mercoledì 25 maggio 2016

PONTE TIBETANO

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Il ponte tibetano è una struttura di collegamento costituita da una fune che ha funzione di marciapiede e da due funi/mancorrenti laterali superiori distanziate di circa un metro da quella marciapiede.

Le tre funi, poste a triangolo, sono solidarizzate da stralli laterali distanziati l'uno dall'altro da 50 a 100 cm. In una tale struttura l'oscillazione è inversamente proporzionale al carico di tensione: più tese sono le funi, più stabile è il ponte, in quanto si riducono le oscillazioni laterali, in particolar modo nella sezione centrale.



Secondo il libro del Guinness dei primati il ponte tibetano più lungo del mondo sarebbe quello costruito tra il promontorio di Santa Margherita a Procida e l'isolotto di Vivara. Il ponte, lungo 362 metri, fu realizzato tra il 2 e il 10 luglio 2001 utilizzando 40 tubi Innocenti, 40 morsetti, 34 picchetti di un metro e mezzo, 2.500 metri di corda, 500 m di cavi d'acciaio, 1 trivella e 1 verricello. Tuttavia il Ponte tibetano Cesana Claviere risulta ancora più lungo (pubblicizzato come il più lungo del mondo) è stato costruito fra i comuni di Cesana Torinese e Claviere. La struttura è composta da un primo tratto di 70 metri immediatamente seguito da un ponte sospeso della lunghezza di 408 metri. Al quale è stato aggiunto un ulteriore tratto di 90 m per un totale complessivo di 560 m circa.

Se non vi sono problemi attraversare in barca (su cui si poteva far salire un carro) le lente acque di un fiume di pianura, diverso è passare da una riva all’altra di un impetuoso torrente di montagna o raggiungere il versante opposto di uno stretto e profondo canyon. Per questo nelle alte vallate andine e nel Tibet vennero ideati, in modo indipendente, i ponti sospesi in corda, inadatti per il passaggio di carri (in America prima di Colombo la ruota non era conosciuta), ma perfetti per queste regioni dove le merci erano trasportate a mano o a dorso di animale: nelle vallate himalaiane con gli yak, sulle Ande con i lama (La Repubblica – viaggi).
I ponti di corda potevano essere semplicissimi, formati da solo tre corde (o liane) tese e collegate da traverse (il caratteristico ponte tibetano), o più complessi con un pianale dove potevano camminare gli animali.



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venerdì 20 maggio 2016

L'AMACA

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L'amaca è una forma primordiale di giaciglio utilizzata per dormire e riposarsi.

È solitamente costituita di un panno o di una rete di corda o cordicella tenuta sospesa fra due ancoraggi. Ne esistono di diversi tipi e dimensioni, costruita con diversi materiali, alcuni tipi prevedono dei supporti di legno come distanziatori.

Nel nordest del Brasile, nei paesi caraibici e nelle regioni tropicali sudamericane in generale la vita senza amaca è impensabile. Un fatto che quasi nessuno sa, è che Colombo non solo scoprì l'America, ma anche l'amaca. uso quotidiano molto amato da bambini, coppie, famiglie, viaggiatori e terapeuti. La usa funzione principale sono il relax ed il benessere, ma oltre a questo ci sono altri fattori pratici che fanno onore all'amaca: è poco ingombrante ed è utilizzabile in diversi modi, visto che si monta e smonta in pochi secondi.

Gli Indio la sapevano apprezzare da sempre, tanto che la chiamarono “la culla degli Dei”. Le prime amache furono fatte della corteccia del albero Hamack, ed è ovvio da dove l'amaca abbia preso il suo nome.



Colombo scoprì l'amaca sulle Bahamas, dove il 17 ottobre 1492, solo cinque giorni dopo il suo arrivo, si rese conto che “la gente dormiva in reti fra gli alberi”, come scrisse nei suoi appunti. Portò l'amaca con sé in Europa, e da allora fu molto usata ed apprezzata soprattutto dai marinai. Invece di dovere dormire sul duro pavimento di ponte, sporco e pieno di parassiti, i marinai potevano rilassarsi nelle loro amache e farsi cullare dolcemente dal dondolio della nave fino ad addormentarsi.



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giovedì 19 maggio 2016

IL LETTO

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Nella preistoria, il letto consisteva in nient'altro che un mucchio di foglie o paglia approssimativamente accumulate in vicinanza di una fonte di calore; in casi particolarmente disagiati, poteva essere utilizzata a quello scopo anche la nuda terra. Ma l'evoluzione culturale, mossasi attraverso la Mesopotamia, l'Egitto e la Grecia, produsse in seguito giacigli formati da tessuti ripieni di una sostanza morbida, come ad esempio la lana, per le persone di stirpe nobiliare; nei paesi mediorientali come in quelli indiani era invece di uso comune per il popolo il dormire su di un tappeto. Nodo nevralgico del progresso nel campo dei letti fu poi, all'epoca di Roma, il triclinium, molto più simile ai mobili moderni ma non progettato esclusivamente per dormire: era infatti utilizzato dalle persone più importanti come senatori o consoli anche in occasione di banchetti o di riunioni. Nel corso del Medioevo, mentre per le casate reali del Nord Europa nascevano il guanciale ed il letto a baldacchino, esclusivamente riempiti di piume d'oca, i ceti inferiori ed in particolare i pastori cominciarono ad utilizzare il materasso di lana; chi non aveva risorse economiche sufficienti ad acquistarlo era costretto a dormire su semplici sacchi pieni di paglia. Quando, dopo la scoperta dell'America, si cominciarono a coltivare le piante di mais, le foglie di tale vegetale sostituirono in vari casi la paglia dei materassi, producendo così un oggetto più comodo ma anche più rumoroso del precedente, a causa dello schiacciamento delle dure fibre che compongono le foglie. Nel corso dei secoli, il letto delle classi superiori divenne alla portata dei ceti medio-bassi, diffondendosi così in tutte le abitazioni; l'ultimo gradino dell'evoluzione fu raggiunto nel Novecento, nel momento in cui i materiali sintetici si sostituirono a quelli naturali da sempre adoperati dall'uomo per garantirsi un buon riposo.

In Italia i letti si classificano comunemente in cinque categorie, a seconda della loro larghezza:

letto a una piazza o letto singolo: largo 80–90 cm, confortevole per una persona sola;
letto a una piazza e mezza o letto da prete: largo 120 cm;
letto a piazza francese: largo 140 cm;
letto a due piazze o letto matrimoniale: largo 160–180 cm;
letto a tre piazze o letto osimano: largo 200-400 cm adatto per tre persone: mamma, papà, bambino piccolo.
Due letti con reti sovrapposte sono detti nel loro complesso letto a castello. Se la rete è una sola, ma sopraelevata rispetto al pavimento in modo da lasciare uno spazio sottostante agibile, allora si parla comunemente di letto a soppalco.

Quanto al divano-letto, esso fu inventato da Bernard Castro, un inventore palermitano naturalizzato statunitense.

La storia dei letti a baldacchino ha origini molto antiche, addirittura medievali, quando con il termine baldacchino si indicavano i drappi di seta importati da Baghdad. L’etimologia del termine deriva infatti dal latino “baldekinus” e fa riferimento alla parola “Baldacco“, nome tedesco della città di Baghdad, antica Babilonia, da cui nell’undicesimo secolo venivano importate stoffe di elevato pregio e valore. In Occidente questi tessuti vennero introdotti prima di tutto nelle repubbliche marinare, dove andarono ad arricchire i tesori delle cattedrali con i nomi di “Baldekino” o di “Baudaquen“.
A partire dal tredicesimo secolo ha iniziato a indicare un drappo, di forma quadrata o rettangolare, sorretto da un telaio che aveva la funzione di rendere onore a oggetti sacri, proteggere i grandi personaggi come sovrani, imperatori, Cardinali, Vescovi, oppure fornire un riparo ai letti dei nobili più esigenti. In realtà i primi esempi di baldacchino inteso nel senso odierno del termine, una struttura di copertura portante abbinata ad un tamponamento, leggero come può essere una stoffa o pesante, di tipo architettonico, sono piuttosto tardi. Per comprendere le origini di questo elemento occorre fare un ampio passo indietro nella storia. Sono diversi gli espedienti da cui si può ritenere che il baldacchino abbia avuto origine: dalle tende dei popoli nomadi, agli ombrelli degli Assiri, alle strutture con quattro colonne elaborate dagli Egiziani, fino alle nicchie a conchiglie greche e le edicole con timpani romane. E’ molto probabile che queste strutture si siano diffuse tra le popolazioni orientali e, tramite queste, siano state trasmesse al cristianesimo, il quale le associò a oggetti sacri e denotati da una tale importanza da necessitare una protezione che una struttura come il baldacchino poteva facilmente offrire. Per questo motivo, durante la lunga storia che il cristianesimo ha scritto nel corso dei secoli, questi elementi si diffusero in modo sempre più ampio e rapido, andando ad inserirsi in processioni, altari, cattedre papali e vescovili, tombe, fonti battesimali, pulpiti, statue e letti.


