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martedì 7 luglio 2015

LA RISERVA NATURALE DELLE VALLI DI SANT'ANTONIO



Posta a cavallo tra la Valtellina e la Valle Camonica, la Riserva viene istituita all'inizio degli anni '80 ed interessa gli ambiti fluviali dei torrenti Valle di Campovecchio, Val Brandet e Valle di Sant'Antonio, area oggi tutelata anche dall'Unione Europea come Sito d'Importanza Comunitaria. Due sono i colori predominanti che colpiscono chi risale le valli: il verde dei versanti ed il bianco dei torrenti la cui acqua, impetuosa e spumeggiante, solca la roccia e corre rapida nei fondovalle. Prati e foreste, laghi alpini e crinali, vette e pietraie si avvicendano a diversificare i paesaggi naturali, che nelle valli ben si integrano con quelli culturali. I fienili e le baite si richiamano alle dimore Walser, con pareti ottenute da travi di abete lavorate con un sistema ad incastro denominato "blockbau". Ma la storia dell'uomo non si legge solo nelle sue dimore: ci sono le incisioni rupestri, le miniere di ferro e rame ed i forni fusori. Respirare l'identità di questi luoghi lasciandosi stupire dai profili delle vette sui laghi, dal fragore di un torrente e dal profumo del bosco equivale a fare un viaggio interiore, alla scoperta di se stessi e della propria natura.
L’architettura dell'antico di sant'Antonio borgo ci rimanda al tempo in cui nelle valli vi era ancora una viva economia rurale e l’intervento dell’uomo era necessariamente in perfetta armonia con la natura circostante.
Dalla montagna si traeva quasi tutto il necessario per vivere: le pietre per costruire le case, le lastre di ardesia per i tetti. Minuscoli orti nelle zone piu’ protette dal freddo erano coltivati come piccoli giardini dalle donne mentre, nel periodo estivo, gli uomini conducevano il bestiame all’alpeggio.
Il paese e’ incastonato tra le acque di due torrenti che si uniscono a valle del centro abitato originando il breve, impetuoso torrente S. Antonio, affluente dell’Ogliolo. I due torrenti in questione sono il Campovecchio e il Brandet e danno il nome a due splendide vallate creando un paesaggio di tale bellezza da meritarsi la creazione della “ Riserva Naturale Paesistica delle Valli di S. Antonio”.
Nonostante l’area tutelata interessi esclusivamente gli invasi dei tre torrenti, fino ad un’altitudine variabile tra i 1200 e i 1700 mt., tutti gli ambienti ad altitudine superiore sono interessanti e di grande pregio naturalistico soprattutto per le evidenti tracce lasciate dai ghiacciai del Quaternario, tra cui numerose morene e circhi glaciali nei quali si sono originati vari suggestivi laghetti alpini, quali il Torsolazzo, il lago Piccolo e i laghetti del monte Culvegla.
Le due vallate sono separate da una catena di cime che si sviluppa da Nord a Sud con la Cima Tre Monti (1647 mt.), il Corno dell’Agna, il Monte Sessa, il Monte Borga (2733 mt.) ed il Monte Culvegla. Il graduale sviluppo altitudinale della riserva consente di osservare il naturale avvicendamento delle specie arboree tipiche delle nostre Alpi, intervallato da zone che l’uomo ha disboscato per fare spazio ai pascoli, ai prati da sfalcio ed alle caretteristiche abitazioni rurali.
Partendo da fitti boschi di Abete rosso con gruppi isolati di Abete bianco si passa, salendo, ad un associazione di Abeti e Larici. Questi ultimi prendono decisamente il sopravvento man mano ci si avvicina al limite superiore dell’orizzonte montano (verso i 1900 mt.), dove, dopo la lariceta rada, troviamo ancora qualche isolato e contorto esemplare di questa specie tra gli arbusti di Rododendro e Mirtillo.
Ad altitudini superiori anche gli arbusti contorti scompaiono per fare posto ai pascoli d’alta quota ed infine alle rocce spesso ingentilite dalla tipica vegetazione alpina a pulvini: fittissimi cespuglietti tondeggianti, sovente ricoperti di splendidi fiori.
La fauna di montagna si alterna adattandosi ai vari ambienti vegetazionali appena menzionati, per cui nelle vallate più basse vivono Cervi, Caprioli, Mufloni introdotti 1971 nella Valle Belviso, Volpi, Scoiattoli ed altri piccoli mammiferi, alle quote piu’ elevate e’ possibile avvistare il Camoscio mentre molto piu’ difficile e’ l’incontro con l’Ermellino, la Martora e la Lepre alpina. Altrettanto interessante l’avifauna per la presenza di molte specie tipiche della montagna tra cui il raro Gallo cedrone, il Gallo forcello, la Pernice bianca, l’Aquila reale, la Coturnice. Nel bosco vivono le varie specie di Picchi, la Nocciolaia, lo Sparviere e l’Astore, oltre a tutte le varie ed interessanti specie di Passeriformi.

La Riserva Naturale "Valli di S. Antonio", concepita con felice intuizione da uomini lungimiranti e istituita già nel 1983 (fra le prime in Lombardia), ha finalità di tutela del patrimonio naturale e paesistico; promozione delle attività agro-silvo-pastorali e della ricerca scientifica; regolamentazione delle utilizzazioni ricreative. Attorno ai confini comunali poi è tutto un accalcarsi di realtà naturali pregiate, in vario modo protette: dal Parco delle Orobie Valtellinesi a quello dell'Adamello, dalla Riserva Naturale di Piangembro all'Osservatorio Eco-Faunistico Alpino di Aprica, realizzazione unica e originale ne suo genere sulle Alpi.
Detto delle attrattive naturalistiche, all'interno della Riserva vi sono due bei rifugi alpini, ampie aree da picnic, sentieri attrezzati percorribili a piedi, a cavallo o in mountain-bike. Pittoreschi i ponti in legno coperti sui torrenti e le tipiche baite, alcune ristrutturate, coi tetti in "scandole".

Il substrato che caratterizza la zona in esame è caratterizzato dalla presenza di rocce di natura silicatica. L’evoluzione del suolo è fortemente condizionata anche dai caratteri geomorfologici del luogo: la conformazione a U delle vallate testimonia l’origine glaciale di tutta la porzione più alta delle due testate vallive di Brandet e Campovecchio, mentre nella parte bassa l’azione erosiva delle acque di scorrimento superficiale ha modellato un tipico profilo a V a partire da quota 1300 m slm fino alla confluenza con il Fiume Ogliolo. La pendenza dei versanti è generalmente molto accentuata, mentre le uniche zone semipianeggianti si riscontrano sul fondovalle, al di sopra del terrazzo morenico cui corrispondono i più antichi insediamenti rurale di Campovecchio e Brandet.
Dal punto di vista idrografico assumono un ruolo di fondamentale importanza i corsi d’acqua, rispondenti alle finalità istitutive proprie della riserva naturale. Le due vallate principali sono solcate dai torrenti Brandet e Campovecchio che confluiscono nella Valle di Sant’Antonio a quota 1.110 m slm, nei pressi dell’omonimo borgo.
Da qui un corso d’acqua di portata cospicua scende con moto turbolento superando anfratti rocciosi e massi ciclopici spettacolari fino a raggiungere la località Fucine (quota 1000 m slm), per poi immettersi nell’Ogliolo quale affluente di destra.
Sia in Valle di Campovecchio che in Val Brandet si trovano numerose vallecole laterali, tutte caratterizzate da acclività molto accentuata, che alimentano i corsi d’acqua principali: le valli di Pasò, di Enet, della Sessa e del Forame in Val di Campovecchio e le valli del Foppone, della Marosa, del Piccolo, Lizza, Bondone, Sonno, Garzoneta in Val Brandet sono le più rilevanti.
La parte alta del bacino idrografico delle Valli di Sant’Antonio, fuori Riserva ma comprese entro il SIC, ospita anche numerosi laghi alpini di notevole rilevanza paesaggistica, tra cui domina senza dubbio per importanza e dimensioni il Lago di Piccolo (2.380 m slm), che detiene l’importante primato di essere il più grande lago alpino naturale della Provincia di Brescia e delle Orobie, circondato da una serie di altri piccoli specchi d’acqua aventi la medesima origine glaciale, il più importante dei quali è senza dubbio il Lago di Culvegla (2.290 m slm).

