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mercoledì 10 agosto 2016

IL CASTORO

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Il castoro è un mammifero semiacquatico noto per l'abilità con la quale costruisce dighe. Una specie di castoro vive in Nord America (Castor canadensis) e l'altra, molto rara, in Eurasia (Castor fiber). Le due specie, che differiscono per la forma delle ossa nasali, per tutti gli altri aspetti sono così simili che alcuni studiosi le considerano come due sottospecie di un'unica specie. I castori sono grossi roditori, che da adulti pesano in media 16 kg, anche se ne sono stati rinvenuti alcuni di 40 kg e, inoltre, si sa di alcune specie ormai estinte che erano grandi quasi come orsi.

In genere il castoro è lungo circa 75 cm e alto meno di 30. La coda larga, piatta e coperta di scaglie, misura circa 25 cm di lunghezza; in caso di pericolo viene sbattuta sull'acqua, segnalando l'allarme; altrimenti aiuta a sostenere l'animale quando sta ritto sulle zampe posteriori e nel nuoto viene usata come timone. Il corpo del castoro è massiccio, il dorso arcuato e il collo grosso; le zampe posteriori sono palmate e tutte le dita sono munite di artigli. La pelliccia è generalmente marrone-rossiccia sul dorso e più chiara o grigiastra sul ventre. Gli occhi sono piccoli e le narici si possono chiudere. Il cranio è massiccio, con creste pronunciate alle quali si attaccano i potenti muscoli associati alle mascelle. I denti incisivi (due sulla mascella e due sulla mandibola), di colore giallo-arancio, sono come quelli degli altri roditori e si consumano più rapidamente sulla superficie interna, assumendo la forma di uno scalpello ben affilato, rivestito di smalto. Con questi denti il castoro può abbattere  grossi alberi. Esso sceglie di solito piante con diametro del tronco compreso fra 5 e 20 cm, ma si sa di castori che hanno abbattuto tronchi del diametro di 75 cm. I castori hanno un paio di ghiandole odorifere anali che secernono una sostanza simile al muschio, chiamata castoreo e probabilmente usata per marcare il territorio. Il castoro è generalmente monogamo e può vivere per 20 anni o più. La femmina partorisce una volta all'anno, solitamente da due a quattro piccoli.

I castori sono animali sociali. Nelle zone isolate, dove il cibo è abbondante, una comunità di castori comprende molte famiglie. La tana del castoro ha una struttura unica nel regno animale. Ne esistono tre tipi diversi, a seconda che siano costruite su isole, sulle rive di stagni o sulle sponde di laghi. La tana sull'isola è costituita da una camera centrale, con il pavimento appena sopra il livello dell'acqua, e due entrate. Essa viene costruita con ramoscelli, erba e muschio, intessuti insieme e impastati con il fango, e aumenta gradualmente di dimensioni per le riparazioni e le elaborazioni effettuate dal castoro anno dopo anno. La camera interna può misurare 2,4 m in larghezza e fino a 1 m in altezza. Il pavimento è coperto di corteccia, erba e schegge di legno; inoltre, a volte vi sono speciali ripostigli aggiuntivi. Le tane costruite negli stagni possono sorgere a poca distanza dalla riva o in parte sopra di essa, con il muro frontale orientato verso lo stagno. Le tane dei laghi sono costruite sulle rive più riparate.



Le dighe, utilizzate dai castori per ampliare l'area intorno alle loro tane e aumentare la profondità dell'acqua, sono costruite con ramoscelli e tronchi d'albero, oppure, più solidamente, con fango, rami e pietre. Con il passare del tempo le dighe vengono riparate e ingrandite, e i materiali galleggianti che rimangono impigliati nella struttura, nonché le radici della vegetazione che cresce sopra di essa, servono a rinforzarle ulteriormente. Spesso il castoro costruisce, più a valle, una diga più piccola per fare rifluire l'acqua contro la diga originale, riducendo, in tal modo, la pressione a cui quest'ultima è sottoposta a monte. Le dighe sono alte circa 1,5 m, larghe più di 3 m alla base e più strette in cima. Nel parco nazionale delle Montagne Rocciose, in Colorado, venne trovata una diga costruita da un castoro, lunga più di 300 m. I bacini artificiali dei castori attirano pesci, anatre e altri animali acquatici. Sebbene le dighe provochino locali inondazioni, esse aiutano a controllare il volume delle acque di superficie e riducono le inondazioni a fondo valle. A lungo andare, questi bacini si riempiono di sedimenti e gli animali si spostano allora verso una nuova zona. L'area abbandonata si trasforma in un prato.

Sebbene il castoro sia un potente nuotatore, quando si sposta sulla terraferma è sgraziato e ha difficoltà a trascinare i tronchi e i rami di cui si serve come cibo e materiale da costruzione. Pertanto, spesso i castori scavano dei canali per collegare il loro bacino artificiale alla zona dove crescono gli alberi da abbattere. Molti canali sono larghi e profondi fino a 1 m e spesso sono lunghi alcune centinaia di metri. Il legname che galleggia viene, quindi, fatto scendere lungo il canale fino al bacino artificiale.

I castori sono stati a lungo cacciati per le loro pellicce e per i denti: nel XVIII e nel XIX secolo ogni anno venivano esportate dal Nord America centinaia di migliaia di pelli, usate soprattutto per la fabbricazione di copricapo. I castori venivano anche uccisi a causa dei danni che provocavano alle foreste e per le inondazioni a volte causate dalle loro dighe. L'intensa carneficina spinse i castori sull'orlo dell'estinzione, sia in Europa che in Nord America. Oggi il castoro è stato reintrodotto e ha cominciato a reinsediarsi con successo in Canada e in alcune aree protette degli Stati Uniti. È stato anche reintrodotto in America del Sud, nella Terra del Fuoco. Ancora oggi a volte questi animali sono considerati nocivi, soprattutto nelle aree suburbane degli Stati Uniti orientali. In Europa si trova soprattutto in Russia e in Scandinavia ma anche lungo il fiume Rodano, in Francia e Svizzera e lungo il fiume Elba in Germania.


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IL PUMA

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Il puma, noto anche come coguaro o leone di montagna, è un mammifero appartenente alla famiglia dei felidi. Nonostante le sue dimensioni il puma viene classificato tra i piccoli felini, di cui è la specie più grande. La parola puma deriva dalla lingua quechua ed era considerato animale sacro per gli Aztechi e i Maya. Questo felino è lungo circa 130 centimetri senza la coda e alto 70 centimetri arrivando a pesare fino a 70 chili. E’ caratterizzato da un pelo folto e morbido che può assumere varie colorazioni, dal bruno al fulvo, fino al rossiccio e al grigio argento. Sotto al mento e al petto, invece, diventa bianco. Le zampe anteriori hanno 5 dita mentre quelle posteriori 4 con unghie retrattili che fanno del puma uno tra gli animali più agili al mondo. I puma, infatti, riescono a fare salti di 4 metri di altezza e 10 in lunghezza. Il puma ha la testa piccola e tonda e il collo lungo con corpo snello e gambe lunghe. Non ruggisce, ma, emette dei richiami. Si nutre di mammiferi, dai cervi alle renne, fino ai ratti ai procioni e ai castori. Caccia anche uccelli e pesci ma non mangia, invece, le carogne e i rettili. La tecnica di caccia è quella dell’agguato tipico dei felini. Attacca le prede al collo, rompendogli l’osso con un morso alla gola.

Nell'America del Nord, in particolare negli Stati Uniti, la parola panther ("pantera") da sola si riferisce al puma, sebbene il termine black panther ("pantera nera") sia correttamente associato solo con le varianti affette da melanismo di leopardi o di giaguari, piuttosto che di puma. In Europa e in Asia, "pantera" significa "leopardo" e si può riferire sia al leopardo maculato sia a quello nero. Nell'America meridionale, "pantera" si riferisce solo al giaguaro, sia quello maculato, sia quello nero. Il gene del melanismo si può trovare in una grande varietà di felini, compresi il leone, la tigre, il leopardo, il giaguaro, il caracal, il jaguarondi, il serval, l'ocelot, il margay, la lince rossa; non sono mai stati documentati, tuttavia, casi di melanismo nell'America settentrionale in Puma concolor, anche se persistono leggende metropolitane di "pantere nere". Tali resoconti aneddotici hanno particolare vigore sugli Appalachi degli Stati Uniti orientali, una regione dove è comunemente accettato il fatto che il Puma concolor sia completamente estinto da prima della fine del XIX secolo, e dove non sono state documentate presenze ristabilite di popolazioni in propagazione fino al 2005.