L’applicazione di una struttura leggera sul letto era molto diffuso non soltanto negli ambienti ecclesiastici per proteggere il riposo di Cardinali, Vescovi e Papi, ma, a partire dal Medioevo, ottenne ampio spazio anche nelle vite e nelle abitazioni di nobili e signori. Inizialmente, infatti, sia il baldacchino ad uso sacro che quello profano, era costituito da un semplice panno di seta, oppure di lino meno pregiato, adagiato su quattro aste che non erano ancora fissate al terreno e, quindi, associate ad un letto. In un primo momento il baldacchino era piuttosto utilizzato come copertura mobile temporanea, che sebbene non fosse ancora una struttura rigida, presentava le stesse funzioni protettive con cui, successivamente, è diventato parte integrante della mobilia dei nobili.
Fatta eccezione di alcuni sporadici esempi risalenti al Rinascimento, durante il quale i baldacchini da letto erano chiamati “spravieri”, e di qualche rappresentazione presente in affreschi realizzati tra il Trecento e il Quattrocento, infatti, bisognerà aspettare ancora qualche secolo perchè questo tipo di mobile diventi una consuetudine. La nascita del letto a baldacchino vero e proprio, quindi, viene fatto risalire a un’epoca leggermente più tarda, molto probabilmente in un periodo che oscilla tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo. I letti del Cinquecento, a differenza dei precedenti caratterizzati da un’eccessiva altezza e una dimensione molto contenuta, aveva delle proporzioni che si avvicinavano maggiormente a quelle dei letti odierni. In alcuni casi, anzi, erano anche maggiori, in base alle richieste del padrone. Erano caratterizzati dalla presenza di numerosi cuscini in testata, in modo tale da facilitare la digestione dei ricchi banchetti signorili durante il riposo in posizione rigorosamente supina. Il letto era coperto, inoltre, da una struttura con quattro pilastrini angolari su cui era adagiata una stoffa, la cui consistenza poteva essere molto leggera, come la seta, o più pesante in broccato, presentando decorazioni con gemme e orli particolarmente elaborati. Le funzioni del baldacchino sul letto erano molteplici. Una di queste era dovuta alle dimensioni esageratamente grandi delle camere da letto dell’epoca. Data l’ampiezza della stanza, infatti, al suo interno si svolgevano diverse attività che coinvolgevano non solo il signore, ma anche, molto spesso, la sua servitù e, in generale chi prestava i propri servigi. Questa condizione determinò la necessità di ritagliare, all’interno della multifunzionale camera da letto, un piccolo luogo dove poter godere della pace e della tranquillità occorrenti per il sonno oltre, ovviamente, a garantire un minimo di privacy dal viavai di persone che, per varie cause, popolavano la stanza. Un altro motivo che giustifica la presenza della struttura velata è la funzione di rudimentale zanzariera a cui assolveva. Pare infatti che vi fossero, già all’epoca, molti insetti che si temeva potessero disturbare il sonno del signore. Il drappo che circondava interamente il letto, pertanto, riusciva a proteggere il nobile dagli insetti che altrimenti gli avrebbero ronzato intorno. Con la diffusione del Barocco, anche il baldacchino fu influenzato da questo stile. Le sue caratteristiche funzionali furono infatti pressoché ignorate, costituendo soltanto un elemento decorativo e non isolando più il letto dagli sguardi indiscreti e da quello che, durante la notte, poteva disturbare il sonno del signore. Nel Settecento le dimensioni dei letti diventarono sempre più contenute e, con esse, si ridusse anche il baldacchino, che prese ad assumere delle forme più particolari ed elaborate, come quella a cupola. Nel diciottesimo secolo, infatti, era molto diffuso il modello di letto a baldacchino proposto dai Francesi, noto come “lit a la duchesse”, che presentava una struttura non più sostenuta dai quattro pilastrini angolari, ma costituita da un telaio di forma rettangolare sorretto solo da un lato, quello della testata, e libero da appoggi nella parte inferiore del mobile. Il tutto era ricoperto con drappi molto più pesanti rispetto alla seta o al lino che originariamente ne costituivano il tamponamento, ma riccamente decorati con ricami in oro o con piccole gemme, in perfetto stile francese del regno della regina Maria Antonietta.
Man mano che la struttura prese piede, iniziarono anche a diffondersi diversi modelli, come quello “a cortine”, che andò a sostituirne la cornice e a circondare interamente il letto attraverso l’applicazione di un tessuto più pesante, ma anche più riccamente ornato e ricamato. Dopo un periodo di parziale inutilizzo, durante il quale i letti iniziarono ad avvicinarsi sempre più alla forma di quelli recenti, nel diciannovesimo secolo, con l’avvento del design, si è ripreso questo arredo proveniente da una secolare tradizione e lo si è rielaborato con le forme moderne e sinuose dell’architettura contemporanea. Si trovano molto spesso, infatti, sfogliando le riviste di design, modelli che hanno l’obiettivo di far sentire chi vi riposa un re tornato nel periodo medievale, ma con delle forme molto più particolari rispetto a quelle originariamente appartenute al letto a baldacchino. Sono frequenti strutture curve, non ricoperte con drappi o stoffe, ma caratterizzate da un sistema di filtraggio della luce ricavato con un particolare intreccio dei materiali che costituiscono la struttura portante, lasciando libere le parti laterali. Altri modelli riprendono le forme baroccheggianti degli ultimi esempi di tradizionali letti a baldacchino, rivisitati grazie al ricorso ai moderni materiali utilizzati per la realizzazione dei mobili. Altri designer optano, invece, per la semplicità di una struttura portante con quattro appoggi e la sovrapposizione di un velo semitrasparente o di una sottile lastra di vetro opaco nella parte superiore.



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YLANG- YLANG

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La Cananga odorata, comunemente conosciuta come ilang-ilang o ylang-ylang, è un albero della famiglia delle Annonaceae dai cui fiori si ricava l'omonima essenza usata in profumeria.

È un albero a crescita rapida che raggiunge un'altezza media di 12 metri. Le foglie, lucide e scure, sono lunghe e hanno forma lanceolata con margini ondulati. I numerosi e profumatissimi fiori crescono, solitari o riuniti in piccoli grappoli, in autunno e primavera. Sono giallo-verdastri (raramente rosa) e hanno 3-5 petali allungati e arricciati.

Il nome ilang-ilang (o ylang-ylang), di origine tagalog, potrebbe derivare dalla parola ilang, che significa regione selvaggia, o da ilang-ilan, ossia non comune, riferibile all'aroma molto particolare.

La pianta è nativa delle Filippine e dell'Indonesia e cresce comunemente nelle isole della Polinesia, Melanesia e Micronesia.
Cresce in condizioni di pieno sole o semiombreggiatura e preferisce i suoli acidi tipici delle foreste pluviali, suo habitat naturale.

La moltiplicazione avviene per seme o per talea. La facile germinazione dei semi ha contribuito ad una vasta diffusione di questa pianta che in alcune zone viene ritenuta un albero infestante.

Calmante se inalato svolge un'azione rilassante sul sistema nervoso, attenua disturbi come l'ansia, depressione, irritabilità, nervosismo e insonnia. L’olio essenziale di ylang ylang crea armonia in caso di contrasti, collera, rancore e frustrazione, perché favorisce la comprensione e il perdono, dissolve le delusioni e le offese, ripristina il desiderio di amare.
Ipotensivo, l’essenza è in grado di abbassare la pressione arteriosa e di attenuare i disturbi provocati sul sistema cardio-circolatorio dallo stress, come palpitazioni e tachicardia.



Afrodisiaco è un olio essenziale erotico, utile per risvegliare i sensi, in caso di frigidità, impotenza, e per chi non riesce a lasciarsi andare; allontana il dubbio, le insicurezze e i sentimenti bloccati. È di grande aiuto nella femminilità repressa perché libera la gioia, la sensualità, l'euforia e la sicurezza interna.

Tonificante e astringente per la pelle è indicato in caso di acne e produzione eccessiva di sebo: se diluite qualche goccia nel detergente per il viso, il derma recupera tono e luminosità. Se versato in piccole dosi, in olio di cocco o burro di Karitè, è un ottimo nutriente e protettivo per i capelli, soggetti a salsedine, vento e sole.

L'olio essenziale di Ylang Ylang ha un profumo dolce, floreale e femminile; è ascrivibile alla Nota di cuore, in quanto estratto dai fiori, è legato all'Elemento Acqua ed ai Segni Zodiacali Toro e Scorpione.
Si estrae per distillazione dei grossi fiori gialli della pianta tropicale; per 1 litro di olio essenziale occorrono dai 40 ai 60 kg di fiori.

Ci sono almeno quattro diverse qualità principali di questo olio; le prime tre si riferiscono alle prime tre frazioni di distillazione. La qualità "Completo" definisce la distillazione totale, quella più valida in terapia, mentre in cosmetica si usano le altre qualità in quanto più facili da miscelare.


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mercoledì 18 maggio 2016

IL MATERASSO

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Il materasso è il vero protagonista del nostro riposo quotidiano e risalendo indietro nel tempo, pare che gli antichi lo sapessero bene.

Riposare bene per vivere meglio. Il sonno, insieme al cibo, influisce notevolmente sulla qualità della vita. Si pensi che ogni essere umano trascorre 1/3 della sua esistenza dormendo, mediamente 2.900 ore all’anno. Per questo è importante scegliere un materasso adatto alle proprie caratteristiche ed esigenze fisiche. Se nella preistoria bastava adagiarsi per terra su un giaciglio di fortuna, ricavato da un cumulo di foglie secche e paglia ricoperte da pelle di animale, nel corso dei secoli l’evoluzione tecnologica ha portato a tipologie di materassi sempre più confortevoli e personalizzate.