Elemento caratterizzante le valli di Sant’Antonio rimane però l’acqua, che scorre copiosa e spumeggiante in quelli che devono ritenersi i torrenti più belli della Lombardia: solo marginalmente interessati da opere di regimazione idraulica, conservano ancora un’eccezionale naturalità. La grande vocazionalità ittica delle acque richiede una graduale conversione delle popolazioni artificiali oggi immesse per la pesca, in popolazioni autoctone di Trota fario (Salmo trutta trutta) e Scazzone (Cottus gobio) in grado di sostenere il proprio ciclo riproduttivo.
I caratteri qualitativi e quantitativi dei due principali corsi d’acqua (Valle di Campovecchio e di Brandet) che confluiscono nella Valle di Sant’Antonio poco più a valle dell’abitato omonimo (punto di confluenza a quota 1.110 m slm), conferiscono all’ambiente naturale prerogative e peculiarità uniche e di elevatissimo pregio naturalistico, tanto da giustificare l’istituzione della riserva nell’ormai lontano  1983 con obiettivi di salvaguardia ambientale ben specifici.
Nella riserva naturale è possibile pescare, limitatamente ai periodi di apertura che vanno dalla primavera fino all’inizio di  ottobre, dietro corresponsione di un canone da versare al Comune di Corteno Golgi, al quale la Provincia di Brescia ha affidato in concessione la gestione della pesca su tutto il territorio comunale.
La pesca può essere inoltre esercitata in forme diverse a seconda dei tratti considerati, come stabilito dal regolamento e indicato anche sui cartelli informativi: nel Torrente Brandet sono attuabili diverse tecniche di pesca, mentre al torrente Campovecchio è riservata la Pesca a mosca. Il tratto più basso della Valle di Sant’Antonio viene invece utilizzato secondo le più svariate tecniche di pesca, sempre entro i limiti imposti dal regolamento vigente. A monte della confluenza fra la Valle di Sant’Antonio e  l’Ogliolo (loc.tà Fucine 1000 m slm) vi è la zona di ripopolamento ittico.
Al di là dell’aspetto estetico-visuale estremamente vario e spettacolare, le peculiarità naturalistiche del luogo legate alle sue qualità idrobiologiche si rendono del tutto evidenti anche nella composizione faunistica non necessariamente relegata alla classe dei pesci, ma strettamente dipendente dall’ecosistema acquatico d’acqua dolce. Prova ne sono la presenza di alcuni particolari indicatori biologici, che vanno da alcune specie rane e di tritoni, alla salamandra, alla biscia d’acqua, al merlo acquaiolo, al martin pescatore e altre specie che stabiliscono una relazione di stretta dipendenza con il corso d’acqua, fino a considerare attendibili anche alcune segnalazioni relative alla presenza della lontra che, pur essendo ormai scomparsa, sembra sia stata rinvenuta fino a non molti anni or sono lungo l’Ogliolo.



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lunedì 30 marzo 2015

ORCHIDEA FIOR DI RAGNO

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L'Ofride verde-bruna (nome scientifico Ophrys sphegodes Mill., 1768) è una pianta erbacea spontanea in Italia, appartenente alla famiglia delle Orchidaceae.

Il nome generico (Ophrys), secondo quanto scrive lo scrittore romano Plinio il Vecchio (23 – 79), deriva da un'antica parola greca “οφρύς” e significa “sopracciglio”. Gli antichi (scrive sempre il naturalista latino) usavano appunto questa pianta per produrre una tintura per colorare le sopracciglia. Può essere però che il vero significato derivi molto più semplicemente dalla forma delle lacinie interne del perigonio oppure dalla pelosità del labello (carattere molto più evidente del primo). Il nome specifico (sphegodes) deriva, sempre dal greco, dalla parola "sphex" (= vespa) e si riferisce ai particolari disegni sul labello. In realtà altri in quei disegni vedono un addome di un ragno (da qui alcuni nomi comuni).
La denominazione scientifica attualmente accettata di questa orchidea (Ophrys sphegodes) è stata proposta dal botanico scozzese Philip Miller (1691 – 1771) in una pubblicazione del 1768, ottava edizione del suo Dictionnaire.

Piante il cui organo perennante è un bulbo da cui, ogni anno, nascono fiori e foglie.

Pianta alta 10-45 (55) cm con fiori dall'aspetto estremamente variabile, con 2 bulbi, ovoidi, interi, provvisti di radici filamentose.
Fusti eretti, semplici, cilindrici, lisci e glabri con
foglie basali in rosetta, con lembo ovale- lanceolato, verde scuro con riflessi argentati; le cauline ellittiche, acute, inguainanti, ripiegate a doccia, quelle superiori di dimensioni progressivamente minori, brattee, verdi o giallastre, erbacee, appuntite più lunghe degli ovari.
Infiorescenza a spiga molto rada composta da 4-10 fiori estremamente variabili, simulanti la forma di un insetto. Tepali esterni da verde a verde giallastro, concavi, glabri, col margine revoluto, di forma oblunga, il mediano più inclinato in avanti, quelli interni più corti, concolori, oppure variabilmente più chiari o più scuri, lanceolati generalmente tronchi e con margine increspato. Labello peloso, intero, ovato raramente trilobo, misura da 0,8-0,15 cm, quasi tanto largo che lungo, leggermente smarginato, di colore bruno cupo, vellutato, con gibbosità da appena accennate a più o meno evidenti e provvisto alla base di una piccola appendice rivolta in avanti e con una macchia lucida a forma di H , II, o X, allungata, da marroncina ad azzurrognola o bruno rossiccia. Ovario cilindrico.
IL frutto è una capsula fissuricida, eretta, oblunga con semi piani, reticolati.

Fiorisce da febbraio a giugno.

Vegeta in luoghi aridi, erbosi, garighe e pinete, su terreni calcarei, da 0 a 1200 m di altezza

Questa specie si caratterizza per un elevato polimorfismo causato dai ripetuti processi di ibridazione e introgressione,risulta ancora difficilmente inquadrabile tanto che alcune sottospecie, frettolosamente elevate di rango, sono tornate alla vecchia denominazione per controlli più probanti ottenuti mediante l'uso dei marcatori molecolari. I primi esperimenti testimoniano che nella maggior parte dei casi le differenze morfologiche e fenologiche devono essere ricondotte ad adattamenti. Siamo quindi, quasi sempre, in presenza di ecotipi generati da processi di adeguamento conseguenti alla pressione ambientale cui le piante sono sottoposte.

Anche l'uomo, in talune regioni come la Turchia, diventa fattore attivo del rischio di estinzione di questo genere a causa dell'uso dei tuberi per produrre una farina "il SALEP" (in arabo "sahlab") che nella credenza popolare, ancora oggi, viene considerato afrodisiaco; oppure per produrre gelati o per dare un gusto particolare al burro di Yak; per produrre un kg di salep occorre sradicare circa 1000 piante.