Il puma è un felino molto duttile e capace di adattarsi a differenti habitat naturali, dalle praterie alle foreste boreali. Predilige i climi temperati, ma, vive bene anche in quelli tropicali, nelle zone semidesertiche e sull’alta montagna. Non ama, invece, la tundra artica e i deserti troppo ostili per le sue caratteristiche.

Fino a pochi anni fa il puma era diffuso in tutto il continente americano, dal Canada alla Patagonia. Oggi, invece, la sua diffusione è limitata alle Montagne Rocciose, nelle aree semidesertiche del sudovest e nelle regioni paludose della Florida.

I puma sono animali solitari che tendono ad incontrarsi solo durante la stagione degli amori che va da novembre a giugno. Stanno insieme per sei giorni al massimo poi il maschio abbandona nuovamente la femmina. La gestazione dura tre mesi con la femmina che partorisce fino a sette cuccioli. Ogni piccolo appena nato pesa all’incirca 500 grammi ed è lungo 30 centimetri. Restano con la madre fino a 20 mesi. Come per tutti i felini l’allevamento dei piccoli spetta esclusivamente alla femmina mentre il maschio se ne disinteressa completamente. Al momento della nascita i cuccioli hanno il mantello maculato che poi perdono crescendo.



Il puma è un felino timido, che evita solitamente gli insediamenti umani. Occasionalmente, tuttavia, può attaccare l'uomo. Negli Stati Uniti si verificano, di solito, circa quattro avvenimenti del genere ogni anno; vittime degli attacchi sono perlopiù bambini. Si tratta dell'unico dei "piccoli felini" ad essere considerato potenzialmente pericoloso per le persone.

Il puma stesso, oltre all'uomo, ha pochi nemici da temere. Solo lupi ed orsi possono ogni tanto predare puma giovani o malati in Nordamerica; in Sudamerica l'unico vero competitore è il giaguaro.

Dopo essere stato cacciato quasi fino all'estinzione negli Stati Uniti, il puma ha fatto la sua ricomparsa in modo considerevole, con 30.000 individui stimati negli Stati Uniti occidentali. In Canada si trovano puma ad ovest delle praterie, nell'Alberta, nella Columbia Britannica e nello Yukon meridionale. La più alta concentrazione di puma nell'America settentrionale si trova sull'Isola di Vancouver nella Columbia Britannica.

I puma stanno gradualmente estendendo il proprio territorio verso est, seguendo torrenti ed alvei, ed hanno raggiunto il Missouri, il Michigan ed attraversato il Kansas, compresa la grande area metropolitana di Kansas City. Dei puma sono stati avvistati sulla costa settentrionale del Lago Superiore con un attacco ad un cavallo ad Ely, nel Minnesota, nel 2004. Si prevede che espandano presto il loro territorio sugli interi Stati Uniti orientali e meridionali. Continuano ad esserci segnalazioni sulla sopravvivenza della popolazione rimanente del puma orientale (Puma concolor cougar) nel New Brunswick, nell'Ontario, e nella penisola di Gaspé del Quebec.

A causa dell'urbanizzazione di aree rurali, i puma vengono spesso a contatto con le persone, soprattutto in aree con grandi popolazioni di cervi, le loro prede naturali. Hanno anche cominciato a cacciare animali domestici come cani, gatti e bestiame, ma sono raramente ricorsi a umani come fonte di cibo.

La stima del 1990 circa numerava tra i 4.000 e i 6.000 puma in California e tra i 4.500 e i 5.000 in Colorado. Nell'ultima ricerca effettuata nel marzo 2011 il coguaro (o leone di montagna) è stato dichiarato estinto dall'est degli Stati Uniti, conseguentemente dalla mancanza di avvistamenti dagli anni '30.

Il genere Puma comprende l'unica specie attuale Puma concolor, suddivisa in numerose sottospecie. In passato sono vissute altre specie attribuite al genere Puma, come la pantera di Owen (Puma pardoides) vissuta in Europa tra Pliocene e Pleistocene. A volte anche lo yaguarondi (Herpailurus yaguaroundi) è attribuito al genere Puma.

La pantera della Florida (Puma concolor coryi), una sottospecie di puma in pericolo
Si distinguono tradizionalmente tra le 24 e le 32 sottospecie di puma. Nell'America del Nord, due vengono considerate estinte. Come particolarmente minacciata è classificata la pantera della Florida (Puma concolor coryi), che nelle regioni paludose delle Everglades è sopravvissuta agli stermini. Ne esistono soltanto meno di 80 esemplari (secondo altre fonti tra 25 e 50) non in cattività. La salvezza di questa piccola sottospecie di puma, dal colore rosso intenso, è pertanto uno degli obiettivi principali delle organizzazioni locali per la salvaguardia dell'ambiente. Per proteggerli ed analizzarli, ogni animale è dotato di un collare elettronico per l'identificazione e la determinazione dell'ubicazione.

La pantera della Florida è l'unica sottospecie che sopravvive a est del Mississippi, da dove scomparve a causa della caccia abusiva dei coloni europei durante i secoli XIX e XX. L'altra sottospecie occidentale, il coguaro del Wisconsin (Puma concolor schorgeri) fu sterminata ufficialmente nel 1925, sebbene da allora si siano registrati avvistamenti non verificati. È possibile che anche il puma orientale (Puma concolor cougar) sia attualmente estinto.

Esistono ibridi fra diverse sottospecie di puma in Florida, dove si introdussero animali forestieri al fine di aumentare la scarsa popolazione di pantere della Florida, decimate anni prima dalla caccia eccessiva. Questa misura controversa, giacché diluisce la purezza genetica della sottospecie occidentale minacciata, ha prodotto una nuova generazione di puma ibridi più vigorosi e che si riproducono più rapidamente di quelli di pura razza della Florida.

Nonostante il puma non sia strettamente imparentato con i grandi felini, si è riusciti a crearne ibridi con il leopardo, che sono stati battezzati pumapardi. Si è a conoscenza anche di ibridi fra puma e ozelot, ma in questo caso i cuccioli sono morti poco dopo la nascita. In alcune occasioni, infine, si sono avute notizie di ibridi di puma e giaguari, ma l'esistenza di questi esseri non è ancora stata provata.

Anche se protetto, il puma viene tuttavia cacciato da alcuni contadini, preoccupati per il loro patrimonio zootecnico. La specie nel complesso, però, non è considerata in pericolo. Il puma perlopiù fugge l'uomo; solo in casi eccezionali aggredisce degli adulti.

Il puma era altamente rispettato presso gli indiani d'America. A lui venivano attribuite qualità come il comando, la forza, l'ingegno, la lealtà, l'impegno e il coraggio.

I colonizzatori bianchi nell'America del Nord hanno a lungo cacciato il puma, non solo per proteggere il proprio bestiame da questo animale, ma anche perché ambivano al suo trofeo.

Un popolo nordamericano, gli erie, trae forse dal puma il proprio nome, che viene considerato un'abbreviazione di erielhonan, in italiano "lunga coda". Per questo motivo erano chiamati dai francesi anche Nation du Chat, "popolo del gatto".

I casi di attacchi agli umani sono rari ma possono verificarsi, soprattutto quando l'intervento umano sui luoghi selvatici riduce la disponibilità di prede per il puma. Si sono verificati circa 100 attacchi ad umani negli Stati Uniti ed in Canada durante il periodo dal 1890 al gennaio 2004, con 16 morti. Nella sola California ci sono stati 14 attacchi e 6 morti. Attacchi da parte di puma su umani ed animali domestici sono associati con aree urbane tra luoghi selvaggi ed altre aree urbane più sviluppate, come a Boulder, in Colorado, area che ha incoraggiato una delle prede tradizionali del puma, il cervo mulo, ad abituarsi alle aree urbane ed alla presenza di persone ed animali selvatici. I puma, in circostanze tali, possono arrivare a perdere la loro paura sia delle persone sia dei cani e a vederli entrambi come prede.

L'8 gennaio 2004 un puma uccise e mangiò in parte un ciclista in mountain bike nel Whiting Ranch Wilderness Park nella Orange County, in California; forse fu lo stesso animale ad aggredire un altro ciclista nel parco il giorno seguente, ma venne respinto da altri ciclisti. Un giovane puma maschio fu ucciso lì vicino dalle guardie forestali più tardi nello stesso giorno.

