venerdì 26 febbraio 2016

LA MARIJUANA

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La marijuana non fa male" e "i danni da spinello sono praticamente inesistenti". Parola dell'oncologo Umberto Veronesi, da sempre a favore della liberalizzazione delle cosiddette 'droghe leggere', che interviene così sul tema sul numero del settimanale Oggi in edicola domani.

"La marijuana fa male? Come ministro della Salute, quando ricoprii l'incarico anni or sono, mi posi anch'io questa domanda - ricorda il direttore scientifico dell'Istituto europeo di oncologia di Milano - E me la posi anche come medico e soprattutto come padre di famiglia. Ebbene, la commissione scientifica che avevo nominato concluse che i cosiddetti 'danni da spinello' sono praticamente inesistenti. Dopo quella, altre commissioni scientifiche giunsero alle stesse conclusioni. E oggi perfino l'Organizzazione mondiale della sanità ha invitato i governi a depenalizzare l'uso personale di marijuana, consapevole su dati scientifici che l'uso di spinelli non fa male".

Nella sua rubrica lo scienziato definisce "infondata anche la credenza che la marijuana dia dipendenza e apra la strada all'uso delle droghe pesanti, come cocaina e morfina. Liberalizzare lo spinello non è malinteso permissivismo, ma una posizione realistica che punta alla riduzione del danno. Risulta che metà dei nostri giovani e molti adulti fanno uso di marijuana. Ha senso criminalizzarli?".

L'etimologia del termine marijuana (con grafia inglese) è sconosciuta. In origine questo era il nome usato comunemente in Messico (marihuana) per indicare la varietà di canapa detta indiana, ove destinata al consumo come sostanza stupefacente. La diffusione internazionale del termine marijuana per designare più genericamente la pianta della canapa, a prescindere dall'uso, è dovuta a un'alacre campagna mediatica promossa negli USA durante gli anni trenta dal magnate dei giornali William Randolph Hearst, il quale adottò un vocabolo messicano dal momento che il Messico era allora considerato negli USA una nazione ostile. I toni scandalistici dei suoi giornali crearono nell'opinione pubblica un clima di avversione per la pianta della canapa che avrebbe portato alla proibizione della stessa da parte del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, che il 14 giugno 1937 firmò il Marihuana Tax Act.

Sono innumerevoli in Italia e all'estero i termini gergali, regionali o subregionali, che identificano la marijuana e l'hashish. Nel gergo comune, per marijuana si intendono le infiorescenze delle piante femminili essiccate e conciate per essere fumate, benché il fumo non sia l'unico veicolo dei cannabinoidi, essendo liposolubili. I metodi di assunzione alternativi a quello tradizionale prevedono ad esempio l'infusione nel latte, nel burro o in altri lipidi nei quali si possano sciogliere i cannabinoidi attivi (THC). Dalle infiorescenze si ricava anche una particolare resina lavorata la cui consistenza può variare da solida a collosa in relazione alle modalità di produzione (l'hashish).

Ganja è il termine in lingua creolo giamaicana utilizzato per indicare la marijuana, erba ritenuta dai rastafariani indispensabile per la meditazione e la preghiera.

Negli anni trenta, l'antropologa Sula Benet ha evidenziato la possibilità che gli antichi israeliti facessero un uso sacrale della cannabis, desumendo l'informazione dai versetti della Bibbia in cui si parla di kaneh bosm.

La crema di hashish è usata per scopi meditativi anche dai Sadhu indiani, da molti monaci buddhisti in Nepal e, in generale, nella zona himalayana.

Gli effetti indotti dall'uso di marijuana sono svariati, hanno differente intensità a seconda del soggetto, dalle circostanze psicofisiche in cui la si assume, dalla contemporanea assunzione di alcool o altre sostanze psicoattive, dall'assuefazione del consumatore e dalla quantità di principio attivo (THC) assunta e della composizione chimica della specie presa in esame; ad esempio le specie con alti valori di CBD e moderati o bassi livelli di THC hanno effetti localizzati principalmente sul fisico, apportando analgesia e rilassamento, caratteristiche che la rendono preferibile rispetto ad altre per uso terapeutico; i principali effetti possibili sono:

analgesia
eccessiva sonnolenza diurna
euforia
rilassamento muscolare
diminuzione della pressione intraoculare ed endooculare
attenuazione della reattività fisica
temporaneo abbassamento o innalzamento della pressione del sangue
amplificazione dei sensi
aumento del battito cardiaco
aumento dell'appetito (comunemente detta "fame chimica")
se assunta in ingenti quantità, nei soggetti predisposti, può provocare stati d'ansia
nei soggetti predisposti, possibile sviluppo di patologie mentali
in alcuni soggetti (probabilmente predisposti) può provocare nausea con conseguente vomito
Mentre per alti contenuti di THC e bassi di CBD gli effetti risulteranno narcotici e in casi particolari anche psichedelici. Consumatori abituali riferiscono che in alcuni soggetti questi effetti tendono a scomparire o attenuarsi, probabilmente per via dell'instaurarsi di un certo grado di tolleranza specifica. Non è ancora chiaro se fumare marijuana aumenti o diminuisca il rischio di cancro. Inoltre, l'uso di tali sostanze può provocare, nei soggetti ove siano già presenti a livello latente, effetti come: disorientamento e forte opacità cognitiva, apatia (in caso di assunzione prolungata e predisposizione), euforia, maggiore sensibilità ai colori, sonnolenza.



In quei paesi nei quali è consentito l'uso medicale di questa sostanza, si cerca di proporre all'utilizzatore l'impiego di apparecchi atti a ridurre il danno da fumo, come ad esempio vaporizzatori che evitano la combustione delle infiorescenze estraendone, comunque, i cannabinoidi.

Al pari di ogni altra molecola attiva, anche gli effetti collaterali dei cannabinoidi sono in stretta relazione col metabolismo e con le dosi assunte dal soggetto. Uno studio condotto da ricercatori della University of Southern California e dell'Università di New York ha mostrato una diminuzione della depressione nei consumatori di cannabis.

L'assunzione di questi derivati con altri farmaci non produce controindicazioni o effetti dannosi (può accadere a volte che l'effetto di un farmaco assunto sotto uso di cannabis abbia gli effetti amplificati)

I vari effetti, come detto in precedenza, possono essere condizionati in maniera influente anche da due fattori psicologici: il set (lo stato d'animo di chi consuma) e il setting (la compagnia con cui si trova e il luogo dove si trova il consumatore). Nel marzo 2007 la rivista scientifica The Lancet pubblica uno studio che evidenzia minore pericolosità della marijuana rispetto ad alcool, nicotina o benzodiazepine. Le leggi di mercato nel campo della cannabis, e il suo prestarsi all'ibridazione, fanno sì che vengano commercializzate varietà con concentrazioni sempre maggiori di cannabinoidi (specialmente di THC); questo, ovviamente, ha ripercussioni sull'entità degli effetti.

Attualmente si stanno conducendo studi sugli effetti dell'esposizione prenatale alla marijuana, che pur escludendo l'aumento di patologie perinatali (parto prematuro, basso peso alla nascita) hanno riscontrato effetti sullo sviluppo delle cellule del sistema nervoso nella corteccia prefrontale e nell'ippocampo. Clinicamente questi bambini presentano deficit dell'apprendimento, problemi della socializzazione e turbe comportamentali (simili, nei casi più gravi, alla sindrome alcolica fetale), che compaiono in età scolare.

Tuttavia, altri studi avrebbero evidenziato che l'esposizione moderata ai cannabinoidi della marijuana durante la gravidanza diminuirebbero della metà il rischio di morte alla nascita.

La maggior parte delle sperimentazioni condotte su topi da laboratorio è stata intrapresa somministrando esclusivamente THC veicolato in soluzione diluente, per lo più non nella sua versione naturale ma nella sua variante sintetica, escludendo la somministrazione in contemporanea degli altri cannabinoidi presenti naturalmente nel fiore di cannabis che viene comunemente fumato. Come diversi studi scientifici dimostrano, i cannabinoidi hanno la capacità di interagire tra di loro una volta assunti nel corpo umano.

L'esempio più comune è dato dal principio attivo CBD, non psicoattivo, che ha la proprietà di annullare gli effetti negativi del THC su respirazione, battito cardiaco, pressione sanguigna; molto importante per pazienti che soffrono di problematiche cardio-vascolari o cardio-respiratorie. Le varietà di cannabis per uso terapeutico possono arrivare a contenere una percentuale di CBD anche del 14%, ma questo dipende molto dal tipo di malattia con cui si ha a che fare; infatti, il Bedrocan, noto farmaco importato dall'Olanda, ha una percentuale di CBD solo dell'1% circa, e THC al 19% circa.

Uno studio pubblicato sulla rivista New Scientist nel 2008 ha evidenziato che un consumo a lungo termine di canapa provoca anormalità strutturali dell'ippocampo (ovvero l'area del cervello che regola le emozioni e la memoria) e dell'amigdala (l'area del cervello che controlla la paura, e l'aggressività). Questo studio ha evidenziato una diminuzione del 12% del volume dell'ippocampo e del 7,1% del volume dell'amigdala in consumatori regolari.

Alcuni studi avevano suggerito, per i consumatori abituali di cannabis, una probabilità più elevata di sviluppare alcune malattie psichiatriche rispetto alla popolazione generale; tuttavia, uno studio effettuato dall'Università di Harvard nel 2013 ha dimostrato che non vi sarebbe correlazione tra consumo di canapa e sviluppo di problemi psichiatrici. Uno dei maggiori studi osservazionali su larga scala conclude che la probabilità di ammalarsi di schizofrenia sarebbe tanto più elevata quanto maggiore è stata l'esposizione alla cannabis, con un effetto di tipo "dose-risposta" (tutto questo attraverso l'esposizione e l'uso prolungato e continuo della cannabis in età adolescenziale). Studi più recenti giungono a conclusioni simili ma anche opposte.