La maggior parte delle piante ascritte a questo genere in Italia vengono impollinate da insetti del genere Andrena e soprattutto da A.nigroaenea.
La riproduzione può essere agamica mediante la produzione di tuberi accessori destinati a staccarsi per formare una nuova pianta; gamica quando avviene per seme; in questo caso le Orchidaceae hanno raggiunto un altissimo grado di specializzazione in quanto non avendo il loro seme le sostanze di riserva, riescono a germinare lo stesso con l'aiuto di un fungo simbionte del genere Rhizoctonia. Il micelio del fungo penetra nel seme e fornisce le sostanze organiche nutritive. Alla emissione delle prime foglioline la pianta inizia a produrre alcune sostanze organiche , che in parte cede al fungo.
Questo micotrofismo termina quando si ha lo sviluppo del primo tubero ed a questo stadio la pianticella emette un principio fungicida che inibisce il proliferare del micelio. Alcuni generi come Neottia e Limodorum continuano la simbiosi per tutta la loro vita.
Questo genere è tra i più specializzati nella fecondazione che è prevalentemente entomofila. Le Ophrys hanno sviluppato strategie che coinvolgono, per stimoli visivi, insetti selezionati di cui il labello riproduce gli ornamenti grafici della femmina dell'insetto pronubo e inoltre è in grado di emettere degli odori particolari, i feromoni, simili a quelli rilasciati da essa in modo da innescare un inganno verso l'insetto maschio, inducendolo a iniziare un pseudocopula atta alla consegna delle masse pollinee. Se l'insetto pronubo non è presente la pianta procede alla autoimpollinazione che preserverà la specie ma evolutivamente svantaggiosa.
Per attuare queste strategie il seme rimane in quiescenza anche per parecchi anni quindi, l'azione di arare o raccogliere le piante, può pregiudicare questa lunga attesa. Peccato che i tuberi di queste piante siano ricercatissimi dai cinghiali e istrici che dove intervengono sono in grado di compromettere per sempre la loro sopravvivenza.


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L' ORCHIDEA PIRAMIDALE

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L'orchidea piramidale (Anacamptis pyramidalis (L.) Rich., 1817) è una pianta appartenente alla famiglia delle Orchidaceae.

È una pianta erbacea alta 20–60 cm, dal fusto esile, cilindrico, di colore verde chiaro.
Le foglie inferiori, lineari-lanceolate, sono lunghe sino a 25 cm, le cauline diventano più corte avvicinandosi all'apice, le brattee sono violacee e acuminate.
I fiori sono riuniti in una caratteristica infiorescenza densa di forma grossolanamente piramidale, da cui il nome della specie. Sono di colore dal rosa pallido al porpora, raramente bianchi.
I sepali sono ovato-lanceolati, con petali poco più larghi e più corti. Il sepalo dorsale e i petali contigui formano un casco, mentre i sepali laterali sono distesi e diretti in avanti. Il labello è trilobato con lobi più o meno della stessa grandezza; alla base del labello mediano sono presenti due lamelle longitudinali, leggermente divaricate. Lo sperone è filiforme, lungo sino a 15 mm.
Fiorisce da marzo a giugno.

Si riproduce per impollinazione entomofila da parte di diverse specie di lepidotteri: le farfalle adagiano il loro corpo tra le due lamelle basali del labello, e srotolano la spirotromba per raggiungere il nettare, posto in fondo al lungo sperone; nel far ciò entrano in contatto con le masse polliniche che, aderendo al corpo dell'insetto, verranno successivamente trasportate su un altro fiore.

È diffusa in Europa centrale e meridionale. È abbastanza comune in tutta l'Italia, isole comprese.

Cresce in praterie e garighe, sino a 1400 m di altitudine, prediligendo i terreni calcarei asciutti e le esposizioni soleggiate.


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IL GIGLIO CAPRINO

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È una pianta erbacea alta 10–35 cm, con fusto cilindrico di colore verde, violaceo verso la sommità.
L'apparato radicale è composto da due rizotuberi rotondeggianti.
Le foglie sono da ellittiche a lanceolate; quelle basali sono riunite a rosetta mentre quelle cauline inguainano il fusto. Le brattee sono lanceolate, verdi, talora macchiate di porpora alle estremità.
I fiori, di colore dal rosa al viola (ma non sono rare le forme albine), sono riuniti in infiorescenze oblunghe, più o meno dense. I sepali sono ovato-oblunghi, i petali un po' più stretti. Il labello, leggermente trilobato, con labello mediano più grande dei laterali, ha margini crenulati; la parte centrale è in genere più chiara e presenta una punteggiatura violacea. Lo sperone è cilindrico, orizzontale o ascendente, più corto dell'ovario. Il ginostemio è a becco corto, con logge dell'antera color porpora e masse polliniche verdastre.

Alcuni autori hanno descritto una forma di colore più chiaro e con fusto più gracile come una specie a sé stante, denominata A. picta; recenti ricerche basate su marcatori molecolari sembrano contraddire, almeno per le forme presenti sul territorio italiano, tale inquadramento.

Fiorisce da aprile a giugno.

Si riproduce per impollinazione entomofila ad opera di imenotteri del genere Bombus.

Si trova quasi in tutta Europa e nei paesi del bacino del Mediterraneo.

In Italia è presente su quasi tutto il territorio, con l'eccezione della Sardegna.

Il suo habitat va dai prati magri, alle garighe, alle radure di macchia, ai boschi luminosi, con preferenza per i terreni leggermente acidi, alla luce piena del sole o in mezz'ombra. Cresce da 0 a 1900 m di altitudine.
Fino al 1997, questa orchidea si chiamava Orchis morio L.: ma Bateman, Pridgeon e Chase operarono una revisione e alcune specie del Genere Orchis vennero spostate tra le Anacamptis.
L’origine del nome morio, dato da Linneo, non è chiara.
Il nome della specie morio secondo alcuni deriverebbe dal latino "matto", secondo altri dallo spagnolo "morrion" che significa "cappuccio". Qualunque di queste ipotesi sia quella valida, il riferimento è comunque alla forma dei tepali che ricordano un copricapo da giullare.
Narra un'antica leggenda greca che ad un giovinetto bellissimo di nome Orchide, all'inizio dell'adolescenza, erano spuntati due opulenti seni e più cresceva, più il suo corpo diventava sinuoso e morbido. Orchide non capiva più se fosse un maschio o una femmina o entrambi insieme e di questo ne soffriva tantissimo perchè maschi e femmine lo evitavano trovandolo tanto diverso da loro. La sua ambiguità si rifletteva anche nel carattere: a volte era timido e schivo, altre volte aggressivo e lussurioso. Un giorno, preso dalla disperazione, si gettò da una rupe sfracellandosi su un prato dove, per incanto, spuntarono dal suo sangue tanti fiori, l'uno diverso dall'altro, ma simili nella fastosa e bizzarra sensualità. Presero il nome di Orchidee, cioè fiori di Orchide. Ci sono infatti quelle che sembrano uomini nudi, altre che raffigurano il sesso femminile. La bellezza delle Orchidee ha evocato il simbolo dell'Armonia, bellezza che, come il corpo androgino di Orchide, trascende ogni genere, essendo maschile e femminile insieme.



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LA PULSATILLA MONTANA

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Bella pianta a foglie radicali peloso-villose, bipennatosette, divise in lacinie lineari. Scapo alto fino a 30 cm con fiore unico a 6 sepali, che si aprono a stella e che sono di colore violaceo scuro. Prima della loro completa apertura i boccioli sono a forma di campana pendula, che ondeggia ad ogni soffio d'aria, procurando alla pianta il nome di pulsatilla per questa sua caratteristica. Preconizzato dal Matthioli come rimedio contro i veleni e contro la peste, ha ridotto oggi le sue proprietà terapeutiche solo ad una azione sedativa, diuretica, espettorante, vescicatoria. È usato per curare la tosse canina, le tossi secche spasmodiche e l'idropisia. La pianta viene usata specialmente allo stato fresco con molta cautela, perché tossica e fortemente irritante per le mucose del naso e degli occhi. Pianta steppica, vive nei posti erbosi aridi, dal piano a 2100 m di altitudine e fiorisce in marzo-aprile. Specie protetta in senso assoluto in provincia di Bergamo e Como.

Presa cruda è una pianta fortemente tossica, irritante delle mucose nasali. Nella medicina popolare si usava contro l'avvelenamento e la peste.
Oggi si riconoscono proprietà sedative, diuretiche ed espettoranti. Usata in omeopatia per guarire la depressione con gli stessi effetti della nux vomica.

La Pulsatilla montana o Anemone pulsatilla, è nota ai francesi come pulsatille des montagnes, i tedeschi la chiamano Berg-Küchenschelle e gli inglesi Mountain Anemone. Nella dizione popolare italiana questo bellissimo fiore prende tre nomi: passafiore, fior di Pasqua ed erba del diavolo. Quest'ultima definizione è giustificata dal fatto che la pulsatilla allo stato fresco è velenosa per l'organismo umano. Gli animali al pascolo si guardano bene dal brucarla.