In California la caccia ai puma è proibita, eccetto in circostanze molto specifiche. Questo, insieme all'estinzione in California del lupo e dell'orso bruno, ha permesso al puma di moltiplicarsi enormemente, dato che non si trovano più altri predatori in grado di rubare la cacciagione di un puma, benché gli orsi neri potrebbero non essere abbastanza forti da farlo. La legge della California prevede che gli animali selvatici che hanno attaccato un umano debbano essere uccisi qualora siano localizzati.


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mercoledì 28 ottobre 2015

IL FENNEC

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Si ritiene che il termine "fennec" derivi dalla parola araba fanak, che significa "volpe". "Zerda" è invece una parola greca che significa "asciutto" e si riferisce dunque all'habitat naturale di questo animale.

Nel nord Africa vive un piccolo mammifero appartenente alla famiglia dei canidi. Il suo nome è fennec, nota anche come "volpe del deserto". È un animale notturno che si rifugia in tane sotterranee durante le fasi del giorno più soleggiate. La sua caratteristica principale sono due grandi orecchie a punta. La loro funzione è quella di disperdere l'estremo calore delle zone desertiche. Questo conferisce alla volpe fennec un aspetto piuttosto simpatico e carino.

Il fennec, come molti altri canidi, vive in piccoli branchi. I branchi di fennec solitamente superano di poco la decina di esemplari. L'alimentazione del fennec si basa soprattutto su altri piccoli mammiferi, preda di queste piccole volpi. Ma il fennec è capace di adattarsi a tutto. Consumano come pasto anche piante e piccoli insetti. In quanto animale desertico resiste alla siccità e può vivere senza abbeverarsi per diverso tempo. Il fennec presenta un manto particolare, capace di bilanciare la temperatura corporea. Inoltre protegge dal caldo eccessivo proveniente dall'esterno. È un pelo piuttosto morbido e setoso, cosa che purtroppo lo rende appetibile per i bracconieri.

Il fennec è un animale evolutosi appositamente per l'habitat che popola. Anche le zampe del fennec presentano un folto pelo. Ciò lo aiuta a muoversi con molta agilità sul terreno sabbioso e ardente. Il fennec è un mammifero curioso, vispo e molto intelligente. È anche piuttosto prudente. Se sente una minaccia imminente scappa via in velocità. Ciò gli vale il soprannome di "folletto del deserto", grazie alla rapidità di movimento. Si riproduce una volta l'anno, dando alla luce dai tre ai cinque cuccioli di fennec. In alcuni Paesi privi di restrizioni è possibile adottare cuccioli di fennec come animali da compagnia.



Il fennec è la più piccola volpe al mondo, ma le sue grandi orecchie, lunghe 15 centimetri, sembrano prese in prestito da un parente di maggiori dimensioni. I fennec vivono nel deserto del Sahara e un po’ ovunque nelle regioni del Nord Africa. Le loro abitudini notturne li aiutano a sopravvivere alle temperature infuocate dell’ambiente desertico, e alcuni adattamenti fisici sono a loro volta d’aiuto.

I fennec addomesticati si dimostrano piuttosto socievoli, anche con gli estranei. Estremamente attivi, possono persino rendere esausti gli altri animali domestici a causa della loro vivacità.

Nonostante questo, in molti paesi è illegale possedere un fennec.


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giovedì 1 ottobre 2015

IL CAMMELLO

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Il cammello è un mammifero alto circa 2 metri, diffuso in Asia centrale, è utilizzato per la carne, il grasso, il latte, la lana e come animale da trasporto.

Quasi tutti i cammelli sono oggi animali domestici, ma in Mongolia, e in particolare in Cina e nel deserto del Gobi, vi sono alcune centinaia di esemplari selvatici, per questo è stato inserito nella lista rossa IUCN delle specie minacciate.

Fra gli Artiodattili è una delle specie più grandi. Può raggiungere i 3-4 metri di lunghezza, l'altezza da terra alla punta della gobba raggiunge anche i 2-3 metri e pesa in media 400–500 kg.
La differenza principale rispetto al suo parente più prossimo, il dromedario (Camelus dromedarius), è la presenza sul suo dorso di due gobbe egualmente sviluppate: il dromedario sembra infatti averne solo una, per estrema riduzione di quella anteriore. Tali appendici sono depositi di grasso, utile come riserva nei periodi di scarsità di cibo; esse, rispetto al dromedario, presentano inoltre la caratteristica di afflosciarsi lateralmente quando sono vuote, invece di ridursi semplicemente di volume. Rispetto al dromedario il cammello ha un pelame più folto, che diventa particolarmente lungo nella zona inferiore del collo.
Il cammello vive nelle zone desertiche e steppose dell'Asia centrale, tra l'Anatolia e la Mongolia. Il nome scientifico ("Bactrianus") gli fu dato da Carl von Linné nel 1758 perché lo riteneva originaria della Battriana, una regione fra l'Afghanistan e l'Uzbekistan.

Introdotto in Italia fin dall'epoca romana come animale da soma, da guerra e da circo, fu utilizzato saltuariamente fino al Settecento. Attualmente allevato solo all'interno di parchi faunistici e circhi.

Nelle steppe al confine tra la Cina e la Mongolia sopravvive un piccolo nucleo di cammelli selvatici, la cui consistenza è stata stimata nel 2009 in circa 900 individui.

Questi cammelli, seppure superficialmente abbastanza simili a quelli domestici, presentano sostanziali differenze rispetto a questi ultimi, ragion per cui la maggior parte della comunità scientifica tende oggi a considerarli appartenenti a una specie affine, ma separata, indicata con il nome di Camelus ferus.

Mentre infatti il cammello domestico e il dromedario presentano lo stesso numero di cromosomi e possono incrociarsi dando vita a prole feconda all'infinito, i cammelli selvatici hanno tre cromosomi in più, e i loro ibridi con quelli domestici risultano sterili, segno che il cammello domestico e il dromedario si sono evoluti a partire da una specie affine ma distinta, oggi scomparsa in natura.

Per quel che riguarda l'aspetto, inoltre, questi cammelli sono più piccoli, hanno una struttura scheletrica più leggera, pelo più corto e più chiaro, e gobbe di dimensioni sensibilmente inferiori, di forma conica, con estremità appuntita anziché arrotondata.

I cammelli vivono di solito in branchi di una ventina di esemplari con a capo un maschio.
Animale forte e resistente, è in grado di trasportare carichi fino a 450 kg. Per diversi giorni, circa 20, sopporta bene la mancanza di cibo e d'acqua, in quanto, quando il grasso delle gobbe viene demolito a scopo energetico, tra i cataboliti finali vi sono considerevoli quantità di acqua "metabolica". Può camminare fino a circa 24 ore consecutive, a una velocità massima di 4 km orari percorrendo fino a circa 50 km al giorno. Come riserva idrica può bere anche 150 litri d'acqua. Sopporta escursioni termiche da -20 °C a oltre 50 °C. La gestazione dei cammelli dura 13 mesi e partoriscono di solito un solo piccolo.
La specie selvatica è considerata in pericolo critico in base ai criteri della IUCN.

La Zoological Society of London, in base a criteri di unicità evolutiva e di esiguità della popolazione, considera Camelus bactrianus una delle 100 specie di mammiferi a maggiore rischio di estinzione.

Il dromedario, chiamato anche cammello arabo o cammello indiano, è un artiodattilo della famiglia dei Camelidi, diffuso in Asia, Africa settentrionale e, per intervento umano, anche in Australia (nel Medioevo anche nella Sicilia musulmana e in al-Andalus). Dal 1622 al 1944 il dromedario è stato massicciamente presente anche a Pisa, nella Tenuta di San Rossore, dove è stato nuovamente introdotto nel 2014.

In base ai resti fossili ritrovati, l'animale popolava alcuni millenni or sono anche l'America settentrionale ma è assai probabile che il dromedario sia stato addomesticato nella Penisola Araba tra il V e il IV millennio a.C.

Qui esso divenne cavalcatura, animale da soma, produttore di latte, carne e pelle: prodotti essenziali ai beduini che conducevano una vita nomade nella steppa e nei deserti rocciosi o sabbiosi peninsulari, tanto che gli studiosi credono che senza tale addomesticamento la vita umana in quegli ambienti sarebbe stata decisamente più limitata e difficoltosa.

Secondo un noto adagio l'uomo sarebbe così diventato il "parassita" del suo dromedario che, con altrettanto nota espressione araba, fu definito safinat al-barr, ovvero "nave del deserto", per la sua capacità di percorrere lunghe distanze su terreni abbastanza accidentati e in carenza di alimenti solidi e liquidi. Il dromedario non è estinto in natura, pur vivendo anche in cattività o al di fuori del suo areale originale.