Il materasso nacque nel Neolitico. I giacigli vennero sollevati dal terreno per evitare lo sporco e l'umidità del terreno. Il primo materasso era probabilmente una catasta di foglie secche o di paglia, coperto da una pelle di animale.
Intorno al 3600 a.C pelli di capra ripiene di acqua furono usate in Persia.
Nel 3400 a.C.g li egiziani dormivano su archi di rami di palma ammucchiati negli angoli delle loro case.
I materassi dell'Antica Roma nel 200 a.C. consistevano in sacchi di stoffa ripieni di fieno o lana e, per le persone più facoltose, di piume di uccelli.
Durante il rinascimento, i materassi erano pieni di baccelli di pisello, paglia o qualche volta piume, coperti con velluti, broccati o sete.
Nei secoli XVI e XVII si riempivano i materassi con paglia o piume e messi su di un letto che consisteva in una cornice di legname con reticolati di appoggio di corda o cuoio.
Primi anni del XVIII secolo i materassi erano pieni di cotone o di lana.
Nella metà del XVIII secolo le fodere dei materassi cominciano ad essere fatte di lino o cotone. L'ossatura del materasso è in canne di bambù e lo stesso è ripieno di fibre naturali come fibra di cocco, cotone, lana o crine.
Nella Contea di Somerset in Inghilterra durante il 1824 fu brevettato il primo materasso ad aria.
Nel 1871 il tedesco Heinrich Westphal inventò il materasso a molle. Egli successivamente morì in povertà, non avendo avuto alcun profitto dalla sua invenzione.
Nel 1870 Zalmon G. Simmons inventa il primo materasso a molle fondando la Simmons Bedding Company, la quale sarà la prima azienda ad utilizzare le molle insacchettate singolarmente.
Sir James Paget (medico personale del principe di Galles) nel 1873 presentò un materasso pieno di acqua per il trattamento dei degenti affetti da piaghe da decubito.
Nel 1928 viene realizzato il primo materasso in lattice di gomma da John Boyd Dunlop, fondatore dell'omonima società di pneumatici.
Nel 1930 i materassi a molle divengono abbastanza comuni e le imbottiture in materiali artificiali cominciano ad essere usate in maniera abbastanza diffusa.
Il chimico tedesco Otto Bayer riuscì a sintetizzare un polimero ottenuto per reazione di isocianato e poliolo; nel 1935 nasce il poliuretano (PUR). Il suo successo fu immediato grazie alla grande versatilità d'impiego che ne ha permesso l'utilizzo per una gamma molto ampia di applicazioni. Inizia la produzione di materassi in schiuma sintetica.



Nel 1966 nei laboratori “Ames Research Center” gli scienziati Chiharu Kubokawa e Charles A. Yost sviluppano, per conto della NASA, una schiuma sintetica a lento ritorno elastico (Memory Foam) per migliorare la sicurezza nei seggiolini dei veicoli spaziali. Inizia così l'impiego di schiume tecniche nella produzione di materassi.
Nel 1980 viene costruito il materasso ad aria.
Esistono diversi materiali e tipologie costruttive che vengono addottate per realizzare i materassi che si trovano in commercio.

Tra i più comuni si trovano quelli in lattice, poliuretano o waterfoam, molle, molle insacchettate, memory foam e gonfiabili.

Tra i materassi ergonomici il materasso in lattice naturale era ed è uno dei più performanti ed ergonomici in assoluto, ma il prezzo non è spesso tra i più economici poiché il lattice è un materiale ricavato dall'incisione di una pianta chiamata anche albero della gomma, albero non invasivo per la fauna locale ma che necessita una particolare lavorazione oltre al tantissimo materiale per creare un materasso matrimoniale appunto in lattice. Il primo "materasso in lattice" viene prodotto nel 1928 da John Boyd Dunlop, fondatore dell'omonima società di pneumatici. Da allora il materasso in lattice è molto cambiato. Il cuore del materasso è costituito da una lastra di lattice di gomma, miscelato con altre sostanze, rivestito da una fodera più o meno trapuntata. Il materasso in lattice ha un'elasticità che gli permette di assecondare le curve fisiologiche del corpo evitando pressioni anomale sulla circolazione del sangue e sulle terminazioni nervose. Inoltre il materasso in lattice evita la formazione di polvere all'interno e per questo è particolarmente apprezzato da chi è allergico agli acari della polvere. Annosa è la questione sulle percentuali di lattice naturale con cui vengono prodotte le lastre, in realtà una percentuale di sostanze di origine naturale diverse dal lattice è sempre presente nelle lastre ed è funzionale ad una corretta vulcanizzazione del lattice stesso. I fattori da considerare nell'acquisto di un materasso in lattice sono altri cioè innanzi tutto lo spessore della lastra, infatti una lastra di spessore ridotto, inferiore ai 15 cm non ha un'elevata capacità elastica ed avrà una minore durata nel tempo. Altro elemento importante da considerare prima di procedere all'acquisto è la qualità dei tessuti di rivestimento e dell'imbottitura, infatti il lattice elimina lentamente il calore e l'umidità che il corpo perde durante il sonno ecco perché i tessuti e le imbottiture devono essere di ottima qualità per mitigare questo inconveniente.Poi sono arrivati i materassi di ultima generazione ortopedici salutati (con certificazione LGA) composti da schiuma medicale derivati da materiali naturali anallergici che consentono di garantire la corretta postura della colonna vertebreale, del capo, delle spalle e delle gambe in qualsiasi posizione assunta nel materasso, ideali per dare sollievo a diverse patologie croniche.

I materassi ad aria o di acqua, servono per usi speciali, adottati particolarmente per i malati lungodegenti per evitare le piaghe da decubito.

I materassi in memory (memory foam) o in poliuretano hanno un prezzo più accessibile dei materassi in lattice. Vengono commercializzati come buoni supporti per dormire grazie al fatto che il "memory foam" assorbe il peso del corpo per poi tornare alla forma originale al rilascio. Questo materiale quindi sostiene tutti i punti di pressione del corpo riempendo "i buchi" del corpo normalmente scoperti sostenendo in modo ottimale ogni punto di pressione donando inoltre una sensazione di benessere. I materassi in memory vengono quindi abbinati a particolari poliuretani che devono dare al materasso una portanza rigida altrimenti il corpo affonderebbe nel materasso. Esistono quindi materassi con più o meno centimetri di memory, di base si parla di almeno 4/5 cm per garantire una giusta efficacia.

Un aspetto negativo di questo materiale è che trattiene il calore, il memory foam è infatti termosensibile e si adatta al calore del corpo). In inverno, se la camera da letto è particolarmente fredda il memory risulterà più denso rispetto ad una stanza calda che farà "ammorbidire" il materasso. La scarsa traspirabilità è un ulteriore fattore da prendere in considerazione.

Materassi con scarsi materiali possono indurre ad avere anche problemi di nausee o di asma perché possono essere trattati con sostanze chimiche, colle, stabilizzanti e coloranti (che di norma vengono utilizzate nell'assemblaggio di memory e poliuretani) di scarsissima qualità.

I materassi gonfiabili sono diventati popolari grazie alla comodità di utilizzo, ai costi ridotti (rispetto ai materassi tradizionali) ed alla facilità con cui possono essere utilizzati per creare delle soluzioni letto temporanee o d'emergenza. Questi materassi sono realizzati con plastiche e gomme speciali, combinate a fibre tessili mediante il procedimento di floccaggio che conferisce loro un aspetto vellutato e che fa in modo che le lenzuola aderiscano al materasso.



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giovedì 12 maggio 2016

LA IUTA

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La iuta è una fibra tessile naturale ricavata dalle piante del genere Corchorus, inserito nella famiglia delle Malvaceae. Come per il lino e la canapa, la materia tessile per la produzione si ricava dal fusto della pianta.

La iuta è altamente igroscopica, di colore bianco, giallognolo o bruno. Le fibre sono ruvide e tenaci e il filato risulta anch'esso ruvido, rigido e molto resistente. La iuta si può lavorare all'uncinetto da sola o mescolata con altri filati, per realizzare oggetti vari, come borse, cinture, cappelli o tappeti.

La iuta è al 100% biodegradabile e riciclabile.
È una fibra naturale con riflessi lucenti e dorati e perciò è chiamata la fibra d'oro.
Ha un elevato carico di rottura, una bassa estensibilità, e garantisce un'alta traspirazione del tessuto. La iuta è, quindi, molto adatta nell'imballaggio dei pacchi di beni agricoli.
Può essere usata per creare i filati, tessuti, reti e sacchi della miglior qualità industriale. Insieme allo zucchero può essere usata per costruire i pannelli degli aeroplani. È una delle fibre naturali più versatili mai usate come materiale grezzo nei settori dell'imballaggio, del tessile, dell'edilizia e dell'agricoltura. Il volume del filato conferisce una ridotta tenacia e una maggiore estensibilità quando unito in una "ternary blend" (lett. "mistura ternaria").
La pianta della iuta è imparentata con la pianta della Cannabis sativa. Ciononostante la iuta è completamente priva di elementi narcotici od odorosi.
Le varietà della iuta sono la Corchorus olitorius (riflessi dorati) e la Corchorus capsularis (riflessi argentei).
Al mondo la migliore area produttiva per la iuta è considerata essere la pianura del Bengala (delta del Gange), regione compresa prevalentemente nel Bangladesh.




