venerdì 15 gennaio 2016

L'ALPINISMO

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« Con l'incremento dei mezzi tecnici si è creduto di progredire, ma in realtà non si è fatto che regredire sul piano umano. A poco a poco si è creata l'illusione di poter salire ovunque, si è creduto ingenuamente di poter aprire il territorio alpinistico a chiunque, usufruendo dei mezzi aggiornatissimi che la tecnica ci ha messo a disposizione. La stessa illusione amarissima la sta vivendo la società occidentale, la quale, credendo assai presuntuosamente di assoggettare la natura ai propri voleri, sta assistendo impotente alla distruzione del pianeta »
(G. Motti, Rivista Fila, 2-1976)

Si distingue in alpinismo su roccia e in alpinismo su ghiaccio. Il primo si pratica, solitamente, in cordate di due o tre persone e si avvale di una tecnica specializzata elaborata in particolare sulle Alpi Orientali (alpinismo dolomitico). La pratica del secondo richiede generalmente cordate di tre persone munite di piccozze e di ramponi da ghiaccio. In relazione agli attrezzi usati, si distinguono l'alpinismo in libera (arrampicata), cioè quello in cui l'alpinista si misura con le difficoltà dell'esecuzione col solo ausilio di attrezzi di assicurazione (corda, chiodi, moschettoni) e l'alpinismo in artificiale, che permette di superare i tratti in cui la montagna non offre alcun appiglio naturale, utilizzando attrezzi di progressione (chiodi speciali, staffe, corde multiple, ecc.). L'alpinismo su percorsi di estrema difficoltà, senza guida, è detto accademico. Le difficoltà incontrate nel corso di un'ascensione alpinistica sono valutate secondo apposite scale. Per l'arrampicata in libera su roccia si usa una scala proposta nel 1925 dall'alpinista tedesco W. Welzenbach suddivisa in sei gradi: 1º) facile; 2º) mediocremente difficile; 3º) difficile; 4º) molto difficile; 5º) oltremodo difficile; 6º) estremamente difficile; ciascun grado si divide in inferiore e superiore. Meno usata la scala integrativa proposta dall'italiano Berti per la valutazione delle difficoltà intermedie ai gradi della scala Welzenbach. Scale analoghe, seppure meno rigide, sono usate per le scalate miste (ghiaccio-roccia) e su ghiaccio. Per le scalate in artificiale è generalmente adottata una scala che tiene conto del numero e del tipo di attrezzi usati. § Le attività alpinistiche italiane sono coordinate e dirette dal Club Alpino Italiano (CAI), fondato nel 1863, pochi anni dopo la costituzione della prima organizzazione alpinistica del mondo, l'inglese Alpine Club (1857). Nel Club Alpino Accademico Italiano (CAAI), invece, sono accolti solo gli appassionati dell'alpinismo accademico che abbiano compiuto segnalate imprese.

Non si può capire la grande storia dell’alpinismo ignorando le piccole storie personali degli uomini e delle donne che hanno scelto di faticare e rischiare per un “inutile” pezzo di roccia e di ghiaccio.
Il più famoso escursionista del Medioevo, Francesco Petrarca, inaugurando nel 1336 il grado 0 dell’alpinismo, cioè l’escursionismo, cercò di spiegare così le ragioni della sua salita al Monte Ventoso: “Quella vita che chiamiamo beata è posta in alto, e angusta è la via che a essa conduce”. Sempre nel Trecento, Bonifacio d’Asti riuscì al terzo tentativo a scalare il Rocciamelone per portare le tavole del Trittico fiammingo della Madonna delle Nevi in una grotta sulla vetta.
La conquista del Colle del Lys nel 1778, atto di nascita dell’alpinismo moderno e vero e proprio 1° grado di difficoltà affrontato dall’uomo, avvenne perché un gruppo di ragazzi di Gressoney si mise alla ricerca della mitica valle dai ruscelli di latte dei propri antenati Walser.
Il 2° grado venne raggiunto con la conquista del Monviso da parte di Quintino Sella e coincise con la fondazione del Club Alpino Italiano, sodalizio che quest’anno compie 150 anni. Il 3° quando l’incisore inglese Edward Whymper raggiunse nel 1865 la vetta del Cervino, ma la sua impresa fu funestata dalla morte di tre suoi compagni di cordata e lo scandalo che ne seguì fu così grande che la regina Vittoria pensò di proibire l’alpinismo.
Per il 4° grado si passa dalla Val d’Aosta alle dolomiti e dagli inglesi ai tedeschi. Nel 1887 Georg Winkler salì da solo e senza assicurazione la torre del Vajolet che da allora ha preso il suo nome: “l’unica impresa alpina che psicologicamente non sono mai riuscito a spiegarmi”, come scrisse Tita Piaz. Nel 1911 fu la volta del Campanil Basso di Brenta, lo splendido campanile di dolomia dove Paul Preuss salì e scese il 5° grado senza corda e senza chiodi. Lo stesso anno scrisse: “Il pensiero “se cado resto appeso a tre metri di corda” ha moralmente meno valore dell’altro: “una caduta e sei morto!”