La caratteristica più evidente del dromedario è la grande gobba sul dorso, differente da quelle del cammello sia per la forma più arrotondata, sia per il fatto che quando il dromedario consuma il grasso la gobba si riduce di volume, invece di afflosciarsi lateralmente come un sacco vuoto. Nonostante appaia il contrario, anche il dromedario ha in realtà due gobbe; il loro sviluppo è tuttavia estremamente asimmetrico, dato che l'anteriore è praticamente atrofizzata e la posteriore molto accentuata.

A livello scheletrico, numerose e cospicue differenze lo distinguono dal cammello. Le vertebre cervicali sono più sottili, inoltre le vertebre toraciche hanno processi spinosi che hanno più o meno la stessa lunghezza di quelli delle vertebre dorsali, mentre nel cammello i processi spinosi delle vertebre toraciche - che debbono sostenere la voluminosa gobba anteriore, appena accennata nel dromedario - sono molto più lunghi. Le costole del dromedario sono più strette e meno incurvate di quelle del cammello, inoltre il segmento terminale dello sterno termina in forma semicircolare e non con due lobi, come accade invece nel cammello.

Il manto del dromedario può assumere le più diverse sfumature del beige, giungendo a tonalità assai scure, fin quasi al nero, o, al contrario, assai chiare, fino al bianco. Le zampe sono formate da due dita rivestite da uno spesso strato calloso, che gli permette di camminare sulla sabbia senza sprofondarvi. Il muso è lungo e le narici sono molto strette, per essere riparate dalla sabbia quando viene sollevata dal vento.

Rinomate sono le femmine, anche per la loro capacità lattifera e per il carattere meno irrequieto. Quanto al lessico, il vocabolario arabo contempla circa 160 sinonimi per identificare i dromedari - dal generico termine jamal al collettivo ibil - in funzione del sesso, dell'età o del colore del manto: cifra ancor più alta pertanto di quella assai consistente riservata al cavallo, altro animale assai amato dalla cultura araba. L'arco di vita del dromedario giunge fino ai 40-50 anni.

Il dromedario è diffuso allo stato domestico in tutta l'Africa del nord, nella Penisola arabica, in India e in gran parte dell'Asia minore, luoghi dove trova le caratteristiche climatiche migliori per la sopravvivenza della sua specie.

Introdotto nell'interno dell'Australia nel 1800 per le sue eccezionali capacità di trasporto in climi aridi, con lo sviluppo sempre più massiccio dei trasporti terrestri via camion ha perduto la sua importanza economica. Non più utile, esso è stato abbandonato a sé stesso e, sfuggito al controllo dell'uomo, è rinselvatichito e si è trasformato in una dannosa specie invasiva, con una popolazione totale di almeno 500.000 capi. Poiché è estinto allo stato selvatico nei luoghi di origine (Sahara e penisola Arabica), i dromedari dell'Australia sono le uniche popolazioni dove si possono ancora fare osservazioni sul comportamento allo stato selvaggio dei dromedari.

Il dromedario, purché il terreno non sia troppo accidentato, è in grado di percorrere fino a 150 km in 15-20 ore, a una velocità che può oscillare fra gli 8 e i 20 km orari, sopportando un carico che può arrivare a 150–200 kg.

La sua capacità più conosciuta è quella di resistere alla sete fino a circa 8 giorni grazie alla particolare struttura del suo organismo. Esso è infatti in grado di evitare la dispersione dell'ettolitro circa d'acqua – che riesce a bere in appena dieci minuti – grazie all'addensamento del plasma sanguigno che riesce a dilatare i globuli rossi fino a 250 volte i suoi valori consueti.

La traspirazione, già di per sé assai limitata per via della particolare struttura dell'epidermide, può essere ancor più rallentata dall'ingestione di vegetali spontanei della steppa, talmente ricchi di sali minerali da avvelenare qualsiasi essere umano. Essi fanno infatti aumentare la pressione osmotica delle cellule dell'animale, impedendo l'evaporazione dei liquidi organici e consentendo quindi una sopravvivenza supplementare di 4-5 giorni del dromedario.

Il suo organismo è altrettanto in grado di sopportare un aumento della propria temperatura corporea fino a 6-7 °C, senza che questo comporti dispersione di liquidi, mentre un'altra fondamentale caratteristica è quella di limitare al massimo l'espulsione dei propri liquidi organici malgrado la forte carica di tossine, grazie al fatto che l'urea prodotta dal fegato non viene filtrata dai reni per la successiva espulsione, tornando invece per via sanguigna allo stomaco per entrare nuovamente in circolo. Se anche questo non bastasse si deve ricordare infine che il dromedario riesce a metabolizzare il grasso del proprio organismo (in particolare della gobba) e a produrre idrogeno che, con l'ossigeno dell'aria, riesce a creare acqua in ragione di 1 litro di liquido per 1 chilo di lipidi.

Dotato di udito e olfatto oltremodo fini (i nomadi ne lodano anche la vista), il dromedario può avvertire la presenza di acque sotterranee tanto da rendere preziosi servigi in ambienti aridi.

Nel Sahara esistono tre razze fondamentali di dromedario, ben distinte per dimensioni, caratteristiche e luogo d'origine. La razza maroki, proveniente dall'Africa mediterranea, è forte e robusta, ma di alto fabbisogno nutritivo e pertanto poco economica e poco allevata. La razza hoggar, originaria dell'omonima catena montuosa nell'Algeria meridionale, è una razza di montagna, leggera, resistente e adattata a terreni sassosi e accidentati; ha però lo svantaggio di essere molto lenta. La terza razza, la sudanese, è la più grande e la più forte, ma presenta l'inconveniente della scarsa resistenza alla siccità e alla fame. La maggioranza dei dromedari allevati in Africa deriva da incroci tra le razze Hoggar e Sudanese.

Di esso si utilizza pressoché tutto: carne (di alta digeribilità), grasso (particolarmente apprezzato quello della gobba), latte (da 2 a 14 litri al giorno), pelle (assai elastica e morbida), pelo (lavorato per produrre pregiati tessuti) e finanche sterco (mescolato con paglia e disseccato al sole per essere impiegato come combustibile nelle fredde notti della steppa).

In tempi relativamente recenti il dromedario è impiegato anche come animale da corsa. Rinomata la razza sud-arabica della regione del Mahra, che dà origine al dromedario da corsa chiamato appunto mehari (arabo mahri, "del Mahra"), e ai corpi cammellati militari definiti meharisti. In quanto animali da corsa, nei paesi del Golfo Persico sono organizzati percorsi rettilinei (il dromedario non ama, in corsa, effettuare rapide evoluzioni o curvare) della lunghezza fino a 28 chilometri per gare che richiamano un gran pubblico di appassionati.

La riottosità dell'animale alle evoluzioni non lo rende in genere ideale (al contrario di quanto si crede) per l'impiego bellico e ad esso si è preferito, quando possibile, il cavallo. Nelle età antiche della civiltà araba i guerrieri giungevano pertanto sui luoghi della battaglia cavalcando il dromedario con il cavallo a rimorchio, per montare questo al momento del combattimento.



Le donne nell'antichità erano considerate l'equivalente generale di tutte le merci. Infatti venivano scambiate con due cammelli o con quattro giumente o con una mandria di capre. Ebbene le donne erano merce, ma erano anche senza nome. La questione donna nel testo occidentale ha quindi posto in rilievo sia lo scambio, il commercio, che la questione della trasmissione del nome. Paradossalmente la donna non aveva nome eppure era supporto del nome: era, cioè, l'unico modo per tramandare il nome di uno degli affiliati all'orda, alla tribù o al clan. E fu così  che il corpo femminile incominciò a circolare in modo diverso, in modo equivoco, e la donna da merce di scambio diventò donna di denari, diventò la prostituta sacra o profana. Una donna che, in assenza di parola, di dispositivo intellettuale, si concedeva per la vita o per un solo momento.