La pianta è di tipo erbaceo di 3-4 metri di altezza, lo stelo di circa due centimetri di diametro, le foglie sono piccole e gialle di circa 15 centimetri di lunghezza e 5 centimetri di larghezza. La fibra di juta, coltivata nel Sud-Est asiatico, è procurata dalla fibra di tiglio, la materia tessile per la produzione si ricava dal fusto della pianta.
Coltivata in un clima caldo e umido, le condizioni climatiche che ne favoriscono la crescita si verificano durante la stagione dei monsoni, quindi su terreni alluvionati argillosi, dove le precipitazioni sono tra i 75-100 millimetri durante la fase di crescita.
La juta subisce il processo della macerazione: i fusti ricevono una prima breve essiccazione, poi vengono immersi in acqua per venti giorni circa, quindi di nuovo essiccati.
Questo processo permette di separare in un secondo momento, tramite battitura, si procede alla separazione della corteccia fibrosa dall´anima legnosa dello stelo. La fibra ricavata viene lavata e poi messa ad asciugare, ed ammassate in balle per poi essere pronta per la filatura.
La fibra di juta è costituita solo dal 6% del peso della pianta. Il processo di produzione è lungo e richiede un lavoro intenso, l´estrazione della fibra viene effettuato totalmente manualmente.



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domenica 8 maggio 2016

LE CIABATTE

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La multipresa è un dispositivo che può rivelarsi tanto comodo quanto pericoloso. La generica multipresa è caratterizzata da un cavo di alimentazione della sezione misurabile in millimetri quadrati, nettamente inferiore alla sezione necessaria per alimentare tutta le possibili prese che possono essere collegate alla multipresa stessa.

Il cavo di alimentazione della multipresa può essere attraversato tranquillamente da una corrente con un valore nominale di alcuni Ampere, fino ad una decina. Tale valore, però, è piccolo rispetto al valore di corrente assorbito complessivamente dalla multipresa se su di essa vengono collegati fino a quattro o sei carichi elettrici, ciascuno dei quali può assorbire in teoria  fino a 16 Ampere. È proprio quest'ultima caratteristica della multipresa, consistente nel concetto di multifunzione, che costituisce uno dei vantaggi principali delle multiprese.

Lo stesso concetto di multifunzionalità della multipresa produce anche una significativa condizione di pericolo, che nasce innanzitutto dall'eccessiva sollecitazione del cavo di alimentazione della multipresa e dall'assenza localizzata di dispositivi di protezione.

Le attuali norme vigenti in materia di impianti elettrici indicano diversi accorgimenti da adottare in fase di progettazione e realizzazione degli impianti, per evitare o quanto meno limitare l'utilizzo di multiprese e di altre soluzioni improvvisate ed inadatte come, ad esempio, le prolunghe.

Queste ultime, in genere, possono essere realizzate facilmente in casa ed inavvertitamente in maniera altrettanta pericolosa: infatti, nella realizzazione di prolunghe, purtroppo, non si presta la dovuta attenzione all'utilizzo di cavi tripolari, costituiti cioè dal cavo di fase da  quello di neutro e da quello di terra. Quest'ultimo non collegato, nel caso di utilizzo di cavi bipolari, non offre la dovuta protezione per gli utilizzatori dei carichi elettrici alimentati con prolunghe.

E' bene conoscere la potenza dei diversi elettrodomestici prima di impiegare una presa multipla. Il numero delle prese della ciabatta non è tutto uguale, ne esistono da tre, da quattro, da cinque, da sei, ognuno per ogni nostra esigenza. Alcuni modelli di prese multiple sono dotate di un particolare compressore di sovratensione che ha il compito di “proteggere” i picchi di tensione. Le prese multiple si utilizzano principalmente a casa, e quelle che bisogna scegliere sono quelle che riescono a sopportare un carico da 2200 o 3500 watt, a seconda delle nostre esigenze. Prima di acquistare quindi, dobbiamo avere più o meno un’idea di quanti apparecchi vogliamo collegare e quindi determinare la potenza massima. Per quanto riguarda il cavo, la lunghezza è ottima, raggiunge infatti i tre metri scarsi, partendo da una lunghezza minima di circa un metro e trenta centimetri.
Purtroppo, non esiste ancora nessuna certificazione sicura sulle ciabatte. Le normative CEI infatti, non entrano nello specifico di questo tipo di strumento. Rientrano nei parametri della sicurezza le parti che compongono una presa multipla, e quindi la spina e il cavo. Questo è uno dei fattori per cui la presa viene insignita del marchio CE.
Tuttavia, alcune ciabatte potrebbero avere delle certificazioni di vario genere, ma che è bene sapere non garantiscono assolutamente la certificazione di sicurezza delle prese multiple. La resistenza meccanica permette di determinare lo stato di resistenza. In alcuni casi i contatti che compongono la spina, potrebbero curvarsi, impedendo di essere utilizzati nuovamente.


Vietato assolutamente di riportare i contatti della spina nella posizione originale e riutilizzarla. Un altro fattore importante per determinare la sicurezza delle ciabatte, riguarda un altro tipo di resistenza, quello del materiale isolante al fuoco e la protezione contro il contatto accidentale. Rispettando in ogni caso la normativa, se la spina non è inserita completamente, si può andare a contatto con la parte in tensione, quindi fate attenzione. Atri fattori per la sicurezza sono ad esempio la forza che occorre per togliere la spina dalla ciabatta. La forza in questo caso deve essere un po’ resistente. Resistenza delle prese e delle spine è un’altra caratteristica così come la messa a terra: in alcuni modelli avviene prima di inserire lo spinotto, mentre in altri non appena si estrae la spina, rimane ancora la messa a terra.

In ogni abitazione, vi sono carichi di tensione dovuta ai vari elettrodomestici e apparecchi che ognuno di noi possiede e della loro relativa potenza. Prima di acquistare una presa multipla, è bene conoscere da quanti watt sono composti i principali apparecchi di casa:
televisione da 50 a 75 watt
computer dai 50 ai 100 watt
stereo dai 50 ai 150 watt
stampante dai 75 ai 100 watt
phon dagli 800 ai 1100 watt
aspirapolvere dai 1300 ai 1500 watt
lavastoviglie dai 2000 ai 2500 watt
lavatrice dai 2000 ai 2400 watt
La potenza in watt degli apparecchi ci fanno capire anche il consumo della luce. Possiamo vedere infatti che la televisione, la radio e il computer non consumano tanto, al contrario della lavatrice e della lavastoviglie per esempio. Nella scelta della presa multipla è importante conoscere i valori comunque approssimativi, di ogni elettrodomestico o apparecchio che vogliamo collegare. Importante è la sezione dei cavi che dovrà essere maggiore nel caso di grossa potenza per non surriscaldare il cavo e danneggiare prese e interruttori. Ricordatevi di non attaccare grosse potenze che la ciabatta potrebbe non supportare.
Il primo fattore nel determinare la scelta della presa multipla, è quello sicuramente di sommare le potenze massime degli apparecchi che vogliamo unire nella ciabatta. Nel preferire la scelta della presa multipla, optate per quella con il cavo grosso. Se il vostro impianto di casa, ha la messa a terra, potete acquistare una ciabatta con la predisposizione alla connessione, altrimenti è inutile. Per una corretta funzionalità della ciabatta privi di umidità. Per questo è meglio evitare il bagno. Per scongiurare il rischio di incendio, non bisogna attaccare per esempio due apparecchi che riscaldano con una grossa potenza.
La ciabatta si surriscalda con il conseguente possibile incendio. Utilizzate la ciabatta con cognizione, senza unire più prese multiple insieme, in quanto la prima della fila, rimarrebbe “vittima” di un surriscaldamento.

Gli attacchi sulle multiprese sono in genere equamente distribuite tra prese comuni e prese shuko. Per prese comuni si intendono quelle anche dette italiane, caratterizzate da tre fori (fase, neutro e collegamento di terra sul foro centrale) dove la presa può essere quella con i fori più stretti per le correnti nominali di 10 Ampere o con fori un po' distanziati per correnti nominali di 16 Ampere.



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giovedì 5 maggio 2016

IL TROPICO DEL CANCRO

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Il Tropico del Cancro deve il suo nome al fatto che in passato il Sole, nel solstizio d'estate, si trovava nella costellazione del Cancro; questo oggi non è più vero, a causa del fenomeno della precessione degli equinozi, ma il nome resta inalterato. Dal punto di vista astrologico, nello stesso giorno il Sole fa ingresso nel segno zodiacale del Cancro: per definizione, infatti, l'arco del quarto segno ha come punto d'inizio il punto in cui si trova il Sole nel solstizio d'estate.

Benché la posizione dei tropici si consideri spesso come fissata, la distanza dall'equatore varia leggermente nel tempo, a causa degli spostamenti dell'asse di rotazione terrestre. Nel 2014 il tropico del Cancro è situato a 23° 26' 14,675 a nord dell'equatore, in avvicinamento all'equatore di qualche frazione di secondo di latitudine ogni anno.



Nel 1917 la distanza dall'equatore era di 23° 27'. Ciò comporta una lievemente minore differenza stagionale alle alte latitudini.

La posizione del tropico del Cancro non è fissa, ma varia nel corso del tempo con uno spostamento annuo verso sud di circa mezzo secondo (0,47") di latitudine ogni anno. Partendo dal meridiano di Greenwich, il Tropico del Cancro attraversa: Algeria, Mali, Niger, Libia, Egitto, Mar Rosso, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Mar Arabico, India, Bangladesh, Birmania, Cina, Mar della Cina, Taiwan, Oceano Pacifico, Golfo di California, Messico, Golfo del Messico, Bahamas, Oceano Atlantico, Sahara occidentale, Mauritania.