Uno studio della durata di 35 anni pubblicato nell'agosto del 2012 dalla National Academy of Sciences ha fornito evidenza oggettiva di danni irreversibili sull'apprendimento nei consumatori cronici adolescenti. Lo studio ha evidenziato danni persistenti all'intelligenza, alla capacità cognitiva e di memoria in soggetti minori di 18 anni, danni invece non evidenziati in soggetti che hanno cominciato a fumare in età adulta. Risultati affini sono stati raggiunti da un altro studio pubblicato nel luglio 2012, in cui sono stati evidenziati problemi cerebrali e scompensi nell'attività neurale in alcune zone del cervello in consumatori adolescenti e di giovane età.

Nonostante questi studi, in un'intervista sul settimanale Espresso, l'ex ministro della salute, l'oncologo Umberto Veronesi, ha affermato che la marijuana non è dannosa e che i danni da spinelli sono praticamente inesistenti.

La marijuana è generalmente fumata in una sigaretta (spinello), ma può anche essere fumata in una pipa. Meno spesso, viene mescolata al cibo e mangiata o usata in infuso. A volte gli utenti aprono sigarette e rimuovono il tabacco, sostituendolo con marijuana: questo viene chiamato “blunt” . Spinello e “blunt” a volte sono mischiati con altri farmaci più potenti, come ad esempio crack o PCP (fenciclidina, un potente allucinogeno).

Quando una persona fuma uno spinello, di solito sente il suo effetto nel giro di pochi minuti. Le sensazioni immediate: accelerazione del ritmo cardiaco, diminuzione di coordinamento e di equilibrio, e un “sognante” e irreale stato d’animo, raggiungono l’apice entro i primi 30 minuti. Questi effetti a breve termine di solito finiscono nel giro di due o tre ore, ma potrebbero durare più a lungo, a seconda della quantità assunta, della potenza del THC e della presenza di altre droghe aggiunte nel miscuglio.

Dato che un tipico consumatore inala più fumo e lo trattiene più a lungo di quanto non farebbe con una sigaretta, un spinello crea un grave impatto sui polmoni di una persona. A parte il disagio che accompagna mal di gola e raffreddore, si è scoperto che il consumare uno spinello espone a sostanze chimiche cancerogene come fumare cinque sigarette.

Le conseguenze mentali dell’uso della marijuana sono ugualmente gravi. I fumatori di marijuana hanno memoria e attitudine mentale peggiori di chi non ne fa uso.

Gli animali a cui i ricercatori hanno somministrato marijuana hanno persino subito danni strutturali al cervello.



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giovedì 25 febbraio 2016

IL COCCODRILLO

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Il coccodrillo è un rettile. Appartiene alla famiglia dei Crocodilidi. Il coccodrillo così come lo conosciamo oggi ha fatto la sua comparsa sulla Terra nel Cretaceo, circa 95 milioni di anni fa. Da allora non ha subìto significative evoluzioni. Abita in zone paludose, lungo i litorali lacustri o di fiume. È diffuso in tutto il mondo: in Africa vive il coccodrillo del Nilo. In America del Sud, il coccodrillo dell’Orinoco. In Australia e nell’Asia sud-orientale, invece, il coccodrillo marino. Le sue dimensioni raggiungono i 6 e persino gli 8 metri. Può pesare anche una tonnellata. Ha un corpo allungato, zampe corte e robuste. È completamente ricoperto di scaglie, tanto dure da formare sul dorso una corazza.

La testa ha forma triangolare ed è dotata di occhi e narici sporgenti. Quando il coccodrillo nuota è quasi completamente immerso nell’acqua: solo occhi e narici restano in superficie, permettendogli di vedere e respirare. È uno degli animali più longevi: in media vive 70-80 anni, ma alcuni esemplari arrivano anche a 100 anni. Il coccodrillo è un grande nuotatore e trascorre molto tempo in acqua. Può comunque muoversi sulla terra ferma per lunghi tratti, strisciando sul ventre e sostenendosi sulle zampe robuste. Tende a vivere in gruppo ed è un predatore. Nelle prime fasi di vita si nutre di piccoli pesci e anfibi. Da adulto mangia anche grandi mammiferi. In genere divora la preda dopo averla annegata. Il coccodrillo raggiunge la maturità sessuale dopo i 7 anni. Il maschio attira la femmina con un richiamo sonoro e rilasciando un odore muschiato dalle ghiandole del collo e dell’intestino. L’accoppiamento avviene in acqua.

Il coccodrillo è un oviparo, cioè depone le uova. Dopo averle deposte, la femmina le lascia al caldo sotto cumuli di foglie o in buche scavate nella sabbia. Le uova si schiudono intorno ai 3 mesi, quando i piccoli rompono il guscio con i denti. Le cure parentali proseguono per più di un anno. In Oriente il coccodrillo rappresenta la morte: la figura che accompagna le anime nel regno dei morti, infatti, ha le sue sembianze. In America centrale, presso maya e aztechi, invece, la sua figura è legata all'inizio del mondo. Nell’antico Egitto il coccodrillo è considerato un animale sacro: incarna il dio Sobek, nemico del male e signore delle acque. Viene rappresentato come un uomo con la testa di coccodrillo. L’animale è venerato come simbolo di fertilità e spesso dopo la morte viene imbalsamato. Nel linguaggio comune, piangere lacrime di coccodrillo significa pentirsi di un evento dopo averlo provocato. Questo modo di dire deriva dal fatto che dopo avere mangiato, il coccodrillo ha una forte lacrimazione, come fosse pentito di avere ucciso e divorato la preda. Ma naturalmente non è così. La lacrimazione è semplicemente una reazione fisiologica durante la digestione.

Nel tempo si sono sviluppate numerose dicerie e leggende su questo animale. Una notissima è divenuta un modo di dire: "versare lacrime di coccodrillo", che si applica a chi, dopo averne combinata una, travolto dalle conseguenze inattese o più gravi del previsto, si pente di aver male operato. Tale modo di dire trae origine dall'abitudine dei coccodrilli femmina di trasportare le uova in caso di pericolo tenendole tra le proprie fauci, abitudine in passato erroneamente interpretata come prova del loro cannibalismo. Inoltre a contribuire alla nascita della leggenda è stata la naturale eiezione di lacrime che si produce in loro quando muovono le mascelle. Eiezione lacrimatoria che ha in realtà lo scopo di lubrificare la cosiddetta "terza palpebra" caratteristica del coccodrillo.

Perché i coccodrilli inghiottono pietre? Gli scienziati dopo aver trovato pietre nello stomaco di coccodrilli e alligatori, sono giunti alla conclusione che ciò li aiuta a frantumare il cibo. Poi le espellono tramite feci.

Un'altra leggenda è quella della presenza di coccodrilli nelle reti fognarie di grosse città statunitensi.



Dal deserto tunisino spunta il più grande coccodrillo marino mai scoperto. Battezzato dai ricercatori Machimosaurus rex e appena descritto nella rivista Cretaceous Research, l'enorme predatore preistorico poteva arrivare a quasi dieci metri di lunghezza e pesava tre tonnellate. Pur frammentari, i suoi resti fossili, ritrovati in uno strato roccioso risalente a 120 milioni di anni fa, hanno permesso di stabilire che si trattava dell'esponente più grosso di una stirpe di coccodrilli che trascorreva quasi tutta la vita in mare.

A guidare la ricerca - che ha avuto il sostegno della National Geographic Society, è un paleontologo italiano, Federico Fanti dell'Università di Bologna, che assieme ai suoi colleghi ha trovato un cranio e alcune altre ossa sparse del coccodrillo. “Si tratta di una nuova scoperta eccezionale, che arriva da una parte del pianeta ancora poco esplorata per quanto riguarda i fossili”, commenta il paleontologo Stephen Brusatte della University of Edinburgh, non coinvolto nel nuovo studio.

Occorrerà uno scheletro più completo per poter definire, con precisione, quanto era grosso Machimosaurus rex. Ma assumendo che questa nuova specie avesse proporzioni simili a quelle dei suoi parenti più stretti, Fanti stima che fosse lungo almeno 9,6 metri. Le sue dimensioni non raggiungevano quelle di alcuni tra i suoi più lontani parenti, che popolavano le acque dolci, ma per quanto riguarda i coccodrilli marini è il più grande che conosciamo.

Il più grande coccodrillo d’acqua dolce è Sarcosuchus imperator, vissuto 110 milioni di anni fa, che poteva raggiungere i 12 metri di lunghezza e pesava fino a otto tonnellate. Dai tempi in cui solcava le acque, insieme ad altri giganti come l’alligatore Deinosuchus, molte altre linee evolutive di coccodrilli si sono estinte; oggi tutti i coccodrilli marini sono strettamente imparentati.

I denti del carnivoro potrebbero darci un indizio sulla sua alimentazione in quegli antichi oceani. “Machimosaurus rex aveva denti forti, rotondeggianti e piuttosto corti”, spiega Fanti, “e un cranio enorme, che gli permetteva di mordere con una potenza sorprendente”. Tutte queste caratteristiche fanno pensare allo scienziato che il coccodrillo fosse un predatore generalista, che si nutriva di prede molto diverse, comprese grandi tartarughe marine.

“Probabilmente si trattava di un predatore che tendeva agguati, aggirandosi per le acque meno profonde a caccia di tartarughe e pesci, magari in attesa che qualche animale terrestre si avventurasse un po’ troppo vicino alla costa”, aggiunge Brusatte.

Dal punto di vista dei ricercatori, la peculiarità più significativa di M. rex non risiede nelle sue dimensioni, quanto nel periodo in cui è vissuto. Da tempo i paleontologi si chiedono se alla fine del Giurassico, 145 milioni di anni fa, si sia verificata o meno un’estinzione di massa. La famiglia che comprende il genere Machimosaurus, i teleosauridi, è tra quelle che sarebbero state spazzate via.