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sabato 22 agosto 2015

L'ORCA

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Le orche, con la loro enorme mole, sono in grado di portare attacchi a qualsiasi animale marino. Lo stesso nome anglosassone, killer whale, significa balena assassina, nome appioppato dai balenieri all’orca perchè uccideva balene e balenottere e sottraeva quindi loro una preziosa fonte di ricchezza, come se i balenieri stessi non fossero dei killer. Sono stati documentati attacchi da parte dell’orca ad altri cetacei, a squali compreso il temibilissimo squalo bianco (probabilmente per difesa), a otarie, a trichechi, a pinguini e naturalmente ad un numero imprecisato di specie di pesci e invertebrati, sopratutto cefalopodi. Sono noti anche attacchi ad animali terrestri come l’alce (Alces alces). Nessun attacco è stato mai apportato all’uomo, se non in sei casi e tutti in cattività e uno dubbio, risalente al 1972 in mare aperto.
In natura le orche hanno avvicinato spesso l’uomo, ma non vi è mai stato nessun caso documentato di attacco. Eppure continuiamo a relegare le orche dentro vasche piccolissime, ben 41 nel corso del 2009 e i media continuano a chiedersi del perchè accadono tragedie e tralasciano il fatto che un’orca in una vasca non dovrebbe affatto esserci. Un orca in un ambiente confinato, pur nata in cattività, non potrà mai soddisfare alcune delle caratteristiche etologiche, fisiologiche ed ecologiche che le appartengono. Il tasso di mortalità in cattività varia, a seconda delle fonti, tra il 6 e l’8% all’anno.

L’orca (Orcinus orca), è un mammifero appartenente alla famiglia dei delfinidi, ed è diffuso praticamente in tutti i mari, sebbene la sua distribuzione sia frammentata. La maggior parte degli individui si trova infatti nelle fredde acque del nord Pacifico. A volte si trova negli estuari e può risalire i fiumi.

Normalmente però l'orca preferisce vivere nelle acque fredde del Polo Nord dove, in estate, caccia tra i banchi di ghiaccio. Solo alcune popolazioni migrano di estate verso l'equatore, in maniera molto simile alle balene grigie che migrano vicino alle coste statunitensi.
Eccezionalmente sono stati notati esemplari nel Mediterraneo. È difficile intuire il numero di individui nel mondo: le stime considerate più attendibili parlano di 100.000 esemplari totali, di cui 70-80 000 solo nell'Artide.
Il distacco filogenetico in una specie autonoma è avvenuto per i tassonomisti circa 5 milioni di anni fa. L'aggettivo orcino significa invece demone proveniente dall'inferno: Orco per i Romani era un dio sotterraneo.
Hanno una dieta molto ampia, anche se singole popolazioni sono specializzate in particolari tipi di prede. Alcune si nutrono esclusivamente di pesci, e altre cacciano altri mammiferi marini come leoni marini, foche, balene e delfini e uccelli come pinguini anche di grosse dimensioni. Le orche sono considerate predatori all'apice della piramide alimentare, non avendo dei predatori naturali. Presentano tecniche di caccia e di comunicazione che spesso sono tipiche di una singola popolazione.
Il peso di un maschio di orca può arrivare fino a 10 tonnellate, mentre il peso di una femmina può raggiungere circa le 7-8 tonnellate. La lunghezza è di 5-9 metri per il maschio e 4,6-8 metri per la femmina. L'orca è il mammifero marino che può nuotare più velocemente e può raggiungere la velocità di 55 km/h. La sua velocità è data soprattutto dalla potente spinta della sua coda muscolosa.



L'orca vive normalmente in gruppi composti dalla femmina, i suoi piccoli, femmine più anziane e sterili e un maschio adulto. Questa è una famiglia base matrilineare chiamata anche pod.
Tutti i componenti di questa famiglia comunicano tra loro attraverso suoni di vario genere e ogni pod ha il proprio linguaggio. L'orca ha un organo specifico posto sulla fronte che può usare come sonar. Tutti gli oggetti colpiti dalle onde sonore rimandano un'eco che le orche percepiscono come un animale o come una roccia da evitare.

Una femmina di orca può riprodursi con maschi anche di diversi pod. Allora i maschi, non potendo riconoscere i figli, si occupano di tutti quelli presenti nel loro gruppo.
Dopo circa 1 anno e mezzo di gestazione la femmina partorisce un solo piccolo, di norma nelle acque basse, e lo porta subito vicino a uno dei suoi parenti.
Per ogni femmina l'intervallo tra un parto e l'altro va dai 3 agli 8 anni, soprattutto a causa delle prolungate cure parentali.

La maturità sessuale avviene nella femmina a 10 anni (quando è lunga dai 4,6 ai 4,8 metri); il maschio invece matura a 16 anni e 5,8 metri di lunghezza.

Le orche sono animali fortemente sociali, e la caccia coinvolge tutto il gruppo. Il tipo di prede dipende dalle abitudini del gruppo: popolazioni dette residenti, sono stanziali e si nutrono essenzialmente di pesci; le transienti invece cacciano soprattutto mammiferi marini come foche, leoni marini e addirittura cuccioli di balene. Durante la caccia le transienti diventano molto silenziose, per cogliere di sorpresa le loro prede, ma l'attacco è ben coordinato e ogni individuo ha un preciso ruolo.

Rientrano nella loro dieta anche pinguini e altri uccelli marini. Nel 1988 in mare aperto è stato scoperto un nuovo tipo di popolazione detto Offshore, che viaggia in gruppi di circa 60 esemplari, distinto geneticamente dai transienti e dai residenti. È poco conosciuto, anche se le femmine Offshore si riconoscono perché hanno strisce che circondano le pinne. Le due popolazioni di residenti e transienti qualora frequentino lo stesso ambiente marino, evitano contatti reciproci.

Alcune popolazioni hanno sviluppato delle tecniche peculiari di caccia. Ad esempio le orche argentine si radunano in febbraio di fronte alle spiagge dove si riproducono i leoni marini per cacciare i cuccioli ancora inesperti. La tecnica è semplice: un individuo nuota di fronte alla spiaggia con la pinna dorsale ben visibile sopra la superficie del mare facendosi quindi notare, un altro individuo tenendosi sott'acqua, incrocia dalla direzione opposta. Se ci sono cuccioli distratti che riposano sulla battigia, l'orca che si è tenuta nascosta, con una impressionante rapidità, nuota verso la spiaggia cercando di catturare la preda. In quest'impresa l'animale si spiaggia, ma con decisi movimenti del corpo scivola indietro riguadagnando il mare e portando con sé l'eventuale preda.



Nei loro viaggi per mare le orche vengono spesso in contatto con altri grandi predatori del mare. Sono stati documentati scontri con esemplari di squalo mako, tigre e Squalo Bianco. In genere questi due predatori tendono ad evitarsi (c'è anche da tener conto che l'osservazione nei mari non è certo completa, registra solo una minima parte dei casi). L'8 ottobre 1997 nei pressi delle Isole Farallon fu filmato lo scontro tra un'orca di circa 6 metri ed uno Squalo bianco lungo poco più della metà.

Verso la fine del 2009, la biologa marina Ingrid Vissen e il suo squadra ha documentato con diverse foto il comportamento predatorio di alcuni branchi di orche a largo della Nuova Zelanda a danno di grossi esemplari di squalo Mako e Bianco. L'Orca attacca e uccide anche il Tricheco. L'unico animale in grado di sopraffarla è un Capodoglio adulto che grazie alla sua capacità d'immersione riesce a sfuggirle. Esemplari non ancora maturi possono invece rientrare nella dieta dell'orca stessa.

Le orche effettuano il breaching, lo spyhopping, il lobtailing e il logging. Il breaching consiste in un salto con il corpo completamente fuori dall’acqua. Si ritiene che tale comportamento sia utile per svariate ragioni, per esempio durante la caccia per raggruppare i pesci, oppure per liberarsi dai parassiti, o ancora semplicemente come attività ludica. Lo spyhopping consiste nell’emersione completa della testa ma non del resto del corpo, come per osservare un area sopra la superficie del mare. Il lobtailing o tail slapping indica un forte "schiaffo" dato sull’acqua con la pinna caudale mentre il resto del corpo rimane sott’acqua. Infine il termine logging indica uno "schiaffo" sulla superficie dell’acqua effettuato con la pinna dorsale, per cui l’animale ruota il proprio corpo su un fianco. Spesso più individui di un pod lo effettuano contemporaneamente.

L'orca è classificata nella Red list dell'IUNC tra gli animali DATA DEFICIENT (DD): in pratica che non ha a disposizione dati sufficienti per effettuare una valutazione diretta o indiretta del suo rischio di estinzione in base alla sua distribuzione e allo stato della popolazione.

La specie si trova elencata nell'Appendice II della CITES (Convenzione sul commercio internazionale di specie di fauna e flora minacciate d'estinzione, nota semplicemente come "Convenzione di Washington") che include le specie non necessariamente minacciate di estinzione, ma in cui il commercio deve essere controllato al fine di evitare uno sfruttamento incompatibile con la loro sopravvivenza.