Tra i punti più rilevanti toccati dal Tropico del Cancro che influiscono anche tantissimo sul clima, vale la pena citare paesi come la Cina, il Messico, l'India, il Nord Africa ed in particolare il Mar Rosso, oltre a quelli che si affacciano sull'Oceano Pacifico e Indiano.



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IL GATTO SACRO DI BIRMANIA



Il gatto sacro di Birmania è una razza di gatto elegante, dalla stazza massiccia e dagli occhi blu. Le origini sono incerte, potrebbe essere stato importato dalla Birmania, ma la razza è stata identificata la prima volta in Francia.

Il Sacro di Birmania è un gatto di medie dimensioni, il maschio è leggermente più grande della femmina, la testa ed il collo sono più massicci, l'aspetto generale è ben strutturato. Le femmine sono leggermente più minute e longilinee, più raffinate ed eleganti nelle movenze.
Le differenze più rilevanti si osservano soprattutto per il carattere dei gatti interi, ossia maschi non castrati e femmine non sterilizzate. Il Birmano è una razza molto passionale e "focosa" che esprime gli istinti tipici del felino.

La struttura ossea è robusta ed il corpo è leggermente allungato rispetto alle zampe che sono di ossatura grossa e non troppo lunghe, la coda è di lunghezza in proporzione col corpo la cui punta deve riuscire a toccare la spalla.

La morfologia del gatto birmano è unica e lo diversifica da tutte le altre razze. Il suo standard è molto dettagliato e preciso. La testa può essere circoscrivibile in un cuore.

La fronte è leggermente arrotondata, le guance sono piene, il naso è di media lunghezza senza stop, con profilo arrotondato detto "romano", il mento forte deve essere allineato verticalmente al tartufo.

Gli occhi sono leggermente ovali di colore blu intenso e distanti sul muso. Le orecchie sono posizionate ai lati del cranio e sempre rivolte in avanti, sono di media grandezza, di forma triangolare a base larga a partenza dalla superficie temporale del cranio, le punte sono appena arrotondate.

Il maschio segna il territorio con uno spruzzo poco visibile ma dall'odore molto intenso e fastidioso, soffre se non può avere delle gattine da corteggiare.
La femmina è molto calorosa e dal 10° mese può già iniziare a miagolare in modo continuo, sia di giorno che di notte, per chiamare il maschio fino a che non viene coperta. In questo periodo è sottoposta a stress fisico, l'appetito è minore e le difese immunitarie sono più basse.
Per i gatti destinati a fare compagnia ad una famiglia e che non rientrano in un programma di selezione di un allevamento è vivamente consigliato (per il loro bene e salute) di castrarli/sterilizzarli, questi gatti sono più sani socievoli e ottimi compagni affettuosi.
Dal punto di vista genetico il gatto Birmano ha tendenzialmente un temperamento equilibrato ed affettuoso.
Il birmano è un gatto a pelo semilungo. Il pelo ha consistenza setosa al tatto ed è privo di sottopelo perciò difficilmente si annoda; è più lungo sul corpo e più corto sul muso e sulle estremità. Intorno al collo porta una ricca gorgiera più lunga che incornicia il muso. La coda, folta e dotata di pelo lungo viene portata alta a pennacchio. Il pelo setoso ondeggia sotto l'andatura flessuosa del birmano che cammina in punta di piedi come portasse tacchi alti e contribuisce, unitamente alla corporatura allungata, a conferire al gatto una marcia molto sinuosa ed elegante. Nella parte che ricopre l'addome il pelo si fa più lanoso e molto spesso leggermente ondulato.

Il birmano nel suo insieme appare un gatto chiaro perché il colore è intenso solo sulle punte del corpo: i cosiddetti "points". Da cui il nome colourpoint (punte colorate).

I points sono le parti più fredde del corpo: muso, orecchie, zampe, coda, e nei maschi anche i genitali. Sul resto del corpo, dove la temperatura corporea è più calda, presenta la stessa colorazione ma in una versione più "scolorita", quasi bianca.

Il responsabile di questa distribuzione del colore è il gene himalaiano, un gene sensibile al calore, che agisce sul pelo in crescita: i peli che si trovano in una zona più irrorata del corpo durante la crescita non si pigmentano; i peli che si trovano in una zona fredda del corpo rivelano il loro colore.

Le estremità delle zampe, chiamate "guanti", sono le uniche parti del corpo che presentano peli di un bianco candido. I guanti sono una caratteristica distintiva del gatto birmano, è l'unico gatto di razza il cui standard ne prescrive l'esistenza. Essi non devono superare l'articolazione delle zampe e devono essere simmetrici tra loro. I guanti sono determinati da un gene apposito, una variante del gene "white spotting", fissato solo sulle estremità.

Le zampe posteriori hanno, sulla superficie plantare, una risalita di bianco a forma di V rovesciata chiamata garretto. La stessa risalita a V, molto più breve, è gradita anche sulla superficie plantare delle zampe anteriori.


Il gene himalaiano agisce sul pelo in crescita: il pelo che cresce ad una temperatura bassa si scurisce. Per tale motivo i cuccioli nascono bianchi, perché all'interno della pancia di mamma-gatta tutto il corpo si trova ad una temperatura costante ed al caldo. Il colore inizia ad essere visibile ad una settimana di età, per i colori più scuri (come ad esempio il seal-point), e a due settimane di età o più, per i colori più chiari (come ad esempio il lilac-point). La prima parte che si colora sono le punte delle orecchie, naso e coda. La colorazione completa e definitiva è visibile a due/tre anni di età del gatto birmano, e dopo aver superato almeno una stagione invernale.

I colori più tradizionali e conosciuti sono il seal-point e la sua rispettiva diluizione blue-point. Il seal-point è il colore più scuro e significa "focato" per indicare chiaramente come si presenta il colore nero in presenza del gene himalaiano. Il blue-point è un colore simile al grigio ardesia di un tono freddo ma più delicato. Il corpo è di colore beige dorato in tono coi points.

Altri colori leggermente più chiari sono il chocolate-point e la sua rispettiva diluizione lilac-point. Il chocolate-point è un colore simile a quello del cioccolato al latte, è più chiaro del seal-point e più caldo. Il lilac-point è molto chiaro di un tono rosa-crema: color magnolia.

I colori più recenti sono il red-point ed il cream-point, le femmine possono anche essere nella colorazione detta "a squama di tartaruga": tortie-point. I geni responsabili del rosso e del crema agiscono nascondendo in modo non uniforme il colore sottostante per cui il rosso ed il crema si presentano sempre striati. Le tortie sono una miscela casuale del rosso o crema con gli altri colori descritti sopra. Lo standard prevede che le tortie-point abbiano una fiamma rossa (o crema) sul naso che contrasta molto con gli occhi blu intenso. Il corpo ha dei riflessi color oro.

Tutte le colorazioni elencate si possono osservare anche nella variante tabby-point. Ossia il colore sui points è attravarsato da striature chiare che disegnano degli anelli su zampe e coda ed una M sulla fronte. Anche il corpo è attraversato da strisce più chiare ma non è visibile per l'effetto schiarente del gene himalaiano. Il tartufo è color mattone per i colori più scuri o rosa per quelli più chiari. L'interno delle orecchie ha i peli bianchi. L'associazione tra il colore tabby e il colore tortie viene definita "torbie".

Il gatto birmano non soffre di obesità ed è in grado di autoregolarsi. Una alimentazione sana è costituita da crocchette sempre a disposizione affiancate da una ciotola di acqua fresca e una porzione di cibo umido (carne e/o pesce) mattino e sera. Degli integratori multivitaminici per i cuccioli fino all'anno di età e nei periodi di muta (o di particolare stress) sono consigliati.

Non è dotato di sottopelo, per cui difficilmente si infeltrisce o si annoda. Per mantenerlo serico e brillante, oltre ad una alimentazione di qualità, sono sufficienti poche spazzolate alla settimana. Nei periodi di muta è meglio effettuare un bagno mensile per rinnovare il manto eliminando il pelo morto e favorendo la crescita di quello nuovo.

Gli occhi non soffrono di lacrimazione eccessiva per cui la pulizia si limita ad essere eseguita una volta a settimana con una garza imbevuta di infuso di camomilla.

Le orecchie possono essere pulite con una garza asciutta, sfregando delicatamente verso l'esterno.

Le unghie possono essere spuntate di qualche millimetro ogni qualvolta sia necessario per evitare incidenti durante il gioco tra gatto-gatto o gatto-uomo.

Il Sacro di Birmania, per il suo standard così preciso e per le caratteristiche genetiche che lo definiscono, è una razza di difficile selezione.

Geneticamente è molto complicato ed è molto difficile avere cuccioli in standard nella sua espressione ideale. Riproduttori da esposizione non danno necessariamente alla luce cuccioli dello stesso livello. Nelle linee più recenti, grazie al lavoro di selezione effettuato dagli allevatori, si sono eliminati quasi definitivamente difetti genetici come lo strabismo agli occhi o i nodi alla coda.

Il rapporto che ha il Sacro di Birmania col padrone è molto forte, esso lo segue ovunque in tutte le stanze ed in sua assenza ama stare accanto agli oggetti di sua proprietà per sentirselo vicino. E' un gatto molto espressivo e comunica principalmente mediante lo sguardo, i suoi occhi blu e l'intensità con cui ci osserva rende i sui occhi magnetici.
Il Sacro di Birmania non ama stare da solo, se sapete che la casa rimane vuota per parecchie ore al giorno prendetegli un altro compagno con cui stare.
Sebbene il Birmano abbia un forte rispetto e attaccamento ai componenti della famiglia, ha un carattere molto deciso, le sue idee sono ben precise e fa comprendere chiaramente i suoi intenti.
Il Birmano verso gli estranei, invece, può avere un rapporto di indifferenza.

