami al jihad contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, gli Stati Uniti trassero indiscutibili vantaggi nell’ambito del conflitto bipolare; ma furono proprio quei proclami formulati da studiosi quali Abdullah Yusuf Azzam – lo stesso che nell’aprile del 1988 scrisse dello sviluppo di un’avanguardia come solida base (al-Qaida al-Subah) per costruire la società islamica anticipando la nascita di al-Qaida – a colpire gli USA nel 2001. Gli attentati al World Trade Center nel 1993, l’uccisione di decine di turisti occidentali a Luxor nel 1997 e gli attacchi alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998 avevano già messo in evidenza la sensibilità degli obiettivi riconducibili all’Occidente, e risale al 1998 la celebre fatwa in cui Osama bin Laden affermava che l’uccisione degli americani e dei loro alleati fosse un dovere per ogni musulmano. Furono tuttavia i fatti eclatanti dell’11 settembre a condurre alla percezione del terrorismo di matrice jihadista come fenomeno globale, e di rimando ad una pressoché immediata sovrapposizione concettuale di jihad e terrorismo nelle società occidentali. Similmente, la ‘guerra al terrore’ avviata dall’amministrazione di George W. Bush con l’offensiva contro il regime talebano afghano reo di proteggere Osama bin Laden, è stata accompagnata da una retorica polarizzante che, nella misura in cui tendeva a separare in modo netto il bene dal male, ha contribuito ad alimentare la percezione del conflitto come una dichiarazione di guerra contro i musulmani, percezione meno nitida nel caso afghano ma cresciuta esponenzialmente con la campagna irachena iniziata nel 2003. Sotto il profilo sociologico, una interessante tesi tende ad evidenziare come l’identificazione dell’Occidente quale nemico dell’Islam possa essere ricondotta ad un netto rifiuto della sua cultura e del ‘carico di modernità’ che la accompagna, portatore di una secolarizzazione incompatibile con le sacre verità della legge islamica; al tempo stesso, la globalizzazione è intesa come strumento di un nuovo imperialismo occidentale che mira ad esercitare il suo controllo sul dar-al-Islam.

È altresì evidente però che i precipitati della globalizzazione sono stati funzionali alla diffusione della propaganda jihadista: grazie ad un efficace uso delle nuove tecnologie e dei media, il messaggio è stato infatti trasmesso su scala globale favorendo la crescita del sostegno alla causa; inoltre, la divulgazione delle immagini delle torture commesse dagli uomini della coalizione USA ad Abu Ghraib nel corso della guerra in Iraq, ha alimentato in alcuni ambienti l’idea dell’Occidente oppressore e rafforzato l’ostilità nei suoi confronti.

Inquadrare la galassia delle forze di ispirazione jihadista esclusivamente nella prospettiva di una lotta globale contro l’Occidente sotto una struttura di comando centralizzata indicata come al-Qaida, non renderebbe tuttavia conto della complessità del fenomeno, ulteriormente accentuatasi negli ultimi anni. Proprio in riferimento ad al-Qaida, si è tradizionalmente utilizzato il concetto di network, ad indicare una struttura ramificata che non si esauriva esclusivamente nelle aree dell’Afghanistan e del Pakistan. Sui collegamenti tra ‘centro’ e ‘periferia’, sulla forza dei vincoli di affiliazione delle diverse cellule e sull’eventuale autonomia di azione di tali unità rispetto al ‘centro’ si è spesso discusso, senza peraltro giungere a risposte univoche. Il nucleo originario di al-Qaida ha subito nel corso della guerra al terrore perdite di una certa rilevanza, su tutte quella di Osama bin Laden ucciso nel corso del blitz di Abbottabad (Pakistan) nel maggio del 2011; cionondimeno le diverse ramificazioni di quello che viene identificato come il network qaidista hanno comunque dimostrato di essere operative. È il caso di al-Qaida nella Penisola Araba (AQAP), gruppo costituitosi ufficialmente nel gennaio del 2009 e responsabile di numerosi attacchi nello Yemen senza dimenticare il grande nemico americano, come dimostra il fallito attentato del 25 dicembre 2009 sul volo 253 della Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit; o ancora di al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM), le cui origini sarebbero rinvenibili nella guerra civile algerina degli anni ’90 e che nel 2007 assunse tale denominazione per sancire ufficialmente la sua affiliazione ad al-Qaida. Un’organizzazione prevalentemente attiva in Algeria, Mauritania, Niger e Mali, paese quest’ultimo nel quale è stata tra i protagonisti di un conflitto destabilizzante tra il 2012 e il 2013 che ha allarmato l’Europa e in particolare Parigi, timorose della nascita di un santuario jihadista con il mirino puntato verso il Vecchio Continente. In Mali opera anche il Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO), nato da una costola di AQIM e interessato ad espandere l’azione jihadista nell’Africa Occidentale. C’è poi il fronte del Corno d’Africa, dove operano i miliziani di al-Shabaab che terrorizzano la Somalia e hanno realizzato attentati anche in Uganda e in Kenya, tra cui quello al Westgate Mall di Nairobi nel settembre 2013.

AQIM, al-Shabaab, AQAP e la stessa al-Qaida avrebbero inoltre avuto contatti con Boko Haram – che in lingua hausa significa ‘l’educazione occidentale è peccaminosa’ - organizzazione terroristica nata nel 2002, attiva in Nigeria (ma ha anche sconfinato in Camerun) e il cui nome ufficiale è Jama'atu Ahlis Sunna Lidda'Awati Wal-Jihad, che vuol dire ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e del Jihad’.