LEGGI ANCHE : http://marzurro.blogspot.it/2015/08/il-bagno-con-le-orche.html







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martedì 30 giugno 2015

IL MULO

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Già nell'antichità il mulo era allevato in Illiria.
Fino a pochi decenni fa il mulo era assai diffuso sia nel Mediterraneo sia in Africa, Asia, Palestina e nelle Americhe.
Prima dell'avvento dei veicoli a motore, il peso principale della logistica di campagna degli eserciti ovviamente gravava – e non si tratta di una metafora – sul trasporto animale e in misura particolare sulla groppa di un tenace e solido quadrupede, il mulo.

La ragione è semplice: in termini di velocità di passo, di capacità di trasporto, di resistenza ai disagi e di sobrietà di richieste alimentari si tratta della scelta migliore possibile.

Un mulo può percorrere circa 5 chilometri all'ora a passo più lento in discesa che in salita, può trasportare circa il 30% del suo peso e si accontenta di 3/4 della razione di un cavallo a parità di peso: senza richiedere le cure e le attenzioni del suo più nobile cugino.

Se 5 km. all'ora possono sembrare pochi, va anche aggiunto che la resistenza del mulo gli consente di marciare anche per 10-12 ore: marce di 40 km al giorno possono essere considerate normali, 80 possibili, 160 eccezionali ma documentate in manuali dell'esercito americano dei primi del Novecento.

La maggior parte dei muli pesa tra i 350 e i 450 chili, per cui la loro capacità di trasporto dovrebbe variare tra i 100 e i 135 chili, contando, ovviamente, anche il peso del basto. Tuttavia il carico utile ideale, secondo i manuali militari moderni, dovrebbe aggirarsi sui 70 chili, e magari anche meno, considerando quanto desiderabile è mantenere in vita l'animale.

Le documentazioni antiche confermano questa variabilità, che probabilmente dipendeva tanto dalla stazza dell'animale, quanto dalla disponibilità o dall'esigenza di sovraccaricarlo: un editto di Diocleziano riferisce di carichi standard di 65.5 chili, mentre un precedente papiro egiziano di età ellenistico-romana riporta una specie di statistica in base alla quale il 41% di un campione di muli aveva un carico utile di 88,5 chili, il 35% di 118 chili e il 9.3% riusciva a trasportare fino a 177 chili.

A parità di peso, come anticipato, un mulo richiede il 75% della razione di un cavallo.

Tradotto in cifre significa dai 2 ai 4 chili di orzo e circa 6 chili di fieno o più o meno il doppio di erba fresca, mentre il fabbisogno di acqua è di 20 litri al giorno, di solito somministrati in tre momenti della giornata.

Le razioni militari in campagna possono tuttavia essere anche minori: durante la campagna peninsulare agli animali del treno di Wellington vennero distribuiti 2,3 chili di orzo e 4,5 chili di paglia al giorno, ma nelle fonti narrative non mancano aneddoti di muli costretti a sopravvivere con qualsiasi cosa fosse solo apparentemente commestibile.

Ovvio a questo punto che tutti gli eserciti abbiano approfittato e approfittino ancora (gli americani in Afghanistan, ad esempio) per le loro esigenze di trasporto di un animale tanto utile e servizievole.

I romani ne avevano 2 ogni contubernium (il nucleo base di 8 uomini che alloggiavano nella stessa tenda) per un ammontare complessivo stimato per legione imperiale di 1.400 muli. In epoca repubblicana il numero non doveva essere troppo diverso, considerando la natura meno strutturata centralmente dell'organizzazione militare.

I grandi numeri arrivano però nell'Ottocento: Sherman non avrebbe potuto concepire la campagna di Atlanta nel 1864, nonostante il massiccio impiego dei trasporti ferroviari, senza l'ausilio di un treno logistico composto dalla stratosferica cifra di 5.180 vagoni e 860 ambulanze, con un seguito di 28.300 cavalli e, soprattutto, 32.600 muli.

Il mulo è un ibrido sterile a causa del suo corredo cromosomico dispari (63 cromosomi), e deriva dall'incrocio tra l’asino stallone con 31 coppie di cromosomi e la cavalla con 32 coppie di cromosomi. La sterilità di questo animale è dovuta al fatto che avendo un corredo poliploide dispari, alla meiosi, non riesce ad appaiare i suoi cromosomi nella maniera giusta e non riesce a formare gameti "normali".

L'ibrido derivato dall'incrocio contrario (cavallo stallone e asina) si chiama bardotto.

I muli francesi godevano un tempo di grande fama. Le quattro zone tipiche di produzione di muli in Francia sono:

Poitou, da dove provengono muli di grossa taglia, assai pesanti e muscolosi;
Cévennes (Massiccio Centrale), da cui provengono muli medio-grandi adatti per la soma e per la montagna;
i Pirenei, dove viene impiegato l'asino catalano per la produzione;
il Delfinato, dove vengono prodotti muli di buona taglia, di conformazione raccolta, robusti e molto vigorosi.
Fino agli anni quaranta era fiorentissima la produzione mulina anche in Puglia: incrociando cavalle murgesi con asini di Martina Franca si ottenevano i famosi muli martinesi, ideali per l’artiglieria e la fanteria alpina.

Le ragioni della sua diffusione erano: costituzione assai forte e robusta, la rusticità, la resistenza alle malattie, l'adattabilità ad ambienti sfavorevoli, la sobrietà. Nasce soprattutto grazie alla selezione umana a cui in passato serviva la forza dell'asino e la velocità del cavallo. In particolare, il mulo, data la conformazione delle scapole, come quelle dell'asino, può trasportare grandi pesi direttamente sulla groppa, unendo la forza del cavallo alla resistenza dell'asino. Questa caratteristica ne ha permesso l'uso in alta montagna.

I muli maschi sono sempre sterili; le femmine, invece, possono essere occasionalmente fertili se accoppiate a cavalli o asini. Dal 1527 sono stati documentati oltre 60 casi di mule che hanno concepito e partorito soggetti vivi e vitali.

Attualmente è molto usato in ippoterapia e si cerca di rivalutare gli ibridi con progetti ad hoc oltre ad essere tutt'ora indispensabile per la vita degli abitanti del centro storico del comune di Artena, un piccolo borgo medioevale del centro Lazio, riconosciuto come il centro non carrozzabile più grande d'Europa.

Il mulo ha testa più grossa e orecchie più lunghe del cavallo, collo corto con scarsa criniera (più abbondante nel bardotto), garrese basso, dorso spesso convesso, groppa tagliente, coda con pochi crini. Gli arti sono asciutti, con articolazioni larghe e solide, piedi cilindrici e talloni alti e stretti. Il pelo è corto. I mantelli più frequenti sono il nero e il grigio; il sauro è raro. Talvolta si ha la riga mulina; più frequenti sono le zebrature, specie quando il mantello è baio.
Il mulo è meno ricettivo del cavallo alle malattie e alle coliche; minori sono anche le esigenze di governo, di cure igieniche e di custodia. Se il mulo è proverbiale per la caparbietà e spesso per la cattiveria, in compenso compie il lavoro con grande energia e molta resistenza, anche sulle strade montane più impervie, con passo sicuro e costante andatura.