Il nome fa riferimento alla peluria che riveste la pianta e al lievissimo portasemi che sotto l'azione del vento sembrano pulsare, muoversi in modo ritmico.

Pulsatilla, o erba del diavolo, una pianta tanto infida quanto straordinaria: stiamo parlando di un'erba particolarissima, i cui studi di carattere farmacologico - effettivamente attendibili - hanno avuto inizio solamente verso la fine del Novecento. Se pulsatilla, da un lato, sembra miracolosa per alcuni disturbi, dall'altro il suo impiego smodato può scatenare una serie di effetti collaterali molto gravi, quali disordini cardiaci e respiratori.
La pianta, molto utilizzata in ambito omeopatico, è particolarmente indicata negli stati depressivi, ed utile anche in caso di insonnia, problemi gastrici, catarro, febbre e cistite.

Pulsatilla è ricchissima di anemonina, alcaloide responsabile della colorazione gialla dell'estratto essenziale. Il liquido caratterizzato da anemonina  è estremamente volatile, bruciante ed assai irritante per le mucose oculari e nasali: è proprio questa molecola ad attribuire a pulsatilla le proprietà antispasmodiche e a renderla perciò utile nel trattamento di spasmi digestivi, tosse spasmodica e dolori genitali femminili.
Pulsatilla è utile per alleggerire emicrania e nevralgie: le virtù antiemicranica ed antinevralgica sembrano essere direttamente correlate all'azione dell'anemonina.
Ma lo straordinario potere di questo marker della pulsatilla va ben oltre: infatti, sembra essere un eccellente analgesico naturale per i dolori mestruali. Più in particolare, la pulsatilla crea analgesia in caso di dismenorrea dovuta ad annessite ed ovarite. Particolare attenzione dev'essere posta in caso di dolori mestruali associati ad ipermenorrea: infatti, la cura con pulsatilla tende a far aumentare il flusso mestruale, ed in simili frangenti ne è perciò sconsigliata l'assunzione.
Anche l'uomo può trarre vantaggio da pulsatilla: i disturbi causati da orchite, orchi-epididimite ed uretrite sembrano affievolirsi in seguito all'assunzione omeopatica di pulsatilla.
In passato, era abitudine sfruttare le virtù medicamentose della pulsatilla anche per trattare il catarro (proprietà espettorante) e per alleggerire stati d'ansia ed irrequietezza (virtù sedativa).

Nonostante l'anemonina sia la principale responsabile delle virtù terapiche della pulsatilla, anche la protoanemonina dev'essere citata: quest'ultima molecola veniva sfruttata per le capacità antibatteriche, antimicotiche e vescicanti. Proprio per questo motivo, è doveroso porre molta attenzione nell'utilizzo della pianta. L'estratto di pulsatilla è altamente irritante: a tal proposito, dev'essere accuratamente diluito per la somministrazione orale, così come per l'applicazione topica.
Effetti indesiderati della pulsatilla

Sinora abbiamo elencato ed analizzato gli aspetti  terapeutici associati a pulsatilla, tralasciando quelli tossici o comunque pericolosi. Come accennato nell'introduzione, la pianta dai bellissimi fiori lillà, cela aspetti pericolosi, talvolta gravi.
Dosi eccessive di estratto di pulsatilla possono generare vomito, diarrea, gastroenteriti, ematuria (sangue nelle urine) ed albuminuria (elevata concentrazione di albumine nelle urine). Superando il dosaggio prescritto, l'assunzione di pulsatilla potrebbe generare disturbi ancor più gravi, sino a creare situazioni allarmanti, deficit cardiaci e disordini respiratori.
In gravidanza l'assunzione di pulsatilla è vietata per il possibile effetto teratogeno: in animali da pascolo, infatti, sono stati osservati aborti ed effetti teratogeni in seguito all'assunzione di piante con protoanemonina, tra cui pulsatilla.

Nel linguaggio dei fiori la Pulsatilla significa "attenzione e moderazione".
La peluria argentea della pianta è in grado di creare in cuscinetto d'aria che agisce come isolante.
Una leggenda Aostana racconta che i pastori per difendersi dai lupi seminarono intorno al villaggio una pianta cospargendo i semi di peluria, ne nacque una pianta particolarmente pelosa che spaventò i lupi che da allora lasciarono in pace gli animali domestici.


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IL CANAPINO

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L'origine del nome deriva dalla particolare abitudine di preferire per la sua nidificazione i campi di canapa.

Il Canapino comune è un passeriforme di piccole dimensioni, con una lunghezza compresa tra i 12,5 e i 13,2 cm e un’apertura alare di circa 19-20 cm. Il maschio e la femmina sono indistinguibili e hanno una colorazione prevalentemente grigio verde nelle parti superiori e giallo tenue in quelle inferiori. Il becco è arancio, tendente al nerastro nella parte superiore e le zampe sono marrone-grigio.
Migratore a lungo raggio, il Canapino comune sverna nelle savane a Nord della foresta pluviale in Africa occidentale, dal Gambia alla Sierra Leone fino alla Nigeria e al Camerun. Benché possa raggiungere i 1100 metri di altitudine, in genere la specie preferisce sostare sui rilievi collinari e in pianura.
In Italia è diffuso in tutta la penisola e all’isola d’Elba, ma è assente dalle grandi isole. La  distribuzione risulta piuttosto continua lungo la dorsale appenninica e il versante tirrenico. Nelle aree pianeggianti e sul versante orientale risulta invece più frammentata. In Lombardia è infatti distribuito in modo sparso in pianura e nei fondivalle, ma è meno comune nel settore orientale; è piuttosto abbondante nell’Oltrepò pavese.

Ha volo sfarfallante e canto lungo, gorgogliato, ricco di imitazioni e cicalecci. Si nutre di insetti, larve e, in autunno, di frutti e bacche. Il canapino maggiore (Hippolais icterina) nidifica in Eurasia e capita regolarmente in Italia durante le migrazioni; il canapino pallido (Hippolais pallida) è presente nell’Europa meridionale, e infine il canapino levantino (Hippolais olivetorum) vive nei Paesi Balcanici.

E' un animale molto vivace, sempre in movimento, talvolta litigioso con gli stessi compagni. Apprezza gli ambienti di folta vegetazione sia coltivi, sia spontanei, in ogni modo non distanti dall'acqua. Condizione importante è l'abbondante presenza di insetti.

Il canto è melodioso, vario e prolungato.


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IL LUI' PICCOLO



È un passeraceo lungo appena 11 cm. Il suo peso ammonta a circa 8 grammi. Il piumaggio è color olivastro, le sue zampe sono scure. La striscia sugli occhi non è così marcata come nei suoi parenti.

Nella maggior parte delle lingue europee non neolatine il luì piccolo prende nome dall'imitazione onomatopeica del suo verso. Il suo richiamo, ripetuto frequentemente, suona più o meno come "cif-ciaf-cif-cif-cif-ciaf".

In natura è difficile da scoprire a causa del suo aspetto esterno che ben si mimetizza con l'ambiente. Inoltre si trattiene per lo più nei cespugli e negli alberi, nei quali svolazza o saltella quasi senza sosta.

Il periodo di cova va da aprile a giugno. Il luì piccolo depone le sue due covate in un nido preparato a raso terra con foglie, muschio e erba. La covata consta di 5 o 6 uova bianche con pochi puntolini neri e rossi. La durata della covata dura circa 13 giorni.

Fa parte degli uccelli estivi e sverna nei territori mediterranei, raramente anche in Nordafrica. In Italia, così come in gran parte d'Europa, non sverna, anche se, negli ultimi anni, sono stati osservati (esclusivamente in alcune zone della Sicilia meridionale) individui a dicembre che lasciano pensare ad uno svernamento irregolare.

Di solito nidifica in giardini, boschi ricchi di sottosuolo e siepi.

