domenica 5 aprile 2015

IL PELLICANO

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Pelecanus Linnaeus, 1758 è un genere di uccelli acquatici, unico genere vivente della famiglia Pelecanidae.

Il nome del genere viene dal latino tardo pelecanus, che a sua volta deriva dal greco πελεκάν (pelekán, "pellicano"). Si ritiene che la radice remota del termine sia il greco πέλεκυς (pélekys, "scure"), per la forma del becco Pelecanus onocrotalus Pelecanus crispus.

La livrea del pellicano è principalmente bianca con delle pennellate nere. Il grande becco è giallo con dei riflessi blu e l’estremità rossa. La borsa gulare, posta al di sotto del becco ed utilizzata per accumulare il pesce catturato, è gialla così come le zampe.
Questo grande uccello presenta una massiccia struttura corporea con il peso che oscilla
solitamente tra i 5 e i 10 kg. Il maschio è più grande della femmina: è lungo circa 175 cm (150 cm la femmina) e può raggiungere i 15 kg di peso.
L’apertura alare è notevole e variabile tra i 220 e i 360 cm.

Il pellicano vive, si riproduce e migra in colonie piuttosto numerose.
La maggior parte della giornata la trascorre curando il piumaggio od, eventualmente, alla ricerca di spiagge o piccole isole.
La stagione degli accoppiamenti cade in primavera nelle temperate zone europee e durante tutto l’anno nelle calde terre africane. La gregarietà di questo uccello si ritrova anche nella fase riproduttiva. Più maschi si esibiscono in particolari danze di corteggiamento sfoggiando un’evidente cresta, una macchia gialla ai lati del collo e un piumaggio rosato. La femmina sceglie il suo compagno e seleziona anche il sito di nidificazione. La costruzione del nido può richiedere da poche ore ad una settimana: si tratta di una struttura semplice con rametti impilati oppure con piccole rocce.
Il maschio nella difesa anche di un piccolissimo territorio apre la bocca lancia dei versi minatori e batte minacciosamente le ali.
Di solito sono deposte due uova che schiudono dopo circa un mese di incubazione. I giovani riescono a prendere il volo dopo circa due mesi e mezzo. Per accoppiarsi dovranno, però, attendere 3-4 anni d’età.
Il pellicano si nutre principalmente di pesce (un po’ di tutte le dimensioni). Ogni giorno necessita di circa 1,2 kg di pesce e per cacciare ha sviluppato un’ottima strategia: più individui, in genere una dozzina, nuotano insieme e si pongono in cerchio, colpiscono l’acqua con le ali e con il becco. Con questa tecnica radunano gruppi di pesci che poi raccolgono nelle borse gulari.

Nella famiglia dei Pellicani si contano in tutto sei diverse specie, tutte molto simili tra loro fatta eccezione per il Pellicano Bruno, caratterizzato da un piumaggio scuro. Le rimanenti specie presentano invece un piumaggio prevalentemente bianco con leggere sfumature brune sull’estremità delle ali. Al di là della colorazione ciò che maggiormente contraddistingue questa specie di uccelli sono le dimensioni ed il particolare becco: il Pellicano può raggiungere una lunghezza di ben 180 centimetri con una straordinaria apertura alare ed il lungo becco (che misura in media 40 cm) possiede una grande tasca dalla capienza di ben 13 litri. Questo particolare accessorio del suo “equipaggiamento fisico” permette al Pellicano di predare pesci di piccole e medie dimensioni utilizzandolo come una rete. A volte la sacca è talmente piena di pesci che quando il Pellicano torna a terra sfiora addirittura il terreno. La vita media dell’uccello è di circa 30 anni.

Il pellicano comune è un uccello che vive in Europa orientale, in Asia sud-occidentale e in Africa, a cui si attribuisce sin dal medioevo un importante significato allegorico. Dagli antichi greci il pellicano veniva chiamato Onocrotalo, perché il suo strano grido, krotos, era simile a quello di un asino (onos) - o perché assomiglia al suono di un sonaglio (sempre krotos) appeso al collo di un asino.

Il fatto che i pellicani adulti curvino il becco verso il petto per dare da mangiare ai loro piccoli i pesci che trasportano nella sacca, ha indotto all’errata credenza che i genitori si lacerino il torace per nutrire i pulcini col proprio sangue, fino a divenire “emblema di carità” (O. Wirth).

Il pellicano è divenuto pertanto il simbolo dell’abnegazione con cui si amano i figli. Per questa ragione l’iconografia cristiana ne ha fatto l’allegoria del supremo sacrificio di Cristo, salito sulla Croce e trafitto al costato da cui sgorgarono il sangue e l’acqua, fonte di vita per gli uomini. Il pellicano è una figura rappresentativa anche in altre culture, infatti i musulmani considerano lo stesso un uccello sacro poiché, come narra una loro leggenda, allorché i costruttori della Ka’ba dovettero interrompere i lavori per mancanza d'acqua, stormi di pellicani avrebbero trasportato nelle loro borse naturali l'acqua occorrente a consentire il completamento dell'importante costruzione sacra.

Antiche leggende raccontano che i suoi piccoli vengono al mondo talmente deboli da sembrare morti, o che la madre, tornando al nido, li trovi uccisi dal serpente o dalla nitticora, suo rivale. Il Fisiologo nel suo inventario  dice che il pellicano ama moltissimo i suoi figli: «quando ha generato i piccoli, questi, non appena sono un po' cresciuti, colpiscono il volto dei genitori; i genitori allora li picchiano e li uccidono. In seguito però ne provano compassione, e per tre giorni piangono i figli che hanno ucciso. Il terzo giorno, la madre si percuote il fianco e il suo sangue, effondendosi sui corpi morti dei piccoli, li risuscita».

Negli ultimi tre secoli del medioevo, sovente lo spirituale uccello è stato al centro dell'attenzione artistica. Rappresentato in scultura o in pittura col nido dei suoi piccoli sulla sommità della croce e nell'atto di straziarsi il petto con i colpi del suo becco. Il sangue scaturente dal petto del Pellicano è, per l’Ars Symbolica, la forza spirituale che alimenta il lavoro dell’alchimista che, con grande amore e sacrificio, conduce la ricerca della perfezione. Questo emblema è presente nell’iconografia alchemica: da un lato raffigura un genere di storta, ossia un recipiente nel quale veniva riposta la materia liquida per la distillazione, il cui “beccuccio” è piegato in direzione della cupola convessa; dall’altro costituisce un’immagine della “pietra filosofale” dispersa nel piombo allo stato fluido, nel quale si fonde al fine di determinare la trasmutazione del “vile metallo in oro”. Questo volatile è quindi la metàfora dell’aspirazione non egoistica all’ascesa verso la purificazione, della generosità assoluta, "in mancanza della quale, nell'iniziazione, tutto resterebbe irrimediabilmente vano" (O. Wirth).


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