La causa jihadista interessa anche la regione nord-caucasica controllata dalla Russia: l’Emirato del Caucaso è riconosciuto come organizzazione terroristica sia da Mosca che da Washington, ha cooperato con al-Qaida e segue con particolare interesse le evoluzioni del non lontano teatro di guerra siriano, in cui interessanti orizzonti si sono aperti per il jihad. Proprio nel contesto siriano - e in quello del vicino Iraq - si sono registrati preoccupanti sviluppi. In Siria, attratti dal messaggio diffuso dai predicatori, migliaia di volontari da ogni parte del mondo. In Siria, attratti dal messaggio diffuso dai predicatori, migliaia di volontari da ogni parte del mondo – tra cui moltissimi europei – combattono il jihad contro il regime del dittatore alawita Bashar al-Assad: non più dunque la guerra contro il ‘nemico lontano’ americano e occidentale, ma quella sunnita contro il ‘nemico vicino’. Nella complessa costellazione delle forze attive in Siria, si è distinta per l’efficacia delle sue azioni Jabhat al-Nusra, anch’essa affiliata ad al-Qaida ed inserita dagli USA – pure apertamente ostili al regime di Damasco – tra le organizzazioni terroristiche a fine 2012. Nell’aprile del 2013 giunse l’annuncio della sua fusione con il gruppo iracheno dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), stabilitosi nel 2006 come successore di al-Qaida in Iraq e poi allargatosi alla Siria con la guerra civile: a dare la notizia fu il leader dell’ISIS Abu Bakr al-Baghdadi, ma Jabhat al-Nusra, pur confermando l’esistenza di rapporti tra le due forze, ribadì la sua fedeltà ad al-Qaida e alla causa siriana. L’ISIS ha tuttavia proseguito con le sue iniziative, estendendo la sua influenza su territori sempre più vasti e sconfiggendo più volte il debole esercito di un Iraq profondamente diviso dalle politiche settarie del premier sciita Nuri al-Maliki, fino alla proclamazione del califfato islamico a cavallo tra lo Stato iracheno e la Siria. I nuovi scenari mettono in guardia l’Occidente e i vicini medio orientali, preoccupati dall’avanzata di un gruppo – che si è ribattezzato semplicemente Stato Islamico (IS) – che ai proclami del jihad accompagna un progetto politico ben più definito che in passato, mirante ad incidere nel tessuto dello status quo geopolitico della regione. Un’avanzata che ha costretto i cristiani alla fuga e in cui centinaia di yazidi considerati ‘adoratori di Satana’ sono stati massacrati. Ai raid degli USA cominciati nell’agosto del 2014, l’IS ha risposto con la decapitazione degli ostaggi statunitensi James Foley e Steven Sotloff, all’annuncio del sostegno britannico ai peshmerga curdi in funzione anti-Stato Islamico, l’organizzazione ha reagito con l’uccisione di David Cawthorne Haines; in Algeria la formazione Jund al-Khilafah ha rotto con al-Qaida giurando fedeltà al califfo al-Baghdadi e uccidendo il 24 settembre l’ostaggio francese Hérve Gourdel; nelle Filippine è stata Abu Sayyaf a minacciare l’uccisione di due tedeschi. E mentre al-Qaida appare più debole, sempre più formazioni uniscono la loro causa a quella del califfato, un polo di riferimento di giorno in giorno più importante per la galassia jihadista. A inizio settembre 2014, al-Zawahiri ha rilanciato con l’annuncio della nascita di un ramo di al-Qaida nel Subcontinente indiano, che dovrebbe agire dall’India fino al Myanmar: secondo gli esperti, anche un messaggio allo Stato Islamico rispetto a cui al-Qaida ha perso terreno. Nel 2015 l’IS si è ulteriormente rafforzato, grazie alla propaganda e all’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione. Non solo gli uomini del califfato hanno continuato a decapitare i prigionieri e a pubblicare le esecuzioni sul web, ma tra le loro file è andato crescendo il numero dei foreign fighters, combattenti stranieri che in diversi casi sono risultati cittadini europei o statunitensi e il cui ipotetico ritorno entro i confini dei paesi di provenienza non lascia tranquille le cancellerie occidentali. I timori dell’Occidente sono inoltre aumentati all’indomani degli attentati di Parigi di inizio gennaio 2015, con l’assalto alla redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo – questo rivendicato tuttavia da AQAP – e l’attentato al supermercato kosher da parte di Amedy Coulibaly, appartenente all’IS. L'attentato più grave degli ultimi anni è avvenuto nuovamente a Parigi il 13 novembre dello stesso anno, rivendicato dall'IS, dove i morti e i feriti sono stati centinaia, in cui sono state colpite simultaneamente varie sedi della società civile, come lo stadio e il teatro Bataclan, simboli della libertà occidentale. L’Europa guarda inoltre con crescente preoccupazione alla sponda Sud del Mediterraneo, verso la Libia, dove miliziani affiliati allo Stato islamico hanno trovato importanti spazi d’azione sfruttando la cronica instabilità politica del paese.

La galassia jihadista e i paradigmi del jihadismo paiono dunque in via di rimodulazione e ridefinizione, adattandosi alle contingenze geopolitiche e modificandole allo stesso tempo.



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