Il Luì piccolo si nutre di ragni, piccoli insetti, larve e crisalidi. Di solito nidifica in boschi ricchi di sottosuolo, siepi, radure e formazioni arbustive. Durante l’inverno frequenta anche giardini, frutteti e zone umide. Specie dalla valenza ecologica particolarmente ampia, lo si ritrova alle altitudini più diverse, fino al limite della vegetazione arborea, purché siano presenti alberi e sottobosco vario e abbondante.
Il periodo di cova va da aprile a giugno. Ogni coppia depone di solito fino a due covate, in un nido preparato vicinissimo al suolo con foglie, muschio ed erba. Ogni covata conta in media 5-6 uova, bianche e finemente punteggiate di nero e rosso. L’incubazione dura di solito 13 giorni e ad occuparsi della cova sono, solitamente, entrambi i genitori. Dopo 20-25 giorni dalla schiusa i pulcini lasciano il nido e sono in grado di volare e nutrirsi autonomamente.

Suo ambiente preferito a livello riproduttivo è il bosco, più in generale, quello di faggeta. È sempre in movimento, motivo per cui non è molto agevole da osservare o fotografare, ed è facile confonderlo con altre specie tipiche di questi ambienti, su tutte le cannaiole e i canapini. Per nulla gregario, il Luì piccolo è una specie particolarmente schiva e, spesso, non emette alcun suono. Quando rompe il silenzio, risuona nell’aria umida di palude un flebile richiamo.



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L' ORCHIDEA PURPUREA

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L'Orchidea purpurea o Orchidea maggiore (Orchis purpurea Huds., 1762) è una pianta appartenente alla famiglia delle Orchidacee. Tra le orchidee selvatiche in Italia è decisamente quella con il fiore più grande, da cui il nome comune italiano.

Si trova in tutti i paesi del bacino del Mediterraneo e dell'Atlantico occidentale, dalla penisola iberica sino all'Asia Minore.
In Italia è diffusa in quasi tutto il territorio nazionale, con l'eccezione della Valle d'Aosta e della Sicilia; dubbia la sua presenza in Sardegna.

Si può trovare nei querceti, nelle scarpate, nei prati, con terreno calcareo, alla luce piena del sole o in mezz'ombra, da 0 a 1350 m di altitudine.

È una pianta erbacea, con fusto cilindrico, di colore verde, macchiato di rosso alla sommità, alto da 30 sino a 80 cm.
L'apparato radicale è costituito da due rizotuberi ovoidali.
Le foglie, spesse e lucide, oblungo-lanceolate, sono lunghe sino a 8–10 cm e sono riunite a formare una rosetta che inguaina il fusto alla base.
L'infiorescenza è costituita da una spiga densa lunga 5–15 cm, inizialmente conica, poi ovoidale. I fiori sono di colore dal bianco al rosso porpora, con sepali e petali bruno purpurei uniti a formare una sorta di elmo globoso. Il labello è bianco rosato, macchiato di porpora, ben diviso in tre lobi distinti di cui quello mediano, più grande, è a sua volta bilobo con al centro una appendice di lunghezza variabile. Nell'insieme assume sembianze grossolanamente antropomorfe. Lo sperone è arcuato in basso. Il ginostemio è ottuso, l'antera è porporina, le masse polliniche verdastre.

Fiorisce da aprile a giugno.


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L' IRIS GRAMINEA

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L' iris graminea è una graziosa pianta dalla fioritura profumata e dalle foglie simili a fili d'erba. I tepali esterni sono di colore bianco screziato mentre quelli interni sono viola. Fiorisce nelle radure dei monti tra maggio e giugno.

Pianta erbacea perenne, glabra, rizomatosa, le foglie sono lineari e piatte, che superano la lunghezza del fusto che è schiacciato, portante 2 fiori di colore viola-blu, profumati, le lacinie sono biancastre con striature violacee e unghia gialla, quelle interne di colore viola, sono diritte, lo stilo è diviso è diviso in 2 parti longitudinalmente, il frutto è una capsula acuminata contenente i semi. Fiorisce da maggio a giugno, da 0 a 1200 m s.l.m., in bordi boschivi, prati incolti montani. Presente in Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Lazio.


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LA VITALBA

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La clematide (Clematis vitalba L.) è una pianta arbustiva delle Ranunculaceae a distribuzione oloartica nota anche col nome comune di vitalba che deriva da vite alba (vite bianca). In Italia è presente su tutto il territorio sino a circa 1300 m in incolti, boschi di latifoglie, macchie temperate.

Mostra un comportamento rampicante (la sua forma biologica secondo Raunkiaer è P lian - fanerofite lianose) con fusti ramificati, che si allunga anche oltre i 20 metri sugli alberi, sviluppando alla base tronchi legnosi anche piuttosto grossi. Il profumo, quasi impercettibile, è vagamente simile a quello del biancospino. Fiorisce tra maggio ed agosto a seconda della quota.

È una pianta velenosa per la presenza di alcaloidi e saponine (in particolare la protoanemonina), sostanze presenti anche in altri generi della famiglia, che si accumula soprattutto negli organi più vecchi. Può provocare irritazioni cutanee al contatto.

È considerata una pianta infestante del bosco. Infatti, specialmente in associazione con i rovi, la vitalba crea dei veri e propri grovigli inestricabili a danno della vegetazione arborea che viene letteralmente aggredita e soffocata. Tali presenze sono infatti quasi sempre l'espressione di un degrado boschivo.

Suffrutice perenne, lianoso, volubili, fascicolati, lunghi fino a 15 m, e rami giovani erbacei, angolosi. Le foglie sono caduche, composte, imparipennate, con 3-5 foglioline ovali-lanceolate, lunghe fino a 6 cm, a margine talora dentato o lobato. I fiori, in pannocchie ascellari, sono bianco-verdastri, con petali ellittici, numerosi stami ed ovario formato da numerosi carpelli liberi, provvisti di un lungo stilo piumoso, persistente sul frutto. In autunno, i carpelli maturano in acheni fusiformi aggregati (poliachenio), piuttosto appariscenti e caratteristici per le lunghe appendici piumose ed argentee che li sormontano, originatesi per modificazione dello stilo persistente.

I giovani getti della Vitalba sono conosciuti e consumati come verdura in tutta l’Italia.

Come molte altre specie della famiglia Ranunculaceae, la Vitalba contiene, soprattutto nelle foglie, diversi principi tossici ed irritanti, quali l’alcaloide clematina, diverse saponine, glucosidi, resine. Tuttavia, nelle porzioni eduli, ovvero nei getti ancora giovani, tali sostanze sono presenti in quantità poco rilevanti; per di più, esse perdono gran parte della loro tossicità denaturandosi al calore. Si consiglia, pertanto, di sbollentare i teneri germogli prima di consumarli, anche se, talora, essi vengono mangiati direttamente saltati in padella o persino crudi in insalata. E’, comunque, preferibile non eccedere nel consumo. Nelle località in cui la pianta è apprezzata come erbaggio, i getti della Vitalba si cucinano lessi, soffritti in padella come gli asparagi oppure come ingrediente nelle frittate. Hanno un sapore che varia tra l`amarognolo e il saligno.

In passato le liane di Vitalba venissero adoperate come corde per le campane delle chiesette rurali in sostituzione di quelle di canapa, più pregiate e costose. I tralci di questa pianta venivano utilizzati, e forse lo sono tuttora, per intrecciare cesti, panieri e altri oggetti . Il succo ricco di sostanze irritanti, contenuto nelle porzioni mature della Vitalba, trovava in passato un singolare impiego, però assolutamente sconosciuto nel territorio in esame: i mendicanti si procuravano con esso ulcerazioni sul dorso delle mani allo scopo di impietosire i passanti. Tale succo, infatti, avendo proprietà revulsive, provoca la comparsa di vesciche e piaghe

Dalla vitalba si possono ottenere cordoni lunghi e regolari, ottimi per gli intrecci. E’ un materiale da cesteria facilmente reperibile, con il grande pregio della lunghezza e della regolarità.