Per ovviare alle difficoltà dell'accoppiamento tra cavalla e asino, si consiglia la fecondazione artificiale, che aumenta anche la percentuale di fecondità (con la monta naturale è relativamente bassa: 30-50%).
La durata della gravidanza nella cavalla ingravidata da stallone asino è intermedia tra le due specie (11 mesi per quella cavallina, 12 mesi per la specie asinina): è cioè 1-2 settimane più lunga rispetto a quella del cavallo. Di norma la cavalla ripresenta l'estro nella prima settimana successiva al parto e potrà essere fatta rifecondare. Le cavalle, nell'ultimo periodo di gravidanza, vanno lasciate a riposo, evitando, in particolare, gli eccessivi rigori del clima. Il parto non presenta in genere difficoltà. I parti gemellari sono molto rari. Il puledro, di norma, è più rustico del puledro cavallo e quindi può seguire presto la madre al lavoro. L'allattamento dura 7-8 mesi Nella prima settimana dopo il parto, è bene tenere la fattrice a riposo; nella seconda settimana,, madre e puledro si fanno passeggiare. La cavalla può riprendere il normale servizio nella terza-quarta settimana successiva al parto.
La castrazione dei maschi viene praticata intorno all'anno e mezzo, preferibilmente nell'autunno o nella primavera. La domatura, intesa come addestramento al lavoro, viene praticata verso i 18-24 mesi, nella stessa maniera adottata per il cavallo e l'asino. Il pieno rendimento si ha intorno a 4 anni di età. La rusticità è notevole, però il carattere è difficile, indipendente e scontroso; per questo motivo gli animali non vanno mai trattati duramente, per evitare risultati negativi e anche per l'istinto vendicativo del mulo.
I muli hanno vita lunga (come l'asino): si ricordano muli che hanno prestato lavoro, anche pesante, per 30 e persino 50 anni. Per la determinazione dell'età si ricorre all'esame della dentatura che differisce assai poco da quella dell'asino.
Lo zoccolo del mulo è simile a quello dell'asino, quindi meno lungo e più alto. L'unghia è più forte e resistente. Il diligente governo di quest'ultima e la buona ferratura hanno fondamentale importanza per un buon servizio, per la conservazione degli appiombi e, quindi, per la lunga durata degli animali.
L'alimentazione è la stessa consigliata per il cavallo e l'asino, nelle varie età e in funzione dell'impiego. Il pascolo è sempre consigliabile, in ogni età e particolarmente per i soggetti più giovani. Nel razionamento si deve tenere conto, come in ogni altra specie animale: dell'età, del peso vivo, del tipo e dell'intensità del lavoro.



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lunedì 22 giugno 2015

L'ERMELLINO



L'ermellino è un piccolo, agilissimo predatore capace di muoversi con destrezza sulla neve, tra le rocce, sugli alberi ed in acqua. Il colore mimetico e la velocità con cui si muove lo rendono particolarmente temibile per i piccoli animali e difficilmente avvistabile per i naturalisti.
E' molto simile alla donnola, da cui si distingue per le dimensioni inferiori e per il ciuffo nero all'estremità della coda.
Si accoppia in  autunno, ma la gestazione si interrompe nei mesi invernali: tra marzo e maggio nascono 4-7 piccoli.
La sua pregiatissima pelliccia lo ha fatto, in passato, oggetto di caccia spietata.

Il corpo è lungo fino a 30 cm nei maschi, circa la metà nelle femmine; le zampe sono relativamente corte. Il pelame, rosso-bruno sul dorso e bianco sul ventre in estate, viene mutato in inverno divenendo completamente bianco, tranne la punta della coda, nera. Agile, sebbene si sposti soprattutto a terra è un ottimo arrampicatore. Ha abitudini notturne e crepuscolari. È un predatore specializzato nella caccia a conigli e lepri, ma si nutre anche di micromammiferi, uccelli, uova, piccoli rettili, anfibi, pesci e invertebrati. Scava tane sotterranee; la particolare morfologia del suo corpo permette, specialmente alla femmina, di seguire le prede anche in cunicoli di piccole dimensioni. Se disturbato può rilasciare un secreto repellente, di odore muschiato, dalle ghiandole perianali.
La pelliccia di ermellino, nel suo aspetto invernale, è molto pregiata. Tradizionalmente è indossata come segno del potere da regnanti e come insegna di dignità dai gradi più elevati della gerarchia accademica o giudiziaria.

L'ermellino identifica l'appartenenza di alcuni personaggi rinascimentali, come Ludovico il Moro, ad un ordine cavalleresco. Campeggia, inoltre, nello stemma araldico di Giovanni Andrea da Lampugnano (sicario e uccisore nel 1476 di Galeazzo Maria Sforza) che è così composto: a destra la Lupa e a sinistra la Mustela Alpina detta, in volgare, ermellino.

Con l'uso di questa simbologia Leonardo da Vinci, nel dipinto della “Dama con l'ermellino”, intende fare memoria della congiura contro Galeazzo Maria. Gli elementi iconografici alludono al mandante della congiura che aveva armato la mano di Andrea da Lampugnano e di altri sicari. I principali elementi di questa ipotesi sono: la Croce di Sant'Andrea sulla spallina della misteriosa Dama; la collana di perle nere al collo che allude al lutto; la mano scheletrita che non accarezza l’ermellino e non lo teme; le dimensioni sproporzionate dell’ermellino: errore, questo, non ammissibile in uno studioso delle forme quale Leonardo era. Queste analisi fanno ritenere che il soggetto della “Dama con ermellino” non sia Cecilia Gallerani bensì Caterina Sforza, figlia naturale di Galeazzo Maria. Tesi avvalorata dalla simbologia usata per i “piatti di pompa” n. 8 e n. 9, custoditi al Museo Nazionale di Ravenna, sul cui verso è indicato il nome di Caterina Sforza mentre, sul recto, è usata la simbologia Andreana che si ritrova anche nell’abside della Chiesa di Sant'Andrea in Melzo dove, oltre agli affreschi di epoca leonardesca, recenti ricerche hanno portato alla luce un teschio che le analisi effettuate hanno stabilito essere quello di Galeazzo Maria Sforza, V duca di Milano.



L'opera è uno dei dipinti simbolo dello straordinario livello artistico raggiunto da Leonardo durante il suo primo soggiorno milanese, tra il 1482 e il 1499. L'opera, della quale si ignorano le circostanze della commissione, viene di solito datata a poco dopo il 1488, quando Ludovico il Moro ricevette il prestigioso titolo onorifico di cavaliere dell'Ordine dell'Ermellino dal re di Napoli.

L'identificazione con la giovane amante del Moro Cecilia Gallerani si basa sul sottile rimando che rappresenterebbe, ancora una volta, l'animale: l'ermellino infatti, oltre che simbolo di purezza e di incorruttibilità (annotava lo stesso Leonardo che "prima si lascia pigliare dai cacciatori che voler fuggire nell'infangata tana, per non maculare la sua gentilezza", cioè il mantello bianco), si chiama in greco "galé" (γαλή), che alluderebbe al cognome della fanciulla.

La scritta apocrifa ("LA BELE FERONIERE / LEONARDO DA VINCI") ha anche fatto ipotizzare che l'opera raffiguri Madame Ferron, amante di Francesco I di Francia, ipotesi oggi superata.

Esiste poi un'interpretazione, poco seguita ma interessante per capire la molteplicità di suggestioni che ha generato il ritratto, secondo cui l'opera sarebbe una memoria della congiura contro Galeazzo Maria Sforza: la donna effigiata sarebbe sua figlia Caterina Sforza, con la collana di perle nere al collo della dama che alludono al lutto, e l'ermellino un richiamo allo stemma araldico di Giovanni Andrea da Lampugnano, sicario e uccisore nel 1476 dello Sforza.

Il dipinto, col Ritratto di musico e la cosiddetta Belle Ferronnière del Louvre, rinnovò profondamente l'ambiente artistico milanese, segnando nuovi vertici nella tradizione ritrattistica locale. Dell'opera si sa che ebbe subito un notevole successo. Immortalato da un sonetto di Bernardo Bellincioni (XLV), venne mostrata dalla stessa Cecilia alla marchesa di Mantova Isabella d'Este che cercò di farsi ritrarre a sua volta da Leonardo, pur senza successo (ne resta solo un cartone al Louvre).

Le tracce del dipinto nei secoli successivi sono più confuse. Dimenticata l'attribuzione a Leonardo, l'opera venne riassegnata al maestro solo alla fine del XVIII secolo. Durante la seconda guerra mondiale venne nascosto nei sotterranei del castello del Wawel, dove fu trovato dai nazisti che avevano invaso la Polonia; quando fu ritrovato recava nell'angolo inferiore a destra l'impronta di un tallone, a cui venne rimediato con un restauro.

In quest'opera lo schema del ritratto quattrocentesco, a mezzo busto e di tre quarti, venne superato da Leonardo, che concepì una duplice rotazione, con il busto rivolto a sinistra e la testa a destra. Vi è corrispondenza tra il punto di vista di Cecilia e dell'ermellino; l'animale infatti sembra identificarsi con la fanciulla, per una sottile comunanza di tratti, per gli sguardi dei due, che sono intensi e allo stesso tempo candidi. La figura slanciata di Cecilia trova riscontro armonico nell'animale.