Il Sacro di Birmania è adatto alla vita in appartamento, ma non disdegna un bel giardinetto (protetto) dove avventurarsi, arrampicarsi sugli alberi, giocare con le farfalle.
Anche un bel terrazzino ove prendere il sole o stare alla penombra dei vasi è ideale, ma anche esso deve essere messo in sicurezza.
In casa si consiglia di fornirgli una zona tutta sua dove potersi fare le unghie, giocare, nascondersi e appartarsi. A tal fine sono ideali i finti alberi appositamente studiati per gli appartamenti, ve ne sono di vari colori, forme, misure e sono esteticamente belli, oppure se avete la passione del fai da te potete sbizzarrirvi creandone uno voi. In questo modo avrete salvo il divano per il quale tutti temono quando adottano un cucciolo.
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martedì 3 maggio 2016

BANCONOTE LOGORE

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Le banconote sono prodotte in carta di puro cotone. È una fibra abbastanza resistente ma ovviamente subiscono il deterioramento dovuto all'uso e alla passaggio di mano in mano, di portafoglio in portafoglio, dai registratori di cassa ai distributori automatici e così via. Le statistiche spiegano che la vita media di una banconota di 5 euro, la più diffusa, è relativamente molto più breve (circa 1 anno) rispetto a quella di una banconota da 500 euro che può durare fino a 10 anni.

Al fine di mantenere un elevato livello qualitativo del circolante la Banca d'Italia provvede a ritirare regolarmente le banconote logore dalla circolazione, sostituendole con altre di nuova produzione.
Oltre a questo normale processo di deterioramento dovuto all'uso, le banconote possono essere danneggiate o mutilate da varie cause (ad esempio: umidità, fuoco, agenti chimici, lacerazioni, lavaggi accidentali).
Una banconota si dice danneggiata quando risulta sporca, macchiata o scolorita a causa di eventi accidentali.
Una banconota si dice mutilata quando manca di una parte. Come regola generale, una banconota mutilata può essere cambiata se la parte presentata per il cambio rappresenta più del 50% della banconota originale, o, in caso contrario, se si può provare che la parte mancante è andata distrutta accidentalmente.
E' perciò buona regola, se si è in possesso di una banconota mutilata, chiuderla tra fogli di carta trasparente o di plastica, conservare anche i frammenti più piccoli, in modo da evitare danneggiamenti ulteriori, e non usare, possibilmente, né nastro adesivo né collanti.

Chi è in possesso di banconote logore, danneggiate o mutilate può chiederne il cambio presso gli sportelli della Banca d'Italia. Qui le banconote sono esaminate e, qualora presentino i requisiti per la rimborsabilità, sono sostituite immediatamente con banconote nuove.
Le banconote danneggiate o mutilate che non possono essere cambiate a vista presso le Filiali della Banca d'Italia perché sussistono dubbi sulla loro rimborsabilità sono spedite all'Amministrazione Centrale. Qui le banconote sono esaminate da una apposita Commissione di esperti che decide sulla loro rimborsabilità.
Le banconote riconosciute rimborsabili dalla Commissione sono trattenute dall'Amministrazione Centrale per la distruzione e il controvalore viene riconosciuto agli esibitori tramite la Filiale mittente della Banca d'Italia.
Le banconote mutilate riconosciute non rimborsabili sono restituite agli esibitori per dar loro la possibilità di chiedere nuovamente il cambio qualora vengano in possesso delle parti mancanti.
Se lo stato o la provenienza delle banconote sono tali da far temere la possibilità di infezioni, al presentatore può essere richiesto un certificato di avvenuta sterilizzazione, disinfezione o disinfestazione.
In linea di massima la rimborsabilità è gratuita: si applica una commissione solo qualora gli aventi diritto richiedano il cambio di banconote in euro accidentalmente danneggiate da dispositivi antirapina.
Le banconote danneggiate o mutilate intenzionalmente in linea di principio non sono sostituite ma trattenute senza rimborso. Sono sostituite però se l'esibitore è in buona fede e/o se il grado di danneggiamento è modesto (piccole scritte, numeri o annotazioni).

Le banconote danneggiate o mutilate a seguito di un atto criminoso sono inviate ai Comandi Provinciali della Guardia di Finanza.
Se l'Autorità competente restituisce i biglietti perché non ravvisa nel danneggiamento elementi di rilevanza penale, le banconote sono trattate come semplici banconote danneggiate o mutilate e quindi rimborsate o restituite all'esibitore secondo la procedura descritta.



Ogni anno la Federal Reserve (Fed), la banca centrale degli Stati Uniti, distrugge più di 5mila tonnellate di banconote: dollari danneggiati o consumati dai milioni di passaggi di mano cui sono stati sottoposti, che devono essere quindi rimossi dalla circolazione e resi inutilizzabili. Un destino simile spetta alla maggior parte delle banconote usate in giro per il mondo, ma mentre queste finiscono per la maggior parte incenerite o in grandi discariche, negli Stati Uniti da qualche anno sono stati avviati programmi per riciclare e non sprecare la carta di grande qualità usata per stamparci sopra i dollari.
Come spiega il Wall Street Journal, la Fed ricicla il 90 per cento circa delle banconote che ogni anno toglie dalla circolazione. In parte sono bruciate negli inceneritori che producono energia elettrica, ma altre iniziative prevedono il loro utilizzo per fare del compost o per essere riutilizzate come materiale da costruzione per creare nuovi oggetti e prodotti.
Il riciclo su larga scala delle banconote usate iniziò nel 2011, quando la Fed chiese alle sue 12 divisioni locali in giro per gli Stati Uniti di trovare il modo di riutilizzare le banconote e senza costi aggiuntivi per l’amministrazione della banca centrale. Tra i primi a organizzarsi ci furono i responsabili della Fed di Philadelphia, che già nel 2011 iniziarono a inviare le banconote a una centrale elettrica della zona per bruciarle in modo da produrre energia, dirottandole dalla loro classica destinazione in discarica.
Prima delle nuove iniziative della Fed, nel 2010 solo il 30 per cento delle banconote veniva riciclato. Nel 2011, dicono sempre i dati della Fed, le banconote usate riciclate erano il 41 per cento, ma nel giro di un anno divennero l’82 per cento. Da allora il dato è continuato ad aumentare raggiungendo il 94 per cento del 2013.
A Chandler, in Arizona, la United Fibers LLC riceve ogni mese tre spedizioni di banconote triturate, che sono realizzate con un misto di cotone e di lino. L’azienda le lavora trasformandole in un ottimo isolante da inserire nei muri delle abitazioni, ma anche per produrre carta che viene utilizzata per stampare giornali o per altri impieghi industriali.
Parte delle banconote triturate non vengono invece né riciclate né bruciate, ma consegnate a singoli cittadini che ne fanno richiesta. La maggior parte delle domande proviene da artisti e creativi di vario genere, che le utilizzano per le loro opere. Le sedi locali della Fed preparano anche piccoli sacchetti contenenti le banconote ridotte in striscioline, da dare alle persone che visitano i loro uffici e agli stabilimenti di stampa del denaro.
Nell’Unione Europea la gestione delle banconote di euro usate ricade nella responsabilità delle singole banche centrali nazionali, che si coordinano con la Banca Centrale Europea. Sul sito della BCE non sono indicate le modalità con cui vengono distrutte le banconote, né ci sono riferimenti espliciti a programmi di riciclo del materiale.



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lunedì 2 maggio 2016

GLI HACKER




Difficile rendere in poche parole il significato di un termine che nel corso degli anni ha acquisito un significato diverso dall’originale, e che ha assunto mille sfaccettature (molte delle quali scorrette). Con la parola hacker, infatti, si intende una persona che riesce a superare le barriere soprattutto in ambito informatico. Insomma, l’hacker è sicuramente uno che ci sa fare con i computer. Nel corso degli anni questo termine è stato ripetutamente usato dai media come sinonimo di “criminale informatico”, che invece si definisce “cracker”. La nascita del termine “hacker” si fa risalire solitamente agli anni ’50.

Al MIT degli anni 1920-26 vigeva un elevato livello di competizione e l'attività di hacking emerse sia come reazione sia come estensione di una tale cultura competitiva. L'istituto, con la miriade di corridoi e tunnel sotterranei, offriva ampie opportunità esplorative agli studenti. Fu così che "tunnel hacking" divenne l'accezione usata dagli stessi studenti per indicare queste incursioni sotterranee non autorizzate. In superficie il sistema telefonico del campus offriva analoghe opportunità. Grazie a esperimenti, gli studenti impararono a fare scherzi traendo ispirazione dal "tunnel hacking", questa nuova attività venne presto battezzata "phone hacking", per poi diventare il phreaking.

La combinazione tra divertimento creativo ed esplorazioni costituirà la base per le future mutazioni del termine hacking. I primi ad auto-qualificarsi "computer hacker" nel campus del MIT negli anni 1960 furono un gruppo di studenti appassionati di modellismo ferroviario, che negli ultimi anni 1950 si erano riuniti nel Tech Model Railroad Club.Una ristretta enclave all'interno di quest'ultimo era il comitato Signals and Power (segnali ed elettricità) - gli addetti alla gestione del sistema del circuito elettrico dei trenini del club. Un sistema costituito da un sofisticato assortimento di relè e interruttori analogo a quello che regolava il sistema telefonico del campus. Per gestirlo era sufficiente che un membro del gruppo inviasse semplicemente i vari comandi tramite un telefono collegato al sistema, osservando poi il comportamento dei trenini.