La raccolta delle liane di vitalba può essere effettuata nel periodo invernale, quando ha perso le foglie ed il ciclo vegetativo è fermo.
Se viene raccolta in un altro periodo dell'anno, quando ha ancora le foglie, è bene evitare di raccogliere le liane nuove, verdi e fragili, ma scegliere le liane che abbiano almeno un anno (più legnose, da cui partono i butti nuovi).

La vitalba presenta una parte esterna legnosa e rigida ed una parte interna più morbida e flessibile. Perché sia un materiale intrecciabile bisogna rimuovere la parte esterna. Se la liana ha un anno, questa operazione si esegue facilmente facendo leva con il dito nella parte centrale a due nodi della liana, spaccando la parte rigida e rimuovendola, e pulendo i nodi anche con l'aiuto di un coltello. Se le liane sono più vecchie, è necessario bollirle per poi poterle spelare agevolmente dalla parte esterna.
Si ottengono lunghi cordoni, da arrotolare su se stessi e mettere a seccare, in un luogo asciutto ed areato.
Si può anche mettere a seccare la liana prima di ripulirla dalla parte esterna, e successivamente farla bollire e sbucciare.

Le liane arrotolate e secche devono essere ammollate affinché tornino flessibili ed utilizzabili. Acqua calda o bollente accelera il processo.
Sia che si utilizzi materiale ammollato o direttamente fresco (raccolto, pulito e utilizzato subito) bisogna ricordare che, benché molto flessibile, la vitalba non permette pieghe complete a 180°. Inoltre i nodi sono i punti più delicati, da maneggiare dunque con attenzione.

L'impiego terapeutico della pianta è attualmente desueto, poichè i suoi costituenti principali: saponine ed alcaloidi, di cui anemonina e protoanemonina, risultano caustici ed irritanti.
In passato le foglie fresche, ridotte in poltiglia, usate come cataplasmi erano un revulsivo energico contro artriti, sciatiche e gotta, ma così applicate producevano azione rubefacente e vescicatoria, provocando di conseguenza ulcere fastidiose.
Alcuni mendicanti usavano le foglie per procurarsi ulcerazioni ed impietosire maggiormente i passanti, onde il nome popolare di "erba dei cenciosi".
L'infuso di foglie essicate veniva usato quale ottimo diuretico, mentre i giovani germogli, cotti e lasciati in infusione avevano azione purgativa.
Per la cura della scabbia si usava anticamente l'olio ricavato dalla macerazione delle foglie. Sia Plinio che Dioscoride segnalavano la pianta per risolvere o rimuovere questo problema. L'alcolaturo che si otteneva dalla pianta fresca veniva impiegato come analgesico in casi di nevralgie e nevriti o, come detergente.
I fusti secchi della pianta, essendo porosi, venivano anche usati come sigari, provocando infiammazioni alle mucose della bocca e della gola. Uso praticato nei paesi anglosassoni, dove in alcune regioni veniva denominata smoking cane, canna da fumare o shepherd's delight, delizia dei pastori.

La Clematis vitalba è anche uno dei fiori di Bach, per alleviare i disturbi emotivi. E' il fiore dei sognatori, degli addormentati, di coloro che hanno uno scarso interesse per la vita. E' il fiore per le persone che tendono ad essere altrove con la mente, in fantasie personali, in illusioni su un futuro migliore e scarso interesse per il mondo presente.
Clematis, è il fiore dell'artista, del creativo, dello scrittore e di colui che cerca ispirazione.
Nel linguaggio dei fiori, la vitalba indica l'intelligenza limpida e onesta.
I romani adoravano particolarmente la C. vitalba, che facevano crescere accanto ai muri delle loro abitazioni, perchè la consideravano preservatrice dai temporali.

Nota anche in dialetto piemontese come "visrabbia" per la caratteristica di arrampicarsi con le sue liane sulle piante che "aggredisce" come fa la vite sui sostegni.


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L' EDERA

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Al genere edera appartengono numerose specie di arbusti rampicanti, sempreverdi, diffusi nelle zone temperate dell'emisfero nord; H. helix è una specie molto diffusa in Europa e nelle zone settentrionali dell'Asia. Ha fusti sottili, semilegnosi, flessibili, che divengono legnosi con il passare degli anni; su tutta la lunghezza i fusti dell'edera sviluppano piccole radici, che si ancorano al supporto che sostiene la pianta, sia esso un albero o una parete. Le foglie hanno un lungo picciolo, sondi dimensione varia, a seconda della varietà, in genere lucide ed abbastanza rigide, portate da un lungo picciolo; i colori sono vari, dal verde scuro, al verde chiarissimo, con varietà dalle foglie variegate di giallo o di bianco; sono di forma trilobata o pentalobata, con lobi di forma varia, anche sulla medesima pianta. In genere i fusti fertili, ovvero quelli che producono fiori, presentano foglie scarsamente lobate, o anche ovali. In settembre-ottobre all'apice dei fusti produce infiorescenze sferiche, costituite da piccoli fiori verdi, seguiti da bacche scure. I frutti e le foglie di edera sono tossici se ingeriti, ma vengono utilizzati in erboristeria ed anche in farmacologia.

L'edera comune è molto apprezzata in cosmetica per le sue riconosciute proprietà tonificanti e drenanti. Molte donne usano prodotti a base di edera contro gli inestetismi della cellulite, la ritenzione idrica e i gonfiori; non da meno, la pianta è utilizzata anche in soluzioni per la cura dei capelli e di piccole irritazioni o scottature. Un rinomato e diffuso prodotto cosmetico è l'estratto di edera. La pianta di edera viene spesso utilizzata nel periodo natalizio, particolarmente nel Nord Europa, per decorare a festa l'intero appartamento o, secondo altre tradizioni, il camino di casa.

Ai preparati a base di edera si ascrivono proprietà principalmente antinfiammatorie, ma anche sedative della tosse ed antimicrobiche (dovute alla alfaederina).
Le proprietà secretolitiche ed espettoranti rendono l'edera utile in presenza di tossi convulsive, bronchiti e sindromi catarrali croniche su base infiammatoria.
In letteratura si trovano riferimenti anche a presunte attività antireumatiche, antalgiche, antibatteriche, antielmintiche, antiedemigene e revulsive su cute e mucose.
In cosmesi, gli estratti di edera trovano impiego all'interno di formulazioni detergenti dermopurificanti, ma anche nei prodotti anticellulite.

Pare, inoltre, che il decotto di foglie di edera fosse usato nelle zone rurali per lavare gli indumenti di lana.

L’edera è una delle più note e diffuse piante verdi presenti in balconi e giardini.

Essa, non temendo particolarmente il freddo, riesce a sopportare anche temperature molto rigide; di contro, teme il caldo pertanto non ama ricevere luce diretta.

Sarebbe quindi indicato porla a dimora in luogo ombreggiato o semi ombreggiato, al riparo dalla luce per gran parte della giornata.

Alcune varietà, con foglie piccole o a crescita lenta, possono essere utilizzate senza problemi anche come piante da appartamento.

Occorre annaffiare regolarmte l'edera, mantenendo il terreno leggermente umido, mai troppo pieno d'acqua anzi, proprio per evitare ristagni idrici, sarebbe indicato l’uso di terriccio ben drenato.

Di contro, essa riesce a sopportare anche lunghi periodi di siccità. In primavera ed estate ricordiamo di aggiungere del concime a base di azoto per renderla ancor più rigogliosa.


Da fine febbraio ad inizio marzo, le foglie bruciate dal freddo vanno necessariamente tagliate per evitare che la pianta rallenti la sua crescita;
per il resto, l’edera non necessita di frequenti potature se non per fare in modo che luce e pioggia riescano a passare attraverso il fogliame.

Pur essendo molto resistente, l’edera può essere attaccata dagli acari e dalla cocciniglia, soprattutto se la pianta si trova in un appartamento.

Un’altra causa di deperimento della pianta può essere l’eccessiva annaffiatura o la presenza di ristagni idrici nel terreno o nei vasi.

Per quel che riguarda i muri, occorre ricordarsi che essa riesce ad aggrapparsi sulle superfici umide con maggiore facilità.

Quanto agli alberi, bisogna fare attenzione a non scegliere alberi giovani, poiché ancora privi della forza necessaria a sorreggerne il peso, né piante morte, che rischierebbero di cadere a causa del pesante carico.