Aver trovato i resti di M. rex in rocce più recenti, risalenti al Cretaceo, suggerisce che se l’estinzione di massa c’è effettivamente stata non ha colpito tutti gli organismi che vivevano sul pianeta. “La nuova scoperta aggiunge un tassello alle evidenze, in aumento, che un gran numero di rettili marini sia riuscito a superare quel confine, sopravvivendo all’ipotetica estinzione di massa”, spiega Brusatte. Forse non si è trattato di un rapido sterminio della vita sulla Terra, quanto piuttosto di una lenta transizione.

“La nostra interpretazione”, commenta Fanti, “è che questo evento alla fine del Giurassico abbia sì avuto effetti a livello globale, ma che sia stato il susseguirsi di una complessa sequenza di crisi biologiche a livello locale, crisi che rimangono a oggi poco documentate”. Resta un mistero piuttosto consistente il perché i coccodrilli marini non abbiano poi prosperato nei periodi successivi: la famiglia di Machimosaurus rex è sopravvissuta più a lungo di quanto pensassimo, ma con un successo e una diffusione decisamente minori rispetto a quanto ottenuto durante il Giurassico. M. rex era decisamente un animale di dimensioni impressionanti, precisa Brusatte, “ma forse, al tempo, era già destinato a scomparire".

LEGGI ANCHE : http://pulitiss.blogspot.it/2015/02/il-coccodrillo.html






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mercoledì 24 febbraio 2016

LA LANA

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La lana è usata tipicamente per il vestiario, ma ha soprattutto sbocchi sul mercato dei tessuti per arredamento e per le imbottiture (cuscini e materassi). Non viene impiegata nei tessuti tecnici ed industriali. Spesso però, la lana viene impiegata in mischia con altre fibre. La si può trovare con la seta, per capi di pregiata fattura, con cotone e lino, per la produzione di maglieria intima; con il poliestere, per indumenti estivi, con fibre acriliche per produrre filati di maglieria.

Ultimamente, in relazione alle biotecnologie, in particolare nell'edilizia, si è provveduto ad impiegare dei materassini di lana di pecora, per isolare tetti e pareti degli edifici. La lana qui trattata, subisce le solite lavorazioni di lavatura della lana per maglieria o tessitura, viene cardata con gli stessi macchinari ed anziché essere filata, viene agugliata e confezionata in rotoli, così da permettere l'utilizzo sia in verticale che in piano. La densità non deve essere mai inferiore ai 30 kg/m³ e lo spessore del materassino non inferiore ai 5 cm. Un edificio così termoprotetto ha gli stessi benefici che noi abbiamo indossando un capo di lana.

La lana è una fibra calda al tatto e dotata di alta termocoibenza. Quest'ultima caratteristica determina che gli indumenti tessuti con la lana risultino più spessi con un conseguente trattenimento di una maggiore quantità di aria.

Il calore provoca sulla fibra della lana la degradazione. Una prima degradazione che si manifesta con un impercettibile ingiallimento può cominciare attorno ai 70 °C; a 130 °C inizia la vera e propria decomposizione; a 170 °C si ha uno sviluppo di ammoniaca. Tuttavia la lana può rimanere esposta per brevi tempi senza soffrire degradazione anche a una temperatura di 200 °C: questa proprietà viene sfruttata dalle industrie per l'operazione di termofissaggio.

La lana è relativamente resistente alla fiamma e, bruciando, sviluppa un odore simile all'osso bruciato contemporaneamente alla formazione di piccoli grani neri che, se toccati, si polverizzano. La lana è dotata anche di termoplasticità.

Il tessuto di lana non solo isola dal freddo ma anche dal caldo; alcune popolazioni africane la usano di giorno per ripararsi dal caldo e la sera dal freddo.

La lana è una fibra tessile di natura proteica prodotta dal bulbo pilifero della pecora. Si presenta con un aspetto arricciato o ondulato che conferisce sofficità, morbidezza ed elasticità al prodotto che la utilizza. La superficie risulta squamata ed imbricata, caratteristica tipica dei peli animali, da cui deriva il potere feltrante. La sezione della fibra è tondeggiante e la sua finezza varia da 17 a 24,5 micron per la razza più pregiata, cioè la merino, e da 25 a 38-40 micron per le lane di razza incrociata o indigena. La lunghezza varia da 5-6 cm ai 30-40 cm delle lane ordinarie speciali.

E’ dotata di elevata igroscopicità che, unita alle altre caratteristiche, conferisce al prodotto particolare confort e coibenza.

La qualità del vello delle pecore dipende da una serie di fattori dovuti alle modifiche sulle razze introdotte dall’uomo in millenni di pratica della pastorizia, quali l’alimentazione, il clima ed il tipo di allevamento. Un gregge poco curato produce una lana non omogenea e di scarso pregio. La selezione privilegia la produzione di lane “bianche”esenti da peli colorati. Nei greggi di minor pregio sono presenti animali con vello di colore, produttrici delle così dette “lane morette” e “lane bigie”.

Si provvede alla tosatura normalmente una volta l’anno, due volte nelle regioni a clima più caldo. Il vello, tosato vicino alla cute con apposite “tosatrici”, viene raccolto intero grazie alla presenza dei grassi prodotti dalla pecora con la crescita della fibra.

Il peso del vello tosato arriva, per i capi migliori, ai 5-7 kg di lana “sucida”. A seconda delle diverse parti del vello, la lana varia notevolmente in lunghezza, finezza e qualità: la migliore è quella delle spalle e dei fianchi.

La certificazione pura lana vergine rappresenta un marchio di qualità produttiva internazionale, ente senza scopo di lucro che raccoglie i produttori di lana di oltre 30 paesi. Il marchio sta a significare l'utilizzo di lana nuova di tosa, proveniente direttamente dalla tosatura del vello, cioè non riusata o rigenerata.

In passato lo stemma delle corporazioni di mercanti di lana aveva una pecora, circondata da foglie di Quercia (araldica) e altre piante.

Gli animali da cui si ricava la lana sono:

la pecora merino: razza definita in Spagna intorno al XII secolo a partire da un lavoro secolare di selezione. Attualmente allevata in modo estensivo in Australia, Nuova Zelanda, Germania e in Islanda, Sud America e in Africa, produce una lana molto fine e pregiata;
la pecora di razze indigene: hanno pelo più duraturo, usato tradizionalmente per la confezione di materassi e tappeti;
la capra d'Angora, allevata in Turchia, Sudafrica, Stati Uniti dalla quale si ottiene la lana mohair;
la capra del Cashmere, originaria del hameri (Tibet) diffusa anche in India, Cina, Iran, Afghanistan dalla quale si ricava una lana molto pregiata;
l’alpaca, un tipo di lama che vive sulle Ande;
la vicuña o vigogna, altro tipo di lama delle Ande peruviane;
il cammello, sia quello asiatico sia i dromedari africani
il coniglio, che produce l'angora;
il dromedario



Tosatura: separazione del vello dal corpo dell'animale con tosatrice manuale o meccanica. Si ottiene lana saltata se l'animale è stato lavato, lana sucida se non ha subito la prima fase
Cernita: dal vello intero si separa la lana delle spalle e dei fianchi (fine e lunga), della schiena (corta e ruvida) e del ventre (corta e debole).
Lavaggio della lana: con ripetuti lavaggi in acqua tiepida con sostanze sgrassanti e detergenti la lana viene pulita e sgrassata. Dall'acqua sporca di scarico si estrae il grasso puro, lanolina, impiegata nell'industria chimica e farmaceutica.
Asciugatura: effettuata con aria calda.
Cardatura e pettinatura: Per il ciclo pettinato la lana viene subisce l'operazione di cardatura che consiste nel liberare dalle impurità, districare e rendere parallele le fibre tessili, al fine di permettere le successive operazioni di filatura. successivamente si ha la pettinatura che consiste nell'ordinare le fibre tessili dopo che sono state cardate.

La filatura
Pulitura: cernita e lavaggio della fibra.
Apritura e battitura: apertura e battitura dei fiocchi di lana per liberarli della polvere e delle varie impurità.
Cardatura: operazione volta ad eliminare le impurità residue e a formare una "falda" in cui le fibre sono tenute unite per reciproca adesione.
Pettinatura: mediante macchinari forniti di"pettini" le fibre lunghe vengono lisciate e messe in parallelo fra loro. Si ottiene un nastro pettinato detto top.
Stiro: il nastro viene trasformato in "stoppino".
Filatura: con energica torsione lo stoppino si trasforma in filato resistente, omogeneo e continuo.
Ritorcitura: si effettua ritorcendo insieme un certo numero di fili. Il filo ritorto ha maggiore resistenza.
Roccatura: i filati avvolti in rocche sono pronti per le lavorazioni successive.



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domenica 21 febbraio 2016

L'IGUANA



L’iguana rientra nella famiglia dei sauri, ovvero dei rettili e delle lucertole, infatti possiede molte similitudini con queste ultime. Ma a differenza di questi animali sono molto più grosse e lente, raggiungendo lunghezze da 180 cm in cattività e da 250 cm in natura. In fase adulta nei maschi, più che nelle femmine, è evidente anche la presenza di una cresta. La loro vita trascorre quasi interamente sopra rami e alberi alti, le iguane toccano il suolo solo in caso di accoppiamento, per cambiare zona o per deporre le uova. Altre invece colonizzano vecchie case disabitate, oppure ruderi, scavi archeologici o possono vivere sottoterra dove scavano tunnel profondi. Originarie del Sudamerica, popolano in particolare la zona del Messico meridionale, ma anche Brasile centrale, Paraguay, Galapagos, Bolivia fino ai Caraibi, dove non è raro intercettarle mentre gironzolano per i centri abitati.

Amano il sole e il caldo, per questo dal risveglio dedicano alcune ore alla tintarella, mentre per regolare la temperatura corporea si affidano al favore di qualche pianta e dell’ombra. Sono animali molto resistenti, in grado di nuotare per sfuggire ai predatori. Possiedono un’ottima vista, anche se non distinguono tutti i colori, quindi un buon udito e la possibilità di salvarsi da cadute da 15 metri di altezza. I maschi possono affrontarsi per stabilire i confini territoriali: un esemplare sano, in grado di gestire un vasto territorio ricco di cibo, può avvalersi di un harem di femmine molto ampio.