I nuovi ingegneri elettrici responsabili per la costruzione e il mantenimento di tale sistema considerarono lo spirito di simili attività analogo a quello del phone hacking. Adottando il termine hacking, iniziarono così a raffinarne ulteriormente la portata. Dal punto di vista del comitato Signals and Power, usare un relè in meno in un determinato tratto di binari significava poterlo utilizzare per qualche progetto futuro. In maniera sottile, il termine hacking si trasformò da sinonimo di gioco ozioso, a un gioco in grado di migliorare le prestazioni o l'efficienza complessiva del sistema ferroviario del club. Quanto prima i membri di quel comitato cominciarono a indicare con orgoglio l'attività di ricostruzione e miglioramento del circuito per il funzionamento delle rotaie con il termine "hacking", mentre "hacker" erano quanti si dedicavano a tali attività.

Considerata la loro affinità per i sistemi elettronici sofisticati - per non parlare della tradizionale avversione degli studenti del MIT verso porte chiuse e divieti d'ingresso - non ci volle molto prima che gli hacker mettessero le mani su una macchina appena arrivata al campus. Noto come TX-0, si trattava di uno dei primi modelli di computer lanciati sul mercato. Sul finire degli anni cinquanta, l'intero comitato Signals and Power era emigrato in massa nella sala di controllo del TX-0, portandosi dietro lo stesso spirito di gioco creativo. Il vasto reame della programmazione informatica avrebbe portato a un ulteriore mutamento etimologico. "To hack" non indicava più l'attività di saldare circuiti dalle strane sembianze, bensì quella di comporre insieme vari programmi, con poco rispetto per quei metodi o procedure usati nella scrittura del software "ufficiale". Significava inoltre migliorare l'efficienza e la velocità del software già esistente che tendeva a ingolfare le risorse della macchina. Ed è qui che successivamente si colloca una diversa radice del termine hacker, la forma sostantiva del verbo inglese "to hack" che significa "tagliare", "sfrondare", "sminuzzare", "ridurre", "aprirsi un varco", appunto fra le righe di codice che istruiscono i programmi software. Un hacker era quindi uno che riduceva la complessità e la lunghezza del codice sorgente, con un "hack", appunto, una procedura grossolana ma efficace, che potrebbe essere tradotta in italiano come "zappata" o "accettata" (tagliata con l'accetta) o altrimenti con una "furbata". Rimanendo fedele alla sua radice, il termine indicava anche la realizzazione di programmi aventi l'unico scopo di divertire o di intrattenere l'utente, come "scrivere numeri romani" (cit. Richard Stallman).

Un classico esempio di quest'ampliamento della definizione di hacker è Spacewar!, il primo video game interattivo. Sviluppato nei primi anni sessanta dagli hacker del MIT, Spacewar! includeva tutte le caratteristiche dell'hacking tradizionale: era divertente e casuale, non serviva ad altro che a fornire una distrazione serale alle decine di hacker che si divertivano a giocarvi. Dal punto di vista del software, però, rappresentava una testimonianza incredibile delle innovazioni rese possibili dalle capacità di programmazione. Inoltre era completamente libero (e gratuito). Avendolo realizzato per puro divertimento, gli hacker non vedevano alcun motivo di mettere sotto scorta la loro creazione, che finì per essere ampiamente condivisa con altri programmatori. Verso la fine degli anni sessanta, Spacewar! divenne così il passatempo preferito di quanti lavoravano ai mainframe in ogni parte del mondo.

Furono i concetti di innovazione collettiva e proprietà condivisa del software a distanziare l'attività di computer hacking degli anni sessanta da quelle di tunnel hacking e phone hacking del decennio precedente. Queste ultime tendevano a rivelarsi attività condotte da soli o in piccoli gruppi, per lo più limitate all'ambito del campus, e la natura segreta di tali attività non favoriva l'aperta circolazione di nuove scoperte. Invece i computer hacker operavano all'interno di una disciplina scientifica basata sulla collaborazione e sull'aperto riconoscimento dell'innovazione. Non sempre hacker e ricercatori "ufficiali" andavano a braccetto, ma nella rapida evoluzione di quell'ambito le due specie di programmatori finirono per impostare un rapporto basato sulla collaborazione - si potrebbe perfino definire una relazione simbiotica.

Il fatto che la successiva generazione di programmatori, incluso Richard Stallman, aspirasse a seguire le orme dei primi hacker, non fa altro che testimoniare le prodigiose capacità di questi ultimi. Nella seconda metà degli anni settanta il termine "hacker" aveva assunto la connotazione di élite. In senso generale, computer hacker era chiunque scrivesse il codice software per il solo gusto di riuscirci. In senso specifico, indicava abilità nella programmazione. Al pari del termine "artista", il significato conteneva delle connotazioni tribali. Definire hacker un collega programmatore costituiva un segno di rispetto. Auto-descriversi come hacker rivelava un'enorme fiducia personale. In entrambi i casi, la genericità iniziale dell'appellativo computer hacker andava diminuendo di pari passo alla maggiore diffusione del computer.

Con il restringimento della definizione, l'attività di computer hacking acquistò nuove connotazioni semantiche. Per potersi definire hacker, una persona doveva compiere qualcosa di più che scrivere programmi interessanti; doveva far parte dell'omonima cultura e onorarne le tradizioni allo stesso modo in cui un contadino del Medio Evo giurava fedeltà alla corporazione dei vinai. Pur se con una struttura sociale non così rigida come in quest'ultimo esempio, gli hacker di istituzioni elitarie come il MIT, Stanford e Carnegie Mellon iniziarono a parlare apertamente di "etica hacker": le norme non ancora scritte che governavano il comportamento quotidiano dell'hacker. Nel libro del 1984 "Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica", l'autore Steven Levy, dopo un lungo lavoro di ricerca e consultazione, codificò tale etica in cinque principi fondamentali.


Sotto molti punti di vista, i principi elencati da Levy continuano a definire l'odierna cultura del computer hacking. Eppure l'immagine di una comunità hacker analoga a una corporazione medievale, è stata scalzata dalle tendenze eccessivamente populiste dell'industria del software. A partire dai primi anni ottanta i computer presero a spuntare un po' ovunque, e i programmatori che una volta dovevano recarsi presso grandi istituzioni o aziende soltanto per aver accesso alla macchina, improvvisamente si trovarono a stretto contatto con hacker di grande livello via ARPANET. Grazie a questa vicinanza, i comuni programmatori presero ad appropriarsi delle filosofie anarchiche tipiche della cultura hacker di ambiti come quello del MIT. Tuttavia, nel corso di un simile trasferimento di valori andò perduto il tabù culturale originato al MIT contro ogni comportamento malevolo, doloso. Mentre i programmatori più giovani iniziavano a sperimentare le proprie capacità con finalità dannose - creando e disseminando virus, facendo irruzione nei sistemi informatici militari, provocando deliberatamente il blocco di macchine quali lo stesso Oz del MIT, popolare nodo di collegamento con ARPAnet - il termine "hacker" assunse connotati punk, nichilisti. Quando polizia e imprenditori iniziarono a far risalire quei crimini a un pugno di programmatori rinnegati che citavano a propria difesa frasi di comodo tratte dall'etica hacker, quest'ultimo termine prese ad apparire su quotidiani e riviste in articoli di taglio negativo. Nonostante libri come quello di Levy avessero fatto parecchio per documentare lo spirito originale di esplorazione da cui nacque la cultura dell'hacking, per la maggioranza dei giornalisti "computer hacker" divenne sinonimo di "rapinatore elettronico". Contro l'originale definizione da questo momento si insinua nella conoscenza popolare l'uguaglianza Hacker-Malvivente.

Anche di fronte alla presenza, durante gli ultimi due decenni, delle forti lamentele degli stessi hacker contro questi presunti abusi, le valenze ribelli del termine risalenti agli anni cinquanta rendono difficile distinguere tra un quindicenne che scrive programmi capaci di infrangere le attuali protezioni cifrate, dallo studente degli anni sessanta che rompe i lucchetti e sfonda le porte per avere accesso a un terminale chiuso in qualche ufficio. D'altra parte, la sovversione creativa dell'autorità per qualcuno non è altro che un problema di sicurezza per qualcun altro. In ogni caso, l'essenziale tabù contro comportamenti dolosi o deliberatamente dannosi trova conferma a tal punto da spingere la maggioranza degli hacker ad utilizzare il termine cracker - qualcuno che volontariamente decide di infrangere un sistema di sicurezza informatico per rubare o manomettere dei dati - per indicare quegli hacker che abusano delle proprie capacità.

Questo fondamentale tabù contro gli atti dolosi rimane il primario collegamento culturale esistente tra l'idea di hacking del primo scorcio del XXI secolo e quello degli anni cinquanta. È importante notare come, mentre la definizione di computer hacking abbia subìto un'evoluzione durante gli ultimi quattro decenni, il concetto originario di hacking in generale - ad esempio, burlarsi di qualcuno oppure esplorare tunnel sotterranei - sia invece rimasto inalterato. Nell'autunno 2000 il MIT Museum onorò quest'antica tradizione dedicando al tema un'apposita mostra, la Hall of Hacks. Questa comprendeva alcune fotografie risalenti agli anni venti, inclusa una in cui appare una finta auto della polizia. Nel 1993, gli studenti resero un tributo all'idea originale di hacking del MIT posizionando la stessa macchina della polizia, con le luci lampeggianti, sulla sommità del principale edificio dell'istituto. La targa della macchina era IHTFP, acronimo dai diversi significati e molto diffuso al MIT e attualmente la stessa macchina è esposta all'interno dell'edificio del MIT, Ray and Maria Stata Center. La versione maggiormente degna di nota, anch'essa risalente al periodo di alta competitività nella vita studentesca degli anni cinquanta, è "I hate this fucking place" (Odio questo fottuto posto). Tuttavia nel 1990, il Museum riprese il medesimo acronimo come punto di partenza per una pubblicazione sulla storia dell'hacking. Sotto il titolo "Institute for Hacks Tomfoolery and Pranks" (Istituto per scherzi folli e goliardate), la rivista offre un adeguato riassunto di quelle attività.