Nel primo dopoguerra si impone l’ideologia del sesto grado, dell’arrampicata fatta “per crearsi un patrimonio di esperienze soprattutto in senso di vita vissuta al limite delle proprie possibilità”, è la ricerca continua “di una felicità irraggiungibile”, come ben scrisse Giusto Gervasutti. E’ l’epoca della scuola di Monaco e dei giganti italiani: Cassin, Comici, Videsott.
La scala chiusa al sesto grado salta per aria in un periodo rivoluzionario, la fine degli anni ’60. Un gruppo di ragazzi capelloni e un po’ beat cancella l’ideale della vetta: è il Nuovo Mattino. In braghe di tela, magliette colorate cominciano ad aprire vie dai nomi irridenti: Tempi moderni, Cannabis, Itaca nel Sole. L’arrampicata diviene “un mezzo per vivere sensazioni più profonde”. Il settimo grado viene superato sul Precipizio degli Asteroidi in Val di Mello nel 1977, ma già i fratelli Messner avevano salito l’ottavo sul Sass dla Crusc per liberare il drago dell’impossibile dal tecnicismo esasperato. Ad alzare ancora l’asta delle difficoltà ci pensa Maurizio Zanolla, in arte Manolo, sul Sass Maòr raggiungendo il 10° grado: “Certe volte ci chiediamo se siamo matti.  Ma vedi, è così che io entro nel sogno. Nella realtà puoi parlare di una cosa sola alla volta, nel sogno entri in rapporto con tutto, e con tutto insieme. Tutte le cose sono possibili in sogno”. Il compimento è nel 2001 quando Alexander Huber torna su una delle pareti mitiche dell’alpinismo classico: la nord della cima Ovest di Lavaredo. Dopo anni di tentativi supera il passaggio chiave sul tetto: undicesimo grado inferiore!
Se anche nelle forme amatoriali, la pratica alpinistica, come sanno bene mogli e mariti dei “malati di montagna”, è una passione totalizzante che mal si presta a mediazioni e a mezze misure, “Rimane il problema della motivazione o della filosofia dell’alpinismo. La sterminata biblioteca di montagna custodisce centinaia di pagine che cercano di rispondere alla solita vecchia domanda: perché? Per conoscere se stessi, per scappare dal mondo, per avvicinarsi a Dio… Dopo quasi due secoli e mezzo di storia consiglio la risposta del pioniere George Mallory in partenza per l’Himalaya:
“Perché vai a scalare l’Everest?”
“Because it’s there, perché è là”.
Mallory dall’Everest non è mai tornato, e anche di quello potremmo chidergli giustificazione, ma non servirebbe, perché ci ha già lasciato la sua opinione. L’unica possibile, per un alpinista.”