L’iguana è un rettile dal grosso formato ma, al contempo, molto delicato: decidere di allevarlo in cattività deve essere il risultato di una scelta consapevole, quindi di un acquisto certificato. In particolare perché l’animale richiederà spazio e cure precise, per vivere bene e in salute.

Molti centro e sudamericani la considerano una leccornia. Non è cacciata per necessità ma come specialità gastronomica.



È possibile l'allevamento in cattività approntando un apposito contenitore di misura adeguata (200–300 cm di lunghezza, 150 cm di larghezza,180–200 cm di altezza) e che presenti caratteristiche simili al loro ambiente naturale, il cui nome è terrario. Per far ciò è necessario tenere presente che tipo di animale andremo ad allevare, per regolare le caratteristiche di calore ed umidità appropriate. Cosa molto importante è che l'ambiente sia diversificato, per quanto riguarda la temperatura interna, per permettere all'animale di regolare la propria temperatura corporea, così da avere due fasce di temperatura che andranno dai 20-22 °C notturni ai 35-40 °C diurni con un'umidità intorno al 70-80%. Molto importante è ricordarsi che un maschio adulto può arrivare ai 1,5-1,8 m, mentre si hanno misure decisamente più ridotte per la femmina; questo aiuta per capire le misure del rettilario, che andranno aumentate via via che l'animale crescerà. Il contenitore dovrà avere ai due lati, sinistra e destra, due aperture orizzontali una in alto ed una in basso, per permettere il ricambio di aria. Illuminazione ad incandescenza e una lampada per la crescita dell'iguana, pezzi di alberi all'interno avranno il duplice scopo di abbellimento dell'ambiente e di permettere alle iguane di regolare la propria posizione all'interno del terrario; così facendo riusciranno ad autoregolare la temperatura. È molto importante che il riscaldamento provenga dall'alto, perché i rettili nella parte bassa del corpo non sono protetti come nella parte alta, cosa che potrebbe portare ad ustioni serie. Le lampade a resistenza devono essere protette dal contatto diretto con il rettile. Una cura va prestata anche ai vetri di protezione, che non devono filtrare i raggi fondamentali per il rettile.

L’iguana è erbivora e predilige ortaggi e qualche fiore, mentre casualmente ingerisce insetti. Per una corretta alimentazione è bene informarsi accuratamente, magari rivolgendosi a un esperto, perché l’animale può mangiare solo alcune verdure come rucola, cicoria, cicorione, lattuga romana, cime di rapa, indivia, scarola, insalata rossa e erbette-bietole. Quindi ortaggi come zucchine, piselli, fagiolini, peperoni, carote e asparagi. Per quanto riguarda la frutta può accedere a mele, pere, banane, uva, fragole e kiwi. Mentre in natura può gustare anche fiori di ibisco, di zucca, foglie di basilico e fiori di dente di leone. È un esemplare che, se non educato all’interazione con l’uomo, non ama il contatto e la vicinanza. In particolare sulla testa, dove è presente un terzo occhio. Vista la particolarità del suo habitat la scelta di allevarlo in casa è molto rischiosa, in particolare se non si possiedono le giuste nozioni e informazioni per una cura corretta. L’iguana potrebbe ammalarsi, soffrire la reclusione: una dieta errata o temperature insufficienti potrebbero provocare danni e condurla alla morte.
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venerdì 19 febbraio 2016

IL MANDOLINO

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L'origine del mandolino risale alla prima metà del XVII secolo: soltanto a circa la metà del Settecento risale invece l'inizio della produzione di mandolini napoletani da parte della celebre "Casa Vinaccia" di Napoli. Questi mandolini sono quasi tutti ricchi di intarsi e filettature d'avorio e madreperla lungo il manico e si deve proprio ai Vinaccia l'applicazione delle corde di acciaio in sostituzione di quelle in ottone, nel primo Ottocento.

Il repertorio di musiche per mandolino è pressoché illimitato, potendosi adattare a questo strumento vari tipi di musica. È inoltre possibile utilizzare il repertorio violinistico, dal momento che il mandolino ha la stessa accordatura del violino.

Pur essendo uno strumento popolare, è stato impiegato anche nella musica cosiddetta colta e, talvolta, anche nell'opera lirica. Lo stesso Antonio Vivaldi compose un concerto per mandolino (Concerto in Do maggiore Op.3 n.6) e due concerti per due mandolini ed orchestra. Mozart lo inserì nel suo Don Giovanni e Beethoven gli dedicò quattro sonatine.

Tra i più importanti mandolinisti del Novecento si ricordano Raffaele Calace (compositore, esecutore e liutaio) e Giuseppe Anedda, virtuoso concertista e docente della prima cattedra di conservatorio italiana di mandolino (Padova, 1975). Oggigiorno tra i rappresentanti italiani di spicco nella musica classica e classico-contemporanea si possono annoverare Ugo Orlandi, Carlo Aonzo, Dorina Frati, Mauro Squillante, Duilio Galfetti.

Appartiene alla famiglia degli strumenti cordofoni. Simile ad una mandola, di cui costituisce una varietà, ha trovato e tuttora trova largo uso soprattutto nel sud Italia e, più specificatamente, nel napoletano. Grazie alla sua particolare cassa armonica emette un suono melodioso che lo rende uno strumento unico nel suo genere.
L'origine del mandolino napoletano risale alla metà del 17° secolo: in quel tempo sembra incominciasse la sua produzione di mandolini la celebre "Casa Vinaccia". Questi mandolini sono quasi tutti ricchi di intarsi, filettature d'avorio lungo il manico eseguite con molta precisione e di deve proprio al Vinaccia l'applicazione delle corde di acciaio in sostituzione di quelle in ottone usate all'inizio e che difettavano di voce e di timbro.
Oltre al mandolino classico, detto napoletano (con quattro corde doppie, in versione barocca oppure da concerto), ne esistono altri tipi fra cui il mandolino milanese (di origini più antiche, con cinque o sei corde doppie) ed il mandolino genovese barocco..

Lo strumento di per sé è costituito da una cassa armonica e da un manico.
Come tutti gli strumenti a corda classici, la cassa armonica è provvista di un foro in cui la vibrazione delle corde si amplifica donando all'orecchio un suono dolce e delicato. Poco dopo questo foro è posizionato un ponticello con le fessure per il posizionamento delle corde che vengono poi fissate all'estremità della cassa armonica tramite dei gancetti.
Le corde del mandolino sono quattro e doppie: la loro posizione sul manico è: il Mi è quella più in basso; poi salendo vengono La, Re, Sol; ogni corda prevede la possibilità di eseguire quattro note pigiando altrettanti tasti diversi sul manico e nel contempo facendo vibrare le corde con l'aiuto di un plettro.
In genere si suona con il plettro, di materiale plastico, ma i più ricercati sono quelli in guscio di tartaruga che per la sua durezza rendono il suono ancora più nitido.
Il plettro si tiene tra il pollice e l'indice per 1/3 della sua lunghezza e con il semplice movimento del polso bisogna colpire una volta la corda dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto. Più si esegue questo movimento velocemente e più il suono sarà perfetto e senza stonature.



In pentagramma, la chiave di lettura usata per suonare il mandolino è la chiave di sol.

Nel mandolino brianzolo, lo scudo ha proporzioni maggiori andando a costituire, come nella chitarra, delle vere e proprie fasce cioè le pareti della cassa. Il fondo è piatto anziché bombato, cambia pertanto il disegno dell'innesto corpo-manico che non è più di testa ma a coda di rondine, risultando più robusto. La volumetria interna è pari a quella del mandolino classico o solo lievemente inferiore mentre forma ed architettura della tavola armonica sono analoghe, salvo eccezioni in cui la tavola non è piegata ma piatta o leggermente arcuata. Il timbro ricorda quello del mandolino napoletano ma è meno gutturale e più asciutto, favorisce la definizione delle frequenze medie aumentando la portata del suono e riducendo la tendenza della quarta corda a risuonare simpateticamente in presenza di vibrazioni estranee. Questo modello, tipico del nord Italia, prende il nome dalla porzione di territorio lombardo che maggiormente ha visto la sua diffusione e costituisce una forma di transizione verso lo sviluppo del mandolino contemporaneo, che raggiungerà la perfezione negli Usa durante i primi anni del Novecento. Il timbro del mandolino brianzolo conserva una componente melliflua ma lo strumento, pur non potendo competere a livello di dinamica con quelli progettati nell'ultimo secolo, dispone di una migliore capacità di proiezione specie sulle basse frequenze e in genere sopporta meglio un uso più aggressivo.

Il mandolino portoghese si discosta maggiormente dal disegno tradizionale in quanto la forma della cassa, decisamente più larga dei modelli appena descritti, assume una sagoma piriforme. La tavola, in cima alla quale si apre una buca tonda o ovale ma sempre di piccolo diametro, è di conseguenza assai ampia. Negli strumenti più pregiati presenta una leggera arcatura mentre in quelli economici è piatta. In comune con i modelli nostrani lo strumento ha catene parallele, disposte perpendicolarmente alla linea di mezzeria. Le fasce sono molto alte e si rastremano in corrispondenza del giunto corpo/manico, il quale è invariabilmente realizzato con un incastro a coda di rondine e coperto dal prolungamento (cappetta) del fondo. Il fondo è curvo, assumendo così un profilo blandamente emisferico. Non è fatto a doghe bensì a spicchi, costruzione riservata agli strumenti di pregio in cui gli spicchi sono separati da filetti colorati, mentre quelli più modesti possono avere il fondo in un pezzo unico leggermente arcuato o addirittura piatto. Analogamente agli strumenti contemporanei, il manico si congiunge alla cassa in posizione più arretrata rispetto al mandolino classico ed ha in genere un profilo dorsale sottile, favorendo così l'accesso alle posizioni più acute. La tastiera può essere piatta o presentare un profilo convesso. Ponticello e cordiera sono assimilabili ai modelli nostrani. Rispetto ai due tipi già descritti, grazie alla profondità della cassa il timbro è decisamente più profondo e risonante. In genere non ne possiede la medesima dolcezza, qui compensata da una maggior capacità di proiezione, dal lungo sustain e da un invidiabile equilibrio tonale. Sempre a causa delle proporzioni relative tra l'ampia volumetria interna e le ridotte dimensioni della buca, gli acuti non sono particolarmente brillanti e lo strumento, più che ai cantabili disseminati di trilli, si rivela adatto a fraseggi ad ampio respiro che richiedono molta dinamica nonché ai passaggi riccamente arpeggiati con accordi estesi in cui la forte sollecitazione impartita alle corde si traduce in una maggior risonanza più che in un incremento di suono.