"Nella cultura dell'hacking, ogni creazione semplice ed elegante riceve un'alta valutazione come si trattasse di scienza pura", scrive Randolph Ryan, giornalista del Boston Globe, in un articolo del 1993 incluso nella mostra in cui compariva la macchina della polizia. "L'azione di hack differisce da una comune goliardata perché richiede attenta pianificazione, organizzazione e finezza, oltre a fondarsi su una buona dose di arguzia e inventiva. La norma non scritta vuole che ogni hack sia divertente, non distruttivo e non rechi danno. Anzi, talvolta gli stessi hacker aiutano nell'opera di smantellamento dei propri manufatti".

A questo proposito all'ingresso del MIT Ray and Maria Stata Center è presente il cartello della Hacking Etiquette (galateo dell'hacking) che riporta undici regole sviluppate dalla comunità hacker studentesca.:

Be Safe – Your safety, the safety of others, and the safety of anyone you hack should never be compromised.
Sta' attento: la tua sicurezza, la sicurezza degli altri e la sicurezza di chiunque tu stia hackerando non dovrebbero mai essere compromesse.
Be Subtle – Leave no evidence that you were ever there.
Sii sottile: non lasciare alcuna prova che tu sia mai stato lì.
Leave things as you found them – or better.
Lascia le cose come le hai trovate, o meglio.
If you find something broken call F-IXIT.
Se trovi qualcosa di rotto, chiama F-IXIT (il numero interno per segnalare problemi alle infrastrutture).
Leave no damage.
Non lasciare danni.
Do not steal anything.
Non rubare nulla.
Brute force is the last resort of the incompetent.
La forza bruta è l'ultima risorsa degli incompetenti.
Do not hack while under the influence of alcohol or drugs.
Non hackerare sotto l'effetto di alcool o droghe.
Do not drop things off (a building) without a ground crew.
Non far cadere oggetti (da un edificio) senza personale di terra.
Do not hack alone.
Non hackerare da solo.
Above all exercise some common sense.
Sopra ogni cosa, fa' uso del tuo buon senso.
Inoltre, sempre all'ingresso del MIT, è presente un altro cimelio della storia dell'hacking proprio accanto ai "comandamenti" dell'etica di un Hacker: L'idrante del MIT collegato a una fontana indicante la famosa frase del presidente del MIT Jerome Weisner (1971-1980) "Getting an education at MIT is like taking a drink from a fire hose", ovvero, "Essere istruiti al MIT è come bere da un tubo antincendio".

Il desiderio di confinare la cultura del computer hacking all'interno degli stessi confini etici appare opera meritevole ma impossibile. Nonostante la gran parte dell'hacking informatico aspiri al medesimo spirito di eleganza e semplicità, il medium stesso del software offre un livello inferiore di reversibilità. Smontare una macchina della polizia è opera semplice in confronto allo smantellamento di un'idea, soprattutto quando è ormai giunta l'ora per l'affermazione di tale idea. Da qui la crescente distinzione tra "black hat" e "white hat" ("cappello nero" e "cappello bianco") - hacker che rivolgono nuove idee verso finalità distruttive, dolose contro hacker che invece mirano a scopi positivi o, quantomeno, informativi.

Una volta oscuro elemento del gergo studentesco, la parola "hacker" è divenuta una palla da biliardo linguistica, soggetta a spinte politiche e sfumature etiche. Forse è questo il motivo per cui a così tanti hacker e giornalisti piace farne uso. Nessuno può tuttavia indovinare quale sarà la prossima sponda che la palla si troverà a colpire.

Il termine hacker, nel gergo informatico, è spesso connotato da un'accezione negativa, in quanto nell'immaginario collettivo identifica un soggetto dedito a operazioni e comportamenti illeciti o illegali. Tipicamente si tratta di un informatico con una vasta cultura informatica che copre sia gli aspetti sistemistici che quelli programmativi.

Egli può svolgere, dal punto di vista professionale, una serie di attività pienamente lecite e utili: i sistemi informatici sono infatti sottoposti a specifici e costanti test al fine di valutarne e comprovarne sicurezza e affidabilità. L'attività di hacking assume rilievo anche poiché di frequente le informazioni tecniche e le potenzialità di un sistema non sono interamente rese note dal produttore, o addirittura in certi casi volutamente protette (per motivi industriali, commerciali o per tutelarne sicurezza e affidabilità). L'hacker agisce quindi nella ricerca di potenziali falle, per aumentare la propria competenza, rendere più sicuro un sistema o violarlo.

Il New Hacker Dictionary, compendio online dove sono raccolti i termini gergali dei programmatori, elenca ufficialmente nove diverse connotazioni per la parola "hack" e un numero analogo per "hacker". Eppure la stessa pubblicazione include un saggio d'accompagnamento in cui si cita Phil Agre, un hacker del Massachusetts Institute of Technology (MIT) che mette in guardia i lettori a non farsi fuorviare dall'apparente flessibilità del termine. "Hack ha solo un significato" - sostiene Agre - "Quello estremamente sottile e profondo di qualcosa che rifiuta ulteriori spiegazioni."

A prescindere dall'ampiezza della definizione, la maggioranza degli odierni hacker ne fa risalire l'etimologia al MIT, dove il termine fece la sua comparsa nel gergo studentesco all'inizio degli anni cinquanta. Secondo una pubblicazione diffusa nel 1990 dal MIT Museum, a documentare il fenomeno dell'hacking, per quanti frequentavano l'istituto in quegli anni il termine "hack" veniva usato con un significato analogo a quello dell'odierno "goof" (scemenza, goliardata). Stendere una vecchia carcassa fuori dalla finestra del dormitorio veniva considerato un "hack", ma altre azioni più pesanti o dolose - ad esempio, tirare delle uova contro le finestre del dormitorio rivale, oppure deturpare una statua nel campus - superavano quei limiti. Era implicito nella definizione di "hack" lo spirito di un divertimento creativo e innocuo.

È a tale spirito che s'ispirava il gerundio del termine: "hacking". Uno studente degli anni cinquanta che trascorreva gran parte del pomeriggio chiacchierando al telefono o smontando una radio, poteva descrivere quelle attività come "hacking". Di nuovo, l'equivalente moderno per indicare le stesse attività potrebbe essere la forma verbale derivata da "goof" - "goofing" o "goofing off" (prendere in giro qualcuno, divertirsi).

Volendo specificare tutti i vari ambiti in cui viene usato il termine "hacker", si possono evidenziare questi significati:

Qualcuno che conosce la programmazione abbastanza bene da essere in grado di scrivere un software nuovo e utile senza troppa fatica, in una giornata o comunque rapidamente.
Qualcuno che riesce ad inserirsi in un sistema o in una rete per aiutare i proprietari a prendere coscienza di un problema di sicurezza. Anche detti "white hat hacker" o "sneaker". Molte di queste persone sono impiegate in aziende di sicurezza informatica e lavorano nella completa legalità. Gli altri vengono definiti "black hat hacker" sebbene spesso il termine venga connotato anche in maniera più negativa del semplice "aiutare i proprietari" e collegato al vero e proprio vandalismo.
Qualcuno che, attraverso l'esperienza o per tentativi successivi, modifica un software esistente in modo tale da rendere disponibile una nuova funzione. Più che una competizione, lo scambio tra diversi programmatori di modifiche sui relativi software è visto come un'occasione di collaborazione.
Un "Reality Hacker" o "Urban Spelunker" (origine: MIT) è qualcuno che si addentra nei meandri più nascosti di una città, spesso mettendo a segno "scherzi" elaborati per il divertimento della comunità.
Un Hacker in senso stretto è colui che associa ad una profonda conoscenza dei sistemi una intangibilità dell'essere, esso è invisibile a tutti eccetto che a se stesso. Non sono certamente Hacker in senso stretto tutti coloro che affermano di esserlo, in un certo senso gli Hacker in senso stretto non esistono, perché se qualcuno sapesse della loro esistenza per definizione non esisterebbero.

"Script kiddie" è un termine che indica un utente con poca o nessuna cultura informatica che segue semplicemente delle istruzioni o un "cook-book" senza capire il significato di ciò che sta facendo. Spesso viene utilizzato per indicare chi utilizza exploit creati da altri programmatori e hacker.

Un "lamer" è uno script kiddie che utilizza ad esempio trojan (NetBus, subseven) per pavoneggiarsi con gli altri e far credere di essere molto esperto, ma in realtà non sa praticamente nulla e si diverte ad arrecare danno ad altri. I Lamer sono notoriamente disprezzati dagli Hacker appunto per la loro tendenza a danneggiare gratuitamente i computer e successivamente a vantarsi di quello che hanno fatto.

Un "newbie" (niubbo) è una persona alle prime armi in questo campo.




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