Tra gli alpinisti italiani emerge la figura di Walter Bonatti che sarà un punto di riferimento per l'alpinismo internazionale fino a circa il 1965. Bonatti, pur essendo un alpinista completo, espresse il proprio talento soprattutto nell Alpi Occidentali (tra le altre: la parete est del Grand Capucin nel 1951, la prima salita invernale della via Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo nel 1953, il pilastro sud ovest del Petit Dru in solitaria nel 1955 e la nuova via in solitaria sulla parete nord del Cervino, nell'inverno del 1965). Egli anticipò (con un suo personalissimo e a volte contraddittorio stile) alcune tendenze che emergeranno negli anni settanta e ottanta come il "clean climbing" (la scalata pulita, con il minor utilizzo di chiodi e aiuti artificiali).

Bonatti fu tra i primi alpinisti professionisti che portarono le proprie imprese al grande pubblico attraverso le riviste e i giornali (ad esempio la collaborazione con il settimanale Epoca che proseguì anche dopo che Bonatti abbandonò l'alpinismo per dedicarsi a viaggi e reportage in luoghi selvaggi del pianeta).

All'inizio degli anni settanta la contestazione sessantottina influenzò anche l'alpinismo, seppure con qualche anno di ritardo rispetto alle rivolte studentesche. Il nuovo movimento alpinistico prese il nome di "Nuovo Mattino", dal titolo di un articolo di Gian Piero Motti sulla Rivista della Montagna. Si cominciarono a mettere in dubbio e contestare i metodi e gli scopi dei classici scalatori con l'idea della conquista per mezzo delle vie classiche, da ripetere con tecniche e metodologie consolidate. L'idea del movimento era quella di basare l'alpinismo sulla scoperta della libertà, il gusto per la trasgressione, rifiutando la cultura alpinistica della vetta a tutti i costi, dei rifugi, degli scarponi, del CAI, delle guide, e deprecando lo sfruttamento ambientale delle montagne.

Vi era il rifiuto di ridurre la montagna (e la natura in generale) a semplice strumento, ma al tempo stesso mantenere l'Uomo al centro della natura.

Mediante metodi specifici di allenamento fisico e psichico, innovazioni tecniche spesso importate dagli Stati Uniti (i primi pionieri del free climbing sperimentavano in quegli anni sulla formazione rocciosa El Capitan, fino ad allora considerata quasi impossibile da scalare, nel Parco nazionale di Yosemite in California), si rese possibile vincere difficoltà che allora sembravano insormontabili: è il periodo in cui si cominciano ad utilizzare le scarpette a suola liscia, in cui viene sviluppato il free climbing.

Passati gli anni settanta e ottanta il Nuovo Mattino tramonterà con le sue contraddizioni, lasciando nell'innovazione solo quello che poteva essere consumato e massificato.

Questo gruppo di alpinisti fu costituito da Gian Piero Motti, Gian Carlo Grassi, Danilo Galante, Roberto Bonelli, Andrea Gobetti, Mike Kosterlitz, Ugo Manera e altri. Furono anche chiamati il Circo Volante o il Mucchio Selvaggio.

A seguito delle esperienze anglosassoni e nell'ambito (almeno in Italia) delle idee del Nuovo Mattino, già da alcuni anni si dibatteva sulla necessità di aprire la scala delle difficoltà verso l'alto, oltre il VI grado.
L'UIAA oppose una fortissima resistenza a tale logica evoluzione delle scale di difficoltà. Già nel 1977 Jean Claude Droyer aveva scalato la via Bonatti sul Capucin con 9 chiodi soltanto, oltrepassando dunque la definizione classica del VI grado secondo Welzenbach e Rudatis.

L'alpinismo nel terzo millennio ha assunto una connotazione sempre più sportiva, con alpinisti-atleti capaci di grandi prestazioni fisiche (percorsi effettuati in velocità, concatenamenti di più itinerari in un solo giorno) oppure tecniche (gradi di difficoltà altissime in arrampicata, discese estreme con gli sci) coadiuvati anche dalle più moderne ed evolute tecniche di allenamento e tecnologie alpinistiche. Parallelamente si assiste ad una diffusione delle pratiche alpinistiche anche al di fuori dei professionisti di settore, ovvero semplici appassionati ed amatori, fino a spingere in alcuni casi l'alpinismo stesso verso vere e proprie forme di sport di massa o turismo sportivo, spesso sottovalutando rischi e limiti personali.


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