Il mandolino monta corde d'acciaio armonico, un metallo estremamente elastico onde poter ricevere e ritrasmettere efficacemente alla cassa le sollecitazioni impartite dal plettro. Le prime due corde (Mi e La) sono in acciaio nudo - in genere stagnato, argentato o dorato - mentre la terza e la quarta (Re e Sol) sono avvolte, ossia ottenute sovrapponendo strettamente al nucleo d'acciaio una sottilissima spirale di filo metallico che consente di incrementarne di poco lo spessore conservando un elevato grado di capacità vibratile. Quando l'avvolgimento costituisce lo strato più esterno, la corda, denominata round wound, produce un suono brillante e carico di armoniche mentre quando questo è a sua volta rivestito da un secondo strato metallico nastriforme la corda prende la definizione di flat wound ed emette un suono meno argentino ma con la fondamentale in evidenza, a tutto vantaggio della definizione e della pulizia di suono. Il tipico rumore da sfregamento a contatto con i polpastrelli di cui sono affette le corde ad avvolgimento tondo è praticamente assente in quelle dalla superficie piatta, che per contro hanno una risposta un po' più ottusa. Per l'avvolgimento si utilizzano filo di rame argentato, ottone, bronzo, bronzo fosforoso, acciaio al carbonio, nickel o nickel/cromo; ciascun metallo apporta differenti caratteristiche fisiche che si rispecchiano in diverse sfumature timbriche. I progressi apportati dalla tecnologia, uniti ai gusti individuali dei musicisti ed alle caratteristiche fisiche dei vari tipi di corda hanno portato al sedimentarsi di abbinamenti tipici tra strumenti e relative corde.

La scelta del materiale e del calibro è legata alla tipologia progettuale oltre che al gusto individuale, pertanto varia a seconda del tipo di strumento; in genere i mandolini di tipo tradizionale a tavola piatta, lievemente arcuata o piegata, dalla sonorità tendenzialmente delicata e le cui formanti si collocano nella regione acuta dello spettro sonoro, sono caratterizzati da una struttura più leggera e sfruttano al meglio corde di piccolo calibro con i bassi avvolti in rame argentato (morbide al tatto, suono relativamente dolce ma rapidissima usura e oggi pressoché in disuso), nickel (suono deciso e bilanciato, buona durata) o acciaio al carbonio (suono forte e brillante, grande volume e ottima durata); la struttura dei mandolini con tavola e fondo scavati dal massello è più robusta e la sonorità è in genere percussiva, stentorea ed estroversa, marcata da un transitorio d'attacco più netto, ampia dinamica, enfasi sulle basse frequenze e superiore durata del suono. Questi strumenti sfruttano al meglio corde di grosso calibro con i bassi avvolti in varie leghe di ottone o bronzo (timbro brillante e pastoso, media durata) o bronzo fosforoso (suono aperto e lunga durata, necessita di un periodo di rodaggio per ridurne l'asprezza iniziale). Di recente sono state messe in commercio mute in cui le corde avvolte presentano un ulteriore microscopico rivestimento a calza in materiale sintetico allo scopo di rallentarne l'usura e favorire la scorrevolezza. I mandolini elettrificati con pickups magnetici devono montare corde avvolte in materiale ferromagnetico (acciaio, nickel) evitando quelle bronzate, pena una netta perdita di volume e di corposità su terza e quarta corda.

Il plettro è una laminetta di forma vagamente triangolare o sagomata a goccia con cui, analogamente all'arco per il violino ed alle unghie del chitarrista, si pongono in vibrazione le corde del mandolino. L'impugnatura corretta si ottiene piegando l'indice della mano destra verso il palmo ed appoggiandovi il plettro sul fianco delle ultime due falangi, disposte ad angolo tra di loro. il plettro verrà quindi fermato morbidamente dal polpastrello del pollice, che vi si appoggia di piatto. Per affrontare la tecnica dello strumento, pur se saldamente tenuto, il plettro deve poter oscillare nella presa.

Il plettro è un accessorio fondamentale: ferma restando l'acquisizione di una buona tecnica a livello di precisione, agilità, forza e scioltezza di polso, la scelta di forma, materiale e spessore determina in buona parte la sonorità del mandolino. In particolare essa si esprime in funzione della tipologia di strumento e quindi dalla sonorità ricercata; in linea di massima sul mandolino classico si usano plettri tendenzialmente sottili ed appuntiti, dall'azione scattante; all'estremità opposta della gamma timbrica il plettro adatto a sfruttare a piena potenza le doti del mandolino contemporaneo a cassa scolpita sarà massiccio, di forma smussata ed alquanto rigido.

Anticamente i plettri erano ricavati dal carapace di tartaruga, ma erano fatti anche di osso, di corno o con legni duri e flessibili, come il salice o il legno di bambù. Quelli che attualmente si trovano comunemente in commercio sono fatti di celluloide (a buon mercato ma facilmente usurabile nonché infiammabile) e da diversi altri materiali sintetici d'avanguardia. La flessibilità è determinata dalla miscela cellulosa usata per fare questo oggetto.

Il plettro si tiene tra il pollice e l'indice per 1/3 della sua lunghezza e con il semplice movimento del polso bisogna colpire una volta la coppia di corde dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto. Eseguendo questo movimento alternato molto rapidamente su una stessa nota si ottiene il tremolo o trillato, effetto che rende unico il suono di questo strumento.

L'accordatura del mandolino napoletano è identica a quella del violino: dalla quarta corda (la coppia più spessa) alla prima, le note sono Sol, Re, La e Mi. In particolare, il La vibra alla frequenza di 440 Hz, quella del comune diapason a forchetta; in mancanza di questo, si può far riferimento al La ottenuto premendo al 5º tasto il Mi cantino di una chitarra. Sempre sulla chitarra, la 3ª corda a vuoto (Sol) corrisponde alla 4ª del mandolino.

La nota più grave è il Sol sotto il Do centrale del pianoforte e la tessitura si sviluppa verso l'acuto per almeno tre ottave. L'estensione effettiva varia a seconda della lunghezza della tastiera; nei modelli a 17 tasti è di tre ottave ed un tono mentre in quelli a tastiera prolungata può arrivare ad oltre quattro. All'atto pratico, tuttavia, l'elevata tensione esercitata dalle corde doppie unita all'esigua distanza tra i tasti a fine tastiera limita l'estensione effettiva in funzione della complessità esecutiva nonché della conformazione - e della forza - delle dita. In particolare, le note oltre il Do sovracuto sono di difficile esecuzione per cui vengono usate sporadicamente. In alcuni mandolini classici, la cui tastiera si prolunga oltre la buca fino a 24-26 tasti, ma in alcuni modelli fino a 39, alcuni di questi vengono rimossi (a volte limandone solo la testa per non compromettere l'estetica) per offrire una buona accessibilità ad alcune note estreme pur se a scapito della completezza cromatica.

È interessante constatare che, con la debita eccezione della mandola tenore, la famiglia dei 'plettri' condivide il medesimo schema di accordatura di quella degli 'archi': gli strumenti corrispondenti alla tessitura di soprano (mandolino e violino), contralto (mandola e viola) e baritono (mandoloncello e violoncello) sono accordati per quinte mentre in quelli dall'estensione più grave (mandolone e contrabbasso) l'accordatura è per quarte.

All'interno della famiglia dei plettri è sopravvissuta, ed anzi oggigiorno prospera grazie alla musica acustica contemporanea, una taglia da tempo estromessa dalla famiglia degli archi: la già citata mandola tenore che si pone timbricamente tra la mandola (voce contralto) ed il mandoloncello (voce baritono) ed è accordata un'ottava esatta sotto il mandolino. Sulla mandola tenore non esiste tuttora un'uniformità di vedute circa il suo nome; per esempio, negli Stati Uniti è spesso chiamata octave mandolin («mandolino all'ottava», cioè basso).

In Italia è presente la Federazione Mandolinistica Italiana (F.M.I.), che accoglie orchestre, ensembles e gruppi che utilizzano il mandolino quale strumento principale nel proprio organico. La F.M.I. rappresenta l'Italia in seno all'E.G.M.A. (European Guitar and Mandolin Association).

Uno dei gruppi più antichi è l'Estudiantina Bergamasca di Bergamo, cofondata dal compositore Angelo Mazzola.



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giovedì 18 febbraio 2016

LO SCACCIAPENSIERI

È uno strumento diffuso praticamente in tutto il mondo con caratteristiche morfologiche diverse; in Europa e India se ne hanno tracce a partire dal XIV secolo.

Uno dei più importanti centri di produzione di scacciapensieri era attivo a Boccorio, piccola località della Valsesia, in Piemonte, ai piedi del Monte Rosa. Dal centro produttivo di Boccorio, attivo dai primi anni del Cinquecento, nei periodi di massima attività, si esportavano strumenti in America centrale e settentrionale. La diffusione dell'armonica a bocca ha gradualmente ridotto la commercializzazione e la produzione dello strumento. Altro importante centro di produzione in area alpina era quello di Molln in Austria (notizie in Alberto Lovatto, The production of trumps in Valsesia, in Journal of the IJHS, n. 1-2004)

In Italia è piuttosto diffuso in Sardegna dove è noto come "trunfa" o "trumba" ed in Sicilia dove è noto come marranzanu ed è spesso utilizzato nella musica siciliana per accompagnare le tarantelle.

A Catania ogni due anni si svolge il "Marranzano World Festival".