Una delle tante leggende racconta che l'edera comparve subito dopo la nascita del dio Dionisio per proteggerlo dal fuoco che bruciava il corpo della madre in seguito ad un fulmine lanciato da Zeus. Per questo motivo i tebani avevano consacrato questa pianta a Dioniso e la chiamavano "perikiosos = avvolgitore di colonne".

Al di là dei vari miti che si narrano su questa pianta, è interessante chiedersi come mai l'edera sia stata associata alla vite, l'altra pianta sacra al dio Dioniso. Una spiegazione la fornisce W. F. Otto (storico delle religioni e filologo) affermando che mentre la vite durante la stagione invernale giace come morta per rinascere con la primavera e l'estate dando il suo "succo infuocato", l'edera fiorisce in autunno dando i fiori in primavera. Inoltre mentre la vite ha bisogno di luce e calore, l'edera di ombra e di freddo per germogliare e fruttificare.

Tutto questo per rappresentare il dualismo di Dioniso: luce ed oscurità, freddo e calore, vita e morte.

Dioniso però era anche il dio dell'innocenza e della spensieratezza e all'edera, con la quale si cingeva il capo ed avvolgeva il suo bastone, veniva anche dato il significato di innocenza e innocuità. Da questo probabilmente è derivata l'usanza di appendere o rappresentare le osterie con un tralcio di edera a rappresentare l'innocenza e  la non dannosità del vino.

Dioniso era considerato anche il dio del trasporto amoroso oltre che mistico per cui l'edera bene lo rappresenta. Infatti nel vocabolario amoroso l'edera rappresenta la passione che spinge gli amati ad avvolgersi l'uno all'altra come fa l'edera sui tronchi degli alberi. In India infatti questa pianta è considerata il simbolo della concupiscenza.

Questa lettura si lega a quella che vuole l’edera come simbolo dell’innocenza: sempre nell’ottica di questa contrapposizione l’edera rappresenterebbe l’innocenza in opposizione al peccato della vite e del vino. Questo significato alternativo della pianta è comunque legato alla figura di Dionisio: la divinità, infatti, rappresentava nell’antichità anche l'innocenza e la spensieratezza e, cingendosi il capo di edera, conferiva alla pianta il significato di innocenza e innocuità.
Alcune tradizioni assegnano un ulteriore significato all'edera, significato comunque non in contrapposizione ai precedenti: per la sua caratteristica di aggrovigliarsi in modo deciso, quasi indissolubile, l’edera è considerata simbolo di fedeltà: per questo gli sposi, talvolta, ne portavano al collo ghirlande intrecciate.

Un'altra credenza legata all'edera, nei paesi dell'Europa centrale e meridionale, è quella di usarla nei periodi natalizi assieme all'agrifoglio per adornare l'uscio delle case ed i camini per tenere lontani i folletti che durante tale periodo amavano fare scherzi.



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domenica 29 marzo 2015

IL PUNGITOPO

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Il Pungitopo o Ruscolo pungitopo (Ruscus aculeatus) è un piccolo arbusto sempreverde, dioico, alto sino a 80 cm, molto comune nell’area mediterranea.

Il nome “pungitopo” deriva dall’antico uso delle foglie acuminate di questa pianta che venivano poste attorno ai formaggi o ad altre derrate alimentari per difenderli dai roditori.

Il pungitopo, il cui nome scientifico è Ruscus aculeatus, appartiene alla famiglia delle Liliaceae ed è una pianta originaria del bacino del Mediterraneo ma la ritroviamo dall'Europa centrale, al nord Africa e al sud ovest dell'Asia fino ad un'altitudine di 1200 m.

E' una pianta sempreverde, caratterizzata da numerose spine e forma dei cespugli molto intricati.

Il Ruscus aculeatus è provvisto di un rizoma strisciante dal quale si sviluppano sia le radici avventizie legnose che i fusti (turioni) che assumo portamento eretto e rigido, alti anche 1m, di colore verde molto scuro.

Da questo fusto si formano dei fusti secondari che prendono il nome di cladodi disposti in modo alternato, appiattiti (in pratica sono quelli che normalmente confondiamo con le foglie). Questi cladodi sono molto importanti nella fisiologia della pianta in quanto sono preposti allo svolgimento della fotosintesi clorofilliana perchè le vere foglie  non sono visibili nella parte aerea della pianta in quanto sono delle piccole squame che avvolgono la parte sotterranea del fusto e sono di colore rossastro-bianco nella pagina inferiore.

Il pungitopo è una pianta dioica vale a dire che esistono piante che portano solo fiori femminili e piante che portano solo fiori maschili.

I fiori femminili sono solitari, privi di picciolo  e sono inserito al centro della pagina inferiore dei cladodi all'ascella di una piccola foglia verde o bianca e portano 6 tepali divisi a gruppi di tre (tre interni più corti e 3 esterni più lunghi). Di solito compaiono a partire dal mese di febbraio e fino a giugno ed in autunno.

I fiori maschili  sono provvisti di picciolo e formati da sei stami uniti a due a due.

Il frutto del pungitopo è una bacca di colore rosso vivo e contiene 1-2 semi.

I principi attivi del pungitopo (Ruscus aculeatus) sono:  oli essenziali quali canfora, acetato di linalile, acetato di bornile, linalolo, anetolo e resine. Contengono inoltre diversi sali minerali quali calcio e nitrato di potassio;  fitosteroli quali la ruscogenina, neuroscogenina, ruscina ed altri; diversi flavonoidi; zuccheri; acidi grassi ed acidi organici.

Le sue proprietà sono legate principalmente ai fitosteroli che conferiscono al pungitopo proprietà diuretiche con l'eliminazione dei cloruri, sedativo ed antinfiammatorio delle vie urinarie, ha effetti benefici nei confronti dei calcoli renali, cistiti, gotta, artrite e reumatismi non articolari.

Il pungitopo è utile anche nella terapia delle vene varicose con un'azione vasocostrittore esercitata soprattutto a livello dei capillari (è infatti il più potente vasocostrittore naturale che si conosca). Ha un'azione antinfiammatoria che agisce diminuendo la fragilità capillare, aumentando il tono della parete venosa favorendo quindi la circolazione del sangue che si traduce in diminuzione della pesantezza e del gonfiore delle gambe.

Esplica anche un effetto benefico nei confronti delle emorroidi e delle flebiti.

Il pungitopo dalla vecchia farmacopea è considerato un diaforetico entra infatti nella "composizione delle cinque radici"  assieme al finocchio, asparago, prezzemolo e sedano.

Del pungitopo si utilizza il rizoma che va raccolto in autunno o all'inzio della primavera, prima della comparsa dei turioni. Va ripulito dalla terra e quindi tagliato e fatto essicare al sole o in stufa e conservato in sacchetti di carta.

Possono essere usati anche i turioni del pungitopo in quanto contengono gli stessi principi attivi.

Il rizoma o i turioni essiccati possono essere utilizzati per uso interno come tintura da bere per le infezioni delle vie urinarie; come decotto contro le emorroidi, varici, flebiti e come diuretico.

Per uso esterno è usato per le gambe gonfie e per le emorroidi facendo dei lavaggi, bagni, pediluvi o impacchi con garze imbevute di decotto.

L'estratto secco viene usato per l'igiene intima e come anticellulite e per tutti i trattamenti contro le pelli sensibili ed infiammate. E' ottimo anche come dopobarba. Si possono anche usare le creme a base di pungitopo in caso di couperosa e rossori permanenti.

Gli antichi romani usavano il pungitopo (Ruscus aculeatus) come talismano perchè credevano che piantandolo intorno alla casa allontanasse i malefici.

Le proprietà del pungitopo erano note fin dall'antichità. Ne parlava Plinio dicendo che il decotto di radici con il vino veniva usato per le infezioni renali. Anche Dioscoride dava le stesse indicazioni solo che consigliava di far macerare foglie e bacche nel vino contro la flogosi renale.

