Una volta si faceva bollire il caffè più e più volte. La preparazione del caffè era un vero e proprio rito. Serviva tanto tempo per far bollire la polvere di caffè e poi farla depositare sul fondo prima di bere. Un po’ come il caffè alla turca che si beve ancora oggi e che dall’anno scorso è diventato patrimonio dell’umanità. Una volta, insomma, il caffè non veniva filtrato. E, tra l’altro, la caffeina presente nei caffè di una volta era tantissima. Questo perché più si fa bollire la polvere, maggiore è la quantità di caffeina che fuoriesce. In Cinquecento anni la qualità del caffè che beviamo è migliorata molto grazie alle invenzioni degli europei che, nel corso della storia, hanno introdotto l’uso del filtro e poi della pressione a vapore.
La prima caffettiera di cui si ha conoscenza è la jabena, originaria dell’Etiopia: questa è un bricco di terracotta grezza sormontata da uno stretto collo a camino e un minuscolo beccuccio per versare il caffè. Dobbiamo spostarci fino in Turchia per trovare l’Ibrik, il quale ha ancora oggi la duplice funzione di preparare e servire il caffè. E’ un bollitore dalla base larga e il collo molto stretto che non ha mai riscontrato un grande successo nell’Europa Occidentale. Antenato diretto della caffettiera Europea è il bollitore di Bagdad composta da una brocca in metallo, a becco, con il coperchio e il manico ricurvo.
Il metodo utilizzato dal XIV al XVIII secolo per preparare il caffè era quello di bollire i fondi. Il problema di separare i fondi dalla bevanda aguzzò l’ingegno di costruttori di macchine da caffè e caffettiere in tutta Europa.
In Francia nacque il Samovar: si metteva la polvere di caffè in un sacchetto di tela immerso nella caffettiera legato ad un piccolo cordone. La caffettiera era sollevata da terra da tre piedini per lasciare spazio ad un piccolo fornello. I Samovar erano principalmente in ottone peltro o rame, sostituiti, più tardi dalla ceramica. Erano diffusi tra i locali pubblici e le famiglie abbienti.
Nella metà del 1800, forse stanchi di bersi i fondi del caffè ottenuto per infusione, furono inventate le vacuum. La vacuum è costituita da 2 contenitori, uno inferiore che contiene l’acqua, e una parte superiore che contiene la polvere di caffè. Questo particolare attrezzo viene alimentato tramite una fiamma ad alcool: essendo un sistema chiuso, crea al proprio interno una depressione: l’acqua in ebollizione sale nel contenitore superiore, solubilizza le sostanze presenti nella polvere, con la a solubilizzazione diminuisce la tensione di vapore, per cui dallo stato gassoso dell’acqua in evaporazione si passa al liquido, questo precipita verso il basso, e viene filtrato da un tappo in sughero, ritornando nel contenitore inferiore. Il caffè ottenuto con questo metodo conserva maggiormente l’aroma fruttato del caffè, donando sentori vegetali e fornendo una minore quantità di sostanze amare.
Successivamente nacque la “caffettiera a filtro”, di forma semplice e divisa in due parti; questa nuova tipologia di caffettiera richiedeva un filtro centrale.
Nel 1819 il parigino Morize sviluppò una versione rovesciabile di caffettiera; l’invenzione francese ebbe un grande successo in Italia che la perfezionò con la nascita della “napoletana”, di latta o stagno, povera nella finitura ma di grande efficacia per lo scopo. Queste tipologie divennero le più popolari per preparare il caffè.
Nel 1933 ad opera di Alfonso Bialetti nasce la moka, come la conosciamo al giorno d’oggi, il metodo più utilizzato in tutta Italia per la preparazione del caffè in casa.
Se già con la moka, nonostante sia semplice da usare, non è proprio facilissimo preparare un buon caffè e non dell’acqua sporca, a volte bruciacchiata, parlando di cuccumella non possiamo negare che per adoperarla bene ci vuole davvero abilità, seppur oggi la vita sia molto più semplificata perché possiamo comprare il caffè già ridotto in polvere e pronto all’uso. Fino ad alcuni decenni fa, infatti, si doveva comprare il caffè in chicchi, tostarlo a manto di monaco e infine macinarlo a mano, operazioni che richiedono particolari capacità visive, per determinare la giusta macinazione e per scorgere il punto giusto di cottura, in modo da non perdere tutto l’aroma, sia olfattive, sempre con riguardo alla tostatura. Non è tuttavia finita qui, poiché a questo punto vi è la preparazione effettiva della bevanda, in cui bisogna fare attenzione alla quantità di acqua messa, a posizionare e pressare in modo giusto la polvere nel filtro, il punto giusto di bollitura, il capovolgimento della caffettiera e la percolazione (cioè il processo di discesa dell’acqua), oltre a vari trucchi come ad esempio quelli suggeriti da Eduardo De Filippo, cioè il cuppetiello e il mezzo cucchiaino di polvere nell’acqua ancora fredda, in modo che cominci ad aromatizzarsi mentre è ancora sul fuoco. Dopo tutto ciò, immaginate se il caffè veniva male: una vera e propria tragedia, un fallimento per l’alchimista napoletano che cominciava a tormentarsi per capire dove avesse sbagliato.
Un fatto curioso di cui relativamente poche persone sono a conoscenza, è che la caffettiera napoletana ha in realtà origini francesi, essendo stata ideata dal parigino Morize nel 1819, e successivamente perfezionata a Napoli.
In qualunque modo sia preparato, il caffè è sempre un rito che richiede pratica e attenzione, eccezion fatta naturalmente per quei preparati solubili o quelle macchine per il caffè che alcuni utilizzano, specialmente nel mondo anglosassone, i quali hanno ben poco del caffè come si intende a Napoli.
Risale, invece, al 1884 il primo brevetto di una macchina per caffè espresso ad opera di Angelo Moribondo. Il merito di aver industrializzato la macchina per caffè espresso è da attribuire a Luigi Bezzera che nel 1901 ottenne il primo dei suoi brevetti. Anche se il vero pioniere fu Desiderio Pavoni che intuì la grande potenzialità dell’espresso e ne sviluppò la commercializzazione nei locali pubblici..
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