Molto interessante è vedere l'uso che se ne fa nelle culture asiatiche dove lo strumento è costituito da un'unica lamella di bambù con una lingua mobile molto sottile al centro che viene pizzicata. In queste zone (per esempio nell'altopiano del Tibet), lo scacciapensieri viene suonato contemporaneamente all'emissione di un particolarissimo canto bifonico, tipico di queste regioni. Tale canto prevede l'emissione di due o più suoni vocali che, esaltando gli armonici, vengono prodotti contemporaneamente.

Lo strumento è anche usato dai popoli Sakha o yakut e dai Tuvani con il nome xomus, o khomus.

Lo scacciapensieri di bambù conosciuto come kubing o kumbing è usato nelle Filippine, ed è presente in molte canzoni neo-popolari di artisti quali Joey Ayala e Grace Nono. Gli igorot sono gli unici che producono l'afiw (lo scacciapensieri) fatto di bronzo.

Nel Sindh lo scacciapensieri è chiamato Changu. Nella musica Sindhi, è uno strumento da accompagnamento. Uno dei più famosi suonatori è Amir Bux Ruunjho.

Nelle regioni siberiane in particolar modo quelle abitate dalle popolazioni Evenchi, questo strumento è chiamato Vargan, e viene utilizzato con caratteristiche morfologiche diverse. Lo strumento in russia si presenta con una forma più allungata rispetto a quella italiana.



Lo scacciapensieri è uno strumento musicale idiofono costruito da una struttura di metallo ripiegata su sé stessa a forma di ferro di cavallo in modo da creare uno spazio libero in mezzo al quale si trova una sottile lamella di metallo che da un lato è fissata alla struttura dello strumento e dall'altro lato è libera. Lo strumento si suona ponendo l'estremità con l'ancia libera poggiata sui denti (senza stringere troppo) e pizzicando la lamella con un dito mentre si cambia la dimensione della cavità orale per regolare l'altezza dei suoni che può avvenire anche per mezzo di diversi posizionamenti della lingua.

Lo scacciapensieri moderno si suona in tre modi:

Pizzicando la lamella normalmente e muovendo la lingua (emette vibrazioni variabili accompagnate dal basso suono unico e proprio),
Pizzicando la lamella aumentando contemporaneamente l'estensione della cavità orale,
Pizzicando la lamella respirando contemporaneamente (emette un suono unico senza vibrazioni)

Gli scacciapensieri più remoti erano però ricavati da un unico pezzo di bambù, dove nella struttura si ritagliava la linguetta sonora. Ancora oggi sono ancora così nelle isole del Pacifico (Polinesia, Micronesia e Melanesia). A dispetto del nome da noi attribuito in Nuova Guinea lo scacciapensieri è addirittura considerato sacro ed è utilizzato come strumento cerimoniale, suonato esclusivamente dagli uomini nel corso di eventi religiosi.
La forma "moderna" a ferro di cavallo in metallo si è ideato intorno al 1350 tra l'Europa e l'India. In Italia, dove molti credono avere le sue origini, lo scacciapensieri arrivò appena nel diciannovesimo secolo. Da noi prese dunque il nome di "scacciapensieri" ed anche, nel dialetto siciliano, di mariolu, marranzanu (o marranzano) e ngannalarruni ("inganna ladroni").
Il motivo di tale appellativo era causato dal suo utilizzo per segnalare ad altri ladri o altre persone sospettate di cattive intenzioni. Serviva da segnalatore per allontanare i malintenzionati.
In Sicilia divenne ad ogni modo uno strumento d'obbligo nella composizione delle orchestrine ambulanti di cantori, che si accompagnavano con lo zufolo di canna ("Fiscalettu"), flautu, scattagnetti (le castagnette), quartara (o "bummulu", un vaso di terracotta per il trasporto dell'acqua adattato anche a strumento a fiato e dal caratteristico suono), il "circhietto con sonagli" o "tammureddu" (tamburello) e, appunto, lo scacciapensieri.

Lo scacciapensieri è catalogato tra gli idiofoni in quanto il suono è prodotto dalla vibrazione dello strumento. Erroneamente spesso viene classificato come aerofono, ma il suono è solo amplificato dalla cassa di risonanza della cavità orale, l'emissione di fiato non incide significativamente sull'esito sonoro di base e, quindi, la sua vibrazione non è prodotta dall'urto di una colonna d'aria.
Si suona avvicinando lo strumento ai denti, pizzicando con il pollice o l'indice la linguetta di metallo, variando aperture e chiusure, dimensioni e forma della bocca per ottenere altre note armoniche oltre quella unica, fondamentale, prodotta dalla vibrazione della linguetta. La cavità orale funge da cassa di risonanza di forma e volume variabili e i suoni armonici ottenuti possono essere amplificati ispirando o espirando.
Il suono è ronzante, arcaico, fondamentalmente monotono (nel senso dell'unica "nota fondamentale"). Oggi è abbastanza raro e poco utilizzato nei moderni brani musicali. Il brano più famoso con lo scacciapensieri in primo piano è sicuramente quello previsto da Ennio Morricone nella colonna sonora di un famoso western all'italiana.



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mercoledì 17 febbraio 2016

LA BENZINA

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Si mettano l’anima in pace, gli automobilisti. Perché se anche il prezzo del petrolio dovesse sfondare il suo minimo storico, che fu toccato il 10 dicembre 1998 quando le quotazioni del brent calarono a 9 dollari e 55 centesimi, mai e poi mai la benzina costerà meno di un euro al litro. Sospettano i maligni che sia tutto un gioco delle compagnie petrolifere, lestissime a rincarare se il greggio sale e invece lentissime a tagliare se il greggio scende. Nel conto c’è da mettere pure questo, ad essere sinceri.

Ma la vera colpa ce l’hanno le tasse. Negli ultimi anni, con un processo carsico, sfuggito quindi all’attenzione di quasi tutti gli italiani, il gravame fiscale sui carburanti è salito in modo vertiginoso, inarrestabile e furbesco. Al punto che oggi le imposte rappresentano ben oltre i due terzi del costo alla pompa di un litro di gasolio. La pervicacia con cui il fisco si è accanito sui derivati del petrolio viene fuori con tutta la sua arrogante evidenza da un confronto che ha fatto l’ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle fra i prezzi attuali e quelli di sette anni fa. Quando il costo del petrolio sui mercati internazionali era pressoché agli stessi livelli. Allora, nel dicembre 2008, tenendo conto che la moneta europea era decisamente più forte di oggi sul dollaro, le quotazioni del brent si attestavano intorno ai 29 euro e il prezzo medio alla pompa del gasolio per autotrazione era di un euro e 111. Oggi, con un costo medio del petrolio a circa 30 euro, il prezzo medio della nafta è invece di un euro e 251: il 12,6% in più. E questo, si badi bene, nonostante il prezzo al netto delle imposte sia del 18,8 per cento inferiore. Il che significa un rincaro del 31,4% esclusivamente attribuibile alle tasse: niente affatto sorprendente, se si pensa che in 7 anni le accise sono cresciute del 46% e il carico dell’Iva è aumentato a sua volta del 21,8 per cento. Grazie anche a un marchingegno tutto da spiegare.

Nel dicembre 2008 le accise pesavano su un litro di gasolio per 42,3 centesimi. C’erano poi da sommare 18,53 centesimi di Iva: non il 20 per cento (livello dell’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto allora vigente) rispetto ai 50,34 centesimi che all’epoca costituivano il prezzo della nafta al netto del carico fiscale, bensì quasi il doppio. Esattamente, il 36,8 per cento. La ragione? L’Iva non si applica soltanto sul prodotto industriale, ma anche sulle accise: con il risultato surreale che qui si tassano anche le tasse, per la maggior gloria del fisco.
A conti fatti, le imposte, più naturalmente le imposte sulle imposte, toccavano 60,82 centesimi, il 57,4%del totale. Mentre ora si è arrivati a 84,31, e siamo al 67,4%del totale. Una differenza di quasi 23,5 centesimi per litro, che proiettata sulle 22 milioni di tonnellate di gasolio consumate annualmente in Italia significa per il fisco un maggiore introito di quasi 5,2 miliardi di euro ogni 12 mesi. E non è cosa da poco, soprattutto considerando il subdolo meccanismo che abbiamo raccontato. Il solo effetto delle tasse sulle tasse è di quasi 14 centesimi al litro, pari a circa 3 miliardi di euro sui consumi totali di gasolio.

Poi c’è la benzina, e le cose non vanno assolutamente meglio. Perché qui le accise gravano su un litro per 72,8 centesimi, e se si aggiunge anche l’Iva, considerando anche in questo caso l’impatto delle tasse sulle tasse, il peso del prelievo fiscale sfiora un euro su un costo medio alla pompa di un euro e 421. Dato che senza imposte e con le quotazioni attuali del greggio un litro di benzina non dovrebbe costare più di 44 centesimi, se ne deduce che poco meno del 70%del prezzo finale va al fisco.

La conclusione a cui arriva l’ufficio studi della Confartigianato è che i consumatori italiani pagano il gasolio più caro di tutta Europa, con le uniche eccezioni di Svezia e Regno Unito, nonostante un costo nudo e crudo del carburante che è appena al ventesimo posto nel continente. E pagano anche la benzina più cara di tutta l’Unione, escludendo i soli Paesi Bassi. Negli Stati Uniti un litro costa 47 centesimi di euro, in Arabia Saudita 23 centesimi.

Né manca una beffa finale: perché la differenza fra il nostro prezzo della «verde» e la media europea, pari a un euro e 273, è dovuta interamente a quel meccanismo perverso dell’Iva calcolata anche sulle accise di cui abbiamo parlato. Un fatto francamente inaccettabile, da far inorridire anche la costituzione.

L'incenso di Giava, il luban Gawi era un unguento aromatico di origine vegetale scoperto nel XV secolo da Ibn Battuta. Tale sostanza venne a lungo esportata verso l'Europa, e lì gli spagnoli e gli italiani che la adoperavano le diedero rispettivamente i nomi di benjuí e benzoì, storpiature del vocabolo iniziale d'origine indonesiana; il nome preferito fu però benzoino, una voce che ebbe la meglio su tutte le altre e dalla quale deriva pure il nome della pianta da cui si estraeva l'unguento, la Styrax benzoin. Nei secoli seguenti ci furono diversi studi chimici su questa sostanza, curati in epoche diverse da Blaise de Vigenère, Liebig, Wöhler, Mitscherlich e il suo allievo Péligot, che portarono a diverse interessanti scoperte:
i gas raffreddati di questa sostanza davano formazioni cristalline bianche polverizzabili, dette fiori di benzoino.
La sostanza costituente questa polvere era un acido di formula C7H6O2, chiamato acido benzoico in italiano e benzoesäure in tedesco.
Il riscaldamento dell'acido benzoico con calce e la conseguente distillazione davano una sostanza di formula C6H6, che per derivazione fu chiamata benzin in tedesco e benzene in italiano; essa aveva le proprietà di essere odorosa, trasparente e infiammabile.
Fu così scoperto il benzene, il primo degli idrocarburi ciclici aromatici; in seguito si trovò il modo di estrarlo anche dal petrolio: in petrolchimica, una frazione di distillazione di esso, ad alto contenuto di benzene, fu perciò chiamata benzina.

La benzina comunque acquisì comunemente questo nome solo dopo che cominciò a essere usata come combustibile nel motore a scoppio. In precedenza veniva chiamata spirito di petrolio e veniva considerata un sottoprodotto di scarto della distillazione e non avendo alcun utilizzo pratico veniva smaltita nei fiumi.

Il petrolio grezzo viene lavorato nelle raffinerie e comincia il suo percorso entrando in una colonna di distillazione. Qui viene separato nei suoi componenti che sono leggeri come i GPL (gas di petrolio liquefatti) e pesanti come i residui. Prodotti intermedi sono la benzina (ancora da considerarsi non impiegabile per l'autotrazione), il kerosene e il gasolio leggero e pesante.

La benzina estratta dalla colonna di distillazione è presente in percentuali molto variabili, in quanto ogni greggio è diverso dagli altri e perciò può formare una miscela di prodotti particolare. La benzina semilavorata che esce dalla colonna di distillazione, deve essere trattata in un impianto di desolforazione con idrogeno. Lo zolfo infatti è un veleno per il catalizzatore dell'impianto successivo in cui verrà trattata per incrementarne il numero di ottano.

La benzina che esce dall'impianto di desolforazione va quindi a un impianto detto reformer che deve incrementare il numero di ottano grazie all'azione di un catalizzatore di platino che lavora in atmosfera di idrogeno. In uscita si ha una benzina con un numero di ottano molto più alto di quello in ingresso (questo fenomeno è dovuto alla formazione di aromatici nel processo di reforming) e l'entità dipende dal tipo di benzina che è stata usata come carica e anche da come è stato esercito l'impianto (severità). Si può ottenere facilmente una benzina con numero di ottano RON = 100. Il RON è un indice rappresentativo del potere antidetonante della benzina; più è alto più la benzina in camera di combustione del motore brucia senza dare luogo al fenomeno del "battito in testa", decisamente dannoso per il motore.

La benzina (ora detta riformata) non ha ancora tutte le caratteristiche previste dalla legge per essere commercializzata; queste infatti sono ottenute operando un mix (blending) con altri prodotti della lavorazione del greggio come per esempio la benzina di cracking catalitico detta LCN, la benzina isomerizzata ottenuta in impianti di isomerizzazione dei componenti più leggeri C5/C6, l'alchilata. Anche l'MTBE prodotto da impianti petrolchimici e petroliferi è molto usato nel mix per ottenere le specifiche di legge per la sua commercializzazione.

L'uso come carburante della benzina impone che essa abbia determinate caratteristiche:
adeguata volatilità (sufficiente per un rapido avvio del motore);
buona capacità antidetonante (capacità di non accendersi per la semplice pressione del pistone).
Quest'ultimo dato si misura con il numero di ottano (NO). Questo è un indice di riferimento a una scala, in cui l'isoottano puro è uguale a 100 (poco detonante) e il n-eptano è uguale a 0 (molto detonante). Per migliorare le proprietà antidetonanti della benzina si è in passato fatto ricorso ad additivi costituiti da composti del piombo il cui impiego, per gli effetti inquinanti, ha portato alla nascita della cosiddetta benzina verde, a basso tenore di piombo. In questa, l'agente antidetonante precedente (piombo tetraetile) è stato sostituito principalmente dal benzene, ma vengono utilizzati anche metil-tert-butil-etere (MTBE) ed etil-tert-butil-etere (ETBE). Una direttiva Ue ha proibito in tutta l'Unione europea la commercializzazione delle benzine contenenti piombo, a partire dal 2000.

L'uso di MTBE è stato recentemente bandito negli Stati Uniti d'America per l'effetto fortemente inquinante per le falde acquifere e in quanto cancerogeno. L'ETBE viene preso ultimamente in maggiore considerazione in quanto parzialmente proveniente da fonte rinnovabile. Esso consiste infatti in un prodotto di reazione tra isobutilene ed etanolo, che può esser di origine agricola.

La benzina è estremamente infiammabile, tanto da riuscire ad accendersi con una semplice scintilla anche a distanza. Viene definito come uno dei liquidi infiammabili più pericolosi; difatti ha provocato molti danni in passato a causa di incendi ed esplosioni.

A seconda del processo utilizzato per il suo ottenimento, si possono identificare le seguenti tipologie di benzina:
benzina di reforming.
benzina di cracking termico: è utilizzata come componente per benzine di autoveicoli o per oli combustibili;
benzina di polimerizzazione: è ottenuta tramite polimerizzazione di composti idrocarburici insaturi liquidi; è utilizzata come componente per le benzine di autoveicoli;
benzina di alchilazione: presenta un numero di ottano più elevato (= 100); si utilizza come componente per la benzina di motori aeronautici e come componente di benzina per autoveicoli.
Le tipologie anzidette vengono utilizzate come componenti di miscele più complesse (alle quali si aggiungono anche particolari additivi), per ottenere varie tipologie commerciali di benzina (che si distinguono in base all'utilizzo alle quali sono destinate), tra cui:

benzina verde (o benzina senza piombo): viene usata nei motori a scoppio o come comburente; è la più prodotta e utilizzata nel mondo in ambito automobilistico;
Superplus 98: simile alla benzina verde, ma con numero di ottano superiore;
benzina avio (o AvGas in inglese): è utilizzata per i motori aeronautici e per i motori dei veicoli da corsa (ad esempio nei motori di MotoGP).
In ambito automobilistico, in Italia è attualmente disponibile la benzina senza piombo con numero di ottano 95 (detta anche "Eurosuper"), che tutti i paesi dell'Unione europea hanno l'obbligo di adottare. Inoltre in quasi tutta l'Unione esiste la Superplus con numero di ottano pari a 98. In Italia è adottata dalla IES e da compagnie locali, ed è resa meno inquinante grazie ad alcuni additivi. In Italia è inoltre disponibile benzina con numero di ottano 100, commercializzata da Shell, Tamoil, Eni e IP (quest'ultima ha aumentato gli ottani). Le benzine con numero di ottano 98 o superiore spesso vengono integrate con altri agenti in grado di mantenere pulite le parti interne del motore evitando la formazione di depositi carboniosi che possono influire negativamente su prestazioni e consumi. Queste particolari benzine sono indicate soprattutto per i motori con elevati rapporti di compressione e per quelli di vecchia concezione. Le auto progettate alcuni decenni fa, infatti, non beneficiavano del know-how odierno riguardo alle geometrie delle camere di combustione e alla loro influenza sui fenomeni di detonazione, mentre gli spinterogeni fornivano la corrente alle candele con una precisione del momento di accensione assai modesto e nemmeno lontanamente paragonabile agli attuali sistemi elettronici; questi limiti tecnologici portavano, a pari rapporto di compressione (cui è legata l'efficienza della combustione, quindi il rapporto prestazioni/consumi), a una richiesta ottanica superiore ai motori attuali, e infatti la super a 98/100 ottani era la benzina più diffusa, soprattutto dagli anni Settanta in poi.




La colorazione verde non è caratteristica del prodotto, ma ottenuta per aggiunta di apposito colorante.

Da un punto di vista chimico, la benzina è di norma una miscela di idrocarburi paraffinici tra C6H14 (esano) e C8H18 (ottano) in proporzione variabile; vengono aggiunti additivi come appunto l'MTBE e altri con funzione essenzialmente detergente.

Tra i possibili additivi della benzina, ci sono:
etanolo, è quello più eco-compatibile. Se anidro (puro) ha numero di ottano di circa 110 e può essere aggiunto in qualsiasi proporzione alla benzina.
L'alcol etilico al 95%, per via del 5% d'acqua che contiene, può essere invece addizionato alla benzina in ragione non superiore al 5%, al di sopra infatti presenta problemi di stabilità della miscela che portano alla separazione delle due specie benzina e acqua.
L'alcol è un sostituto non tossico né cancerogeno di altri additivi presenti ora nelle benzine in funzione di antidetonante. Se di origine vegetale, il bilancio ambientale dell'anidride carbonica che rilascia in atmosfera è più basso di quello di origine industriale, in quanto parte dell'anidride carbonica è assorbita durante la coltivazione della specie vegetale da cui è stato ottenuto.
nitrometano, il nitrometano è una sostanza tossica. Come additivo non ha controindicazioni se aggiunto in piccola percentuale - es. 1% -( la sua concentrazione è proporzionale alla corrosione delle parti meccaniche del cilindro). Questa sostanza è costituita da un potere calorifico corrispondente a circa il 27% rispetto a quello della benzina, ma richiede una minore quantità di comburente ovvero se il rapporto stechiometrico aria: combustibile per la benzina è di 14,7:1, per il nitrometano sarà 1,9:1.In parole povere necessita di minore quantità di aria per la sua combustione: è per questo motivo che con un corretto rapporto stechiometrico aria/combustibile il nitrometano darà alla fine dei conti una maggiore energia di scoppio( due volte e mezzo circa rispetto a quella della benzina). Il nitrometano non è miscibile facilmente con la benzina, quindi è opportuno che venga accompagnato da solventi quali acetone o toluene. Dato il suo alto potere di ossidare, i motori a scoppio nell'ambito del modellismo dinamico sono rivestiti da pareti in alluminio che risulta più resistente alla corrosione delle leghe di metalli con cui vengono costruiti i motori delle automobili stradali. Il suo uso riduce, anche sensibilmente, la vita residua del motore.
metanolo, questo additivo ha proprietà di solvente, è tossico e induce depressione del SNC (sistema nervoso centrale), aumenta il potere antidetonante, ha un potere calorifico inferiore (il 51% circa di quello della benzina) e richiede meno comburente, quindi a conti fatti se viene portato a combustione con il giusto rapporto stechiometrico genera un'energia del 26 % circa in più rispetto alla benzina.
acetone, ha una relativa bassa tossicità e vien utilizzato come antidetonante e usato fino al 5% aumenta la volatilità della benzina, migliorando l'avviamento.
benzene, è tossico e viene utilizzato come antidetonante.

La benzina senza piombo (o benzina verde) è il tipo di benzina più prodotto e più diffuso in Europa e negli Stati Uniti d'America. Tutte le auto prodotte a partire dal 1994 utilizzano la benzina senza piombo ed è, a partire dal 1º gennaio 2002, l'unico tipo di benzina disponibile in Europa (insieme alla Superplus 98), dopo l'eliminazione della benzina al piombo, soprannominata benzina rossa per via del colorante.

L'utilizzo della benzina verde è avvenuto gradualmente tra le diverse nazioni, l'Austria la introdusse già nel 1985 e nel 1987 l'obbligo delle marmitte catalitiche, mentre nel 1993 è stato introdotto il divieto generale di impiegare benzina contenente piombo.

Le direttive della Comunità europea indicano per il futuro l'uso generalizzato di questa benzina, con l'uso e la costante manutenzione delle speciali marmitte catalitiche o catalizzatori, perché il loro mancato utilizzo rende la benzina verde più pericolosa e nociva della benzina al piombo. Questi catalizzatori, attualmente, sono di tipo "autorigenerante" e hanno una vita più lunga dei loro predecessori che dovevano essere sostituiti ogni 2 anni.

Con l'adozione di queste norme si dovrebbero diminuire notevolmente l'inquinamento da gas di scarico delle auto e del piombo (metallo tossico alla salute), particolarmente avvertito nelle grandi città.

Durante i primi tempi di commercializzazione, perplessità sono state avanzate da parte degli esperti perché nella benzina senza piombo veniva aumentata la percentuale di particolari idrocarburi detti aromatici, come il benzene, che sono cancerogeni. In particolare si sosteneva l'illogicità della sostituzione di un prodotto tossico soprattutto per il sistema nervoso centrale quale il piombo, con un cancerogeno. Questa era una scelta tecnica, per poter fare funzionare correttamente i catalizzatori che col piombo sarebbero stati resi inutili dopo pochi chilometri. Per la stessa ragione, nel gasolio si tende eliminare lo zolfo, ugualmente nocivo per i metalli nobili presenti nei dispositivi. I dubbi, inoltre, sorgevano per il fatto che nei primi anni novanta, molte ancora erano le auto prive di catalizzatore. Il benzene è stato progressivamente diminuito anche grazie alle sempre più stringenti normative europee. Analizzando la composizione chimica dei combustibili in commercio, tra cui la benzina, notiamo che essa non è assolutamente più quella di un tempo. Gli stessi costruttori di auto auspicano carburanti sempre migliori per i sempre più raffinati impianti di catalizzazione, che devono rispettare a ogni nuova normativa (Euro 4, 5, 6…) limiti inferiori di circa la metà. Cioè, tralasciando l'emissione di CO2, gas tra l'altro atossico, un'auto Euro 4 inquina il doppio di una Euro 5, e così via.

Con il DL numero 5 del 9 febbraio 2012 recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo” l'Agenzia delle Dogane comunica l'abrogazione della colorazione della benzina super senza piombo.



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sabato 13 febbraio 2016

LA LINCE

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Una volta questo felino era presente in tutta Europa. Dalla metà del XX secolo si è estinto in molti Paesi dell'Europa centrale e dell'Europa occidentale ma sono stati attuati numerosi progetti di reintroduzione.

Le linci sono felidi di dimensioni medie, caratterizzati dalla presenza di orecchi appuntiti, ornati da un ciuffo di peli a pennello, di un corpo robusto, di zampe lunghe e coda corta. Le linci vivono soprattutto nelle foreste, ma anche nelle steppe e nei deserti. Sono carnivori e per questo rappresentano una minaccia costante per la selvaggina e per gli animali domestici. Questo mammifero è lungo circa 1,20 metri. L'altezza, misurata alla spalla è di circa 60 centimetri. I maschi adulti pesano dai 30 ai 40 chilogrammi. Il colore del pelame appare grigio rossastro, frammisto a bianco e screziato di macchie bruno-rosse o bruno-grigie. L'interno delle zampe, la regione anteriore del collo, le labbra ed il contorno degli occhi si presentano bianchi. La coda corta è folta ed è provvista di anelli scuri e nera all'estremità. Al contrario del lupo, la lince si trattiene a lungo nel medesimo territorio. Durante la notte si avvicina ai villaggi per aggredire gli animali domestici. La lince conduce un'esistenza solitaria. La sua intelligenza, l'astuzia e le sue qualità fisiche di cui è dotata, non la rendono inferiore a nessun altro felino. La lince è capace di saltare su rami alti 2 metri e piombare sulla preda come un razzo, le sue grosse zampe le permettono di muoversi sulla neve senza difficoltà e di inseguire la preda senza fare rumore. La pelliccia della lince è apprezzata, come pure la sua carne. Il periodo degli amori cade in inverno. I maschi urlando, intraprendono furiosi combattimenti per la conquista delle femmine. Dopo un periodo di circa 60 giorni, la femmina partorisce da 3 a 4 piccoli in qualche buca nascosta oppure sotto una roccia. I neonati pesano circa 300 grammi e aprono gli occhi solo a circa 8 giorni dopo la nascita. Una volta svezzati la madre li nutre con piccoli uccelli o topolini, poi li addestra alla caccia.
La lince, a causa della sua presunta pericolosità, è stata in passato perseguitata e, in alcune regioni europee, addirittura sterminata. In realtà si tratta di un animale molto elusivo e schivo e pertanto quasi innocuo per l'uomo. Probabilmente nei secoli addietro vi sono state alcune aggressioni della lince all'essere umano, ma al giorno d'oggi sono assai rare. Fondamentalmente i motivi della sua scomparsa da vaste regioni d'Europa sono le aggressioni al bestiame (gatti, pollame, capre, pecore o vitelli) e la sua fulva pelliccia maculata, che suscitava le attenzioni dei bracconieri. Le possibilità di osservare direttamente la lince in natura sono estremamente ridotte e solo le sue tracce o i resti dei suoi pasti consentono di intuirne la presenza. Una particolarità della lince è la sua grande intelligenza e la sua attitudine all'addomesticamento: è stato dimostrato che quest'animale è in grado di condividere con l'uomo lunghi periodi di vita. Sono stati accertati i segni di un suo ritorno nel nord Italia e nell'Italia centro-meridionale. La sua presenza è stata accertata negli ultimi anni sui monti della Sila, in Calabria, dove si credeva scomparsa.
Per l'ampiezza del suo areale che va dai Pirenei, passando per l'italia e l'est europeo fino alle foreste siberiane e la complessiva numerosità della popolazione, la IUCN Red List classifica Lynx lynx come specie a basso rischio.

La lince vive solitamente nelle regioni boschive con un terreno abbastanza aspro e roccioso dove si possono nascondere e moltiplicare le prede e vi è quindi maggior possibilità di trovare animali da cacciare. Un territorio roccioso è importante anche per poter trovare più facilmente rifugio durante l'inverno o durante l'accudimento dei cuccioli. La sua zona di caccia è molto ampia e varia mediamente tra i 200 ed i 300 km², a volte arriva a superare i 400 km².



In Italia ci sono avvistamenti sporadici nelle Alpi Occidentali (Parco Nazionale del Gran Paradiso) per esemplari provenienti dalla Francia ove sono in corso progetti di reintroduzione. Individui provenienti dalla Slovenia si sono trasferiti stabilmente in Italia ai confini nordorientali del Friuli. Diversi esemplari nel Parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise, segnalata la presenza nel Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, nel Parco nazionale della Majella e nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi; un abbattimento illegale, negli anni '80, è stato segnalato in Provincia di Bolzano. Fonti certe parlano di avvistamenti anche nell'appennino Tosco-Emiliano, precisamente nel Parco nazionale delle Foreste Casentinesi e ancora sulle Alpi sull'altopiano di Asiago.
In Francia si è estinta nel XX secolo ma reintrodotta nei Vosgi e nei Pirenei. Presente nel Parco nazionale della Vanoise confinante con il parco italiano del Gran Paradiso. Presente anche in diversi punti vicino al confine con la Germania e Paesi Bassi
In Germania la lince fu sterminata nel 1850. È stata reintrodotta nella Foresta bavarese e nel Harz negli anni '90. Nel 2002 ci fu la prima nascita di linci nel territorio tedesco: una coppia ha avuto i natali nel Parco nazionale Harz. Presente nella Foresta Nera e in molte zone al confine con la Polonia.
In Svizzera è stata estinta nel 1915, reintrodotta nel 1971. Da qui le linci sono passate in Austria e Slovenia, dove erano scomparse.
In Polonia ci sono circa 200 linci nella Foresta di Bialowieza e nei Monti Tatra e diversi altri avvistamenti in varie zone della Polonia.
Nei Carpazi si stimano circa 2200 linci in questa catena montuosa, che si estende dalla Repubblica