Nel medioevo si usava la "Pozione delle cinque radici", usata tutt'ora assieme la prezzemolo, al finocchio, al sedano e all'asparago come diuretica.

Il Pungitopo è una potente pianta medicinale.

I principi attivi presenti nelle piante di Pungitopo sono: oli essenziali quali canfora, acetato di linalile, acetato di bornile, linalolo, anetolo e resine. Contengono inoltre diversi sali minerali quali calcio e nitrato di potassio;  fitosteroli quali la ruscogenina, neuroscogenina, ruscina ed altri; diversi flavonoidi; zuccheri; acidi grassi ed acidi organici.
Le sue proprietà sono legate principalmente ai fitosteroli che conferiscono al pungitopo proprietà diuretiche con l’eliminazione dei cloruri, sedativo ed antinfiammatorio delle vie urinarie, ha effetti benefici nei confronti dei calcoli renali, cistiti, gotta, artrite e reumatismi non articolari.

Il pungitopo è il più potente vasocostrittore naturale che si conosca, utile nella terapia delle vene varicose con un’azione vasocostrittore esercitata soprattutto a livello dei capillare. Esplica un’azione antinfiammatoria che agisce diminuendo la fragilità capillare, aumentando il tono della parete venosa favorendo quindi la circolazione del sangue che si traduce in diminuzione della pesantezza e del gonfiore delle gambe.
Esplica anche un effetto benefico nei confronti delle emorroidi e delle flebiti.

A Primavera, da marzo a maggio, spuntano i nuovi getti del pungitopo (i turioni), che nel dialetto dell’Alto Vastese, sono chiamati “Vriscare”, come detto sopra.

I giovani getti vengono assiduamente ricercati dagli intenditori per essere consumati, previa cottura, o conservati sott’olio o sott’aceto, come gli asparagi. Il sapore è simile a quello degli asparagi ma più amaro per tale ragione spesso vengono cotti in abbondante acqua e aceto per attenuare un pò l’amaro e poi preparato in conserve. Sono veramente squisiti come antipasto o per accompagnare carni, uova, in frittate, risotti e anche con i gamberetti.

La raccolta dei turioni di pungitopo va effettuata quando sono ancora tenerissimi. Taluni li raccolgono praticamente quando sono ancora sotto terra sono biancastri o violacei, quando appena spuntati. Passata questa fase, assumono una consistenza legnosa e diventano amarissimi.

Poichè in molte regioni è considerato simbolo di buon augurio, specialmente durante il periodo natalizio, la sua raccolta indiscriminata ha fatto si che sia diventata una specie protetta in molte regioni italiane. Pertanto prima di raccoglierlo, accertatevi di poterlo fare.

Il pungitopo fin dai tempi degli antichi romani era considerato un talismano e per questo motivo si portavano i suoi ramoscelli durante i saturnali, vale a dire nei giorni che precedevano il solstizio d'inverno. Affermavano che avere il pungitopo nelle vicinanze della propria casa, tenesse lontano i malefici.

Questo aspetto si pensa sia legato al fatto che il pungitopo con le sue foglie aguzze, coriacee e pungenti rappresentasse quasi una difesa. Il fatto poi del suo aspetto imponente con il suo colore verde intenso e lucido, i fusti diritti e rigidi, sempreverde, evocava la durata, la sopravvivenza, la prosperità.

I frutti rossi e globosi del pungitopo, presenti tutto l'inverno evocavano la rinascita del sole al solstizio ad augurare un anno nuovo.

Quindi il pungitopo ha un significato più che positivo.

Gli antichi popoli Germanici lo utilizzavano per onorare gli spiriti dei boschi e nelle loro case avevano sempre dei rami di pungitopo. Anche per i popoli Latini erano un importante simbolo di augurio ed infatti si scambiavano rami di pungitopo durante le celebrazioni come buon auspicio. Per i Cristiani erano un simbolo di fertilità ed abbondanza. Da queste antiche tradizioni deriva l’utilizzo del pungitopo nelle feste natalizie, proprio per augurare felicità nell’anno nuovo.

La pianta secca, legata ad una pertica, è usata in alcune regioni per ripulire i camini, come avviene con l’asparago pungente o come scopa rudimentale.


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IL NESPOLO

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Il Nespolo (Mespilus germanica L.) e' originario, secondo recenti studi, dell'areale caucasico, ma anche con primi nuclei di diffusione in Iran, in Turchia fino alla Grecia. Oggi e' diffuso in tutta Europa come pianta spontanea nei boschi di latifoglie o come rinselvatichita negli incolti.
Appartiene alla Famiglia delle Rosaceae.
Molto resistente al freddo invernale, si spinge fino ai mille metri di quota. La sua diffusione fu favorita moltissimo dai romani e prese a tal punto piede in Germania che al momento di classificarla Linneo, sospettandone una sua origine in quest'area, lo chiamo' Mespilus germanica.
Albero di modeste dimensioni, raggiunge al massimo i cinque metri d'altezza, ma solitamente ha uno sviluppo ben piu' modesto.
Il portamento e' irregolare, con una certa tendenza dei rami a ricadere nei soggetti invecchiati. Nei soggetti selvatici i giovani rami possono essere spinosi. La corteccia dei rami da marrone scuro diventa chiara e poi, come sul tronco, grigia. Le foglie, grandi, hanno margine intero e sono dentellate solo all'apice. Hanno forma ovale, picciolo molto corto, e sono piu' frequenti nella parte distale dei rami. Inizialmente opache per la presenza di una leggera peluria che resta solo sulla pagina inferiore, divengono in autunno di uno splendido colore ramato.
I fiori, a maggio, si aprono al vertice dei rametti fruttiferi, sono grandi e isolati, di colore bianco con cinque petali e portano entrambe i sessi. Pianta autofertile, il Nespolo ha un'elevata percentuale di allegagione. Il frutto, la nespola, e' un falso frutto dato dall'ingrossamento del ricettacolo attorno ai frutti veri e propri. Di forma riconoscibilissima, tondeggiante, con un'ampia depressione apicale, coronata da residui del calice, ha un corto peduncolo e una resistente buccia che per grana, colore e consistenza ricorda il cuoio. Si semi sono in numero di cinque, duri e legnosi.

Le piante nate da seme crescono molto lentamente e fruttificano al sesto o al settimo anno di vita. La germinabilita' del seme lascia spesso a desiderare ed e' consigliabile impiegare i semi di nespole non lasciate ammezzire, ma giunte a maturazione completa sul ramo. L'impiego di piante innestate riduce i tempi d'attesa per la fruttificazione. I nespoli possono essere innestati su piante diverse: pero, biancospino, sorbo, cotogno, azzeruolo. Il piu' rustico e indifferente al tipo di terreno e' il biancospino, mentre il cotogno teme i terreni calcarei. Pero e sorbo daranno piante di maggiori dimensioni. I nespoli coltivati danno frutti di pezzatura maggiore e tasso di tannino piu' basso rispetto a quelli spontanei.

Per l'alto contenuto in tannini i frutti non possono essere consumati alla raccolta. Necessitano di ammezzimento, una fermentazione di maturazione ottenuta deponendo i frutti all'interno di cassette di legno, ricoperte di paglia e poste in un locale fresco. I frutti devono essere consumati a mano a mano che sono pronti perche' il processo di fermentazione non si arresta e i frutti possono rapidamente degradarsi. In seguito all'ammezzimento la polpa diventa bruna, molle, zuccherina, di consistenza pastosa, leggermente acidulo e gradevole. Vengono consumati per dessert.
Con la trasformazione si ottengono: marmellate, gelatine, salse e varie preparazioni culinarie.
Vengono usati inoltre per la produzione di bevande alcoliche, quali brandy, liquori, schnaps.
I frutti immaturi sono stati anche utilizzati per chiarificare vino e sidro.
Rustica, resistente e molto bella, e' apprezzata come pianta ornamentale.
Con il tannino della corteccia, delle foglie e dei frutti immaturi si effettua la concia delle pelli. Il legno, di color bruno-giallognolo, e' molto duro e viene utilizzato per lavori al tornio; fornisce inoltre un ottimo carbone.

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