La dama sembra volgersi come se stesse osservando qualcuno sopraggiungente nella stanza, e al tempo stesso ha l'imperturbabilità solenne di un'antica statua. Un impercettibile sorriso aleggia sulle sue labbra: per esprimere un sentimento Leonardo preferiva accennare alle emozioni piuttosto che renderle esplicite. Grande risalto è dato alla mano, investita dalla luce, con le dita lunghe e affusolate che accarezzano l'animale, testimoniando la sua delicatezza e la sua grazia. L'abbigliamento della donna è curatissimo, ma non eccessivamente sfarzoso, per l'assenza di gioielli, a parte la lunga collana di perle scure. Come tipico nei vestiti dell'epoca, le maniche sono le parti più elaborate, in questo caso di due colori diversi, adornate da nastri che, all'occorrenza, potevano essere sciolti per sostituirle. Un laccio nero sulla fronte tiene fermo un velo dello stesso colore dei capelli raccolti.

Lo sfondo è scuro, ma dall'analisi ai raggi X emerge che dietro la spalla sinistra della dama era originariamente dipinta una finestra.

L'ermellino è dipinto con precisione e vivacità. A un'analisi della morfologia dell'animale, esso appare però più simile a un furetto. Può darsi che Leonardo, sempre indagatore del dato naturale, si ispirasse a un animale catturato, allontanandosi dalla, tutto sommato più realistica, tradizione iconografica (ad esempio si può vedere un ermellino nel Ritratto di cavaliere di Vittore Carpaccio del 1510 circa). Del resto, l'ermellino è un animale selvatico mordace e difficilmente ammaestrabile, di conseguenza sarebbe stato molto difficile poterlo utilizzare come modello, al contrario del furetto che può essere addomesticato quasi alla stregua di un gatto, oltre che relativamente semplice da trovare nelle campagne lombarde dell'epoca. Si consideri inoltre che l'ermellino ha dimensioni molto più ridotte, superando raramente e comunque di poco i 30 cm, mentre il furetto, come nel dipinto, a occhio misura tra i 40 e i 60 cm.


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LA MARMOTTA

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La marmotta delle Alpi o Marmota marmota è un mammifero facilmente osservabile in ambiente alpino sopra i 1500 metri dove gli alberi si diradano. E' un roditore parente dello scoiattolo, ma al contrario di quest'ultimo vive sul terreno e forma colonie numerose. Scava lunghe tane nel terreno, molto profonde e con un'unica uscita quelle invernali, meno profonde e con diverse uscite quelle estive. Nel periodo invernale cade in letargo per un periodo lungo fino a sei mesi durante il quale le funzioni vitali diminuiscono moltissimo.

La marmotta alpina vive sulle Alpi centroccidentali e sugli Appennini settentrionali; ama i terreni aperti e le pendici soleggiate, dove scava le sue tane profonde e articolate. Ha tronco tarchiato e robusto, testa grossa, orecchie corte, occhi ben sviluppati e coda lunga 15-20 centimetri; è dotata di arti anteriori assai solidi e di unghie robuste, atte allo scavo. Il mantello, molto folto, è bruno-grigiastro. Di abitudini diurne, è agilissima a dispetto dell’andatura apparentemente goffa, e trascorre la giornata tra bagni di sole e ricerca del cibo, per accumulare grasso in preparazione del lungo inverno: i mesi di letargo possono essere addirittura 8 nelle regioni più settentrionali. Si nutre di erbe e radici, anche di piante che risultano velenose per gli altri mammiferi. Le marmotte vivono in gruppi familiari territoriali formati da 15-20 individui, e sono note per il loro carattere amichevole. In caso di pericolo incombente l’individuo che per primo lo avverte emette un acuto suono vocale modulato e protratto (il famoso “fischio” delle marmotte), che all’istante fa scomparire nelle rispettive tane tutti i consimili della zona. La riproduzione non avviene necessariamente tutti gli anni, e la gestazione dura poco più di un mese. I 2-4 piccoli nascono in giugno e luglio e sono molto giocherelloni.

Le marmotte sono animali territoriali. Esse sono dotate di ghiandole che si trovano nei cuscinetti plantari delle zampe posteriori , sul muso e nella zona anale con le quali sono in grado di "marcare" il territorio. Nonostante questo però le zuffe tra marmotte di gruppi differenti sono abbastanza comuni. Se però il pericolo è più serio allora la parola d'ordine è la fuga. Quando una "sentinella" percepisce la presenza di un pericolo si alza a candela sulle zampe posteriori ed emette un grido simile ad un fischio avvisando il resto della comunità di rientrare nelle tane.

Il più grande predatore è rappresentato dall'aquila seguito dai cani vaganti.

La marmotta alpina vive in tane scavate nel terreno. Esse hanno diverse tipologie in relazione all'uso che devono svolgere. Esistono tane di fuga, mentre le tane principali sono costituite da una o più aperture che conducono in gallerie profonde anche una decina di metri. All'interno vi sono numerose concamerazioni dove le marmotte passano la notte, partoriscono, trascorrono l'inverno. L'animale è diurno: esce dalla propria tana al mattino, per rientrarvi solo nelle ore più calde e al crepuscolo. Durante il giorno si dedica alla nutrizione, alla pulizia della pelliccia, a lunghe soste al sole e allo stare insieme agli altri, attività che svolge un'importante funzione nel rafforzare i rapporti sociali fra i vari componenti del gruppo. La marmotta infatti non vive isolata ma in famiglie; ogni gruppo è generalmente costituito dal maschio e dalla femmina adulti oltre che dalle altre femmine. I giovani maschi vengono precocemente allontanati dalla famiglia dopo il primo anno di vita.

Questa specie trascorre la stagione invernale nello stato di letargo: tutti i componenti del gruppo si raccolgono nell'anfratto più ampio e profondo della tana, stretti gli uni agli altri per limitare la dispersione di calore. Durante questo periodo il metabolismo dell'animale subisce un notevole rallentamento: gli atti respiratori si abbassano a 2-3 al minuto, la temperatura da 38 gradi scende a soli 7-4 gradi e le pulsazioni cardiache passano a 4-5 al minuto. Prima del letargo, che dura generalmente da ottobre ad aprile, gli animali trasportano con la bocca l'erba secca per allestire un appropriato giaciglio per il lungo inverno. In primavera, all'uscita del letargo, la marmotta costituisce una facile preda perché ben visibile, mentre corre alla ricerca del cibo, sulle praterie ancora innevate.
Le ricerche più recenti hanno evidenziato che durante il letargo gli animali sono soggetti a periodici risvegli seguiti da breve attività. Questi temporanei risvegli hanno lo scopo di aumentare la temperatura corporea sia degli adulti sia dei piccoli, maggiormente esposti ad un'eventuale morte per ipotermia. Si tratta di un caso di cura parentale estesa anche agli altri adulti presenti. Se il numero di questi nella tana diminuisce o è ridotto alla singola unità, tale tecnica di termoregolazione sociale diventa insufficiente e la mortalità dei piccoli aumenta.
Il fischio è il tipico segnale di allarme della specie e serve inoltre a mantenere un collegamento fra i componenti del gruppo. In passato si riteneva erroneamente che fosse un vero e proprio fischio, ma in verità si tratta di un grido di origine laringea che viene emesso a bocca aperta. Inoltre esistono diversi tipi di segnale: ad esempio un fischio singolo indica una minaccia che proviene dall’alto, quale potrebbe essere un predatore alato (aquila) o un uomo che scende da un pendio; una serie di fischi segnalano un pericolo proveniente di lato, come una volpe, un cane o un uomo che giunge lateralmente. L'intensità del fischio fornisce indicazioni sulla distanza del probabile predatore. I segnali sono udibili fino a un chilometro in linea d'aria.

La sua alimentazione è vegetariana e costituita essenzialmente da erbe e radici e semi che le consentono di accumulare, nella buona stagione, il grasso che verrà consumato durante il letargo invernale. Non essendo un ruminante deve selezionare, in funzione della digeribilità, il tipo di alimento: questa è la ragione per cui sono privilegiate le parti vegetali più tenere ed in particolare i fiori. Il grasso della Marmotta, nella medicina popolare delle regioni alpine, veniva un tempo considerato come valido rimedio contro alcune malattie bronchiali, polmonari e reumatiche.

La marmotta non beve l'acqua che scorre nei ruscelli bensì trae i liquidi necessari al suo organismo unicamente dal consumo di erba e dalla rugiada mattutina.

Il periodo degli amori si colloca in primavera; dopo una gestazione di 40 giorni nascono generalmente da due a cinque piccoli. Essi vengono allattati dalla madre per 42 giorni e escono dalla tana, per la prima volta, solitamente agli inizi di luglio. La marmotta vive in nuclei familiari in cui il maschio tende ad accoppiarsi solo con la femmina adulta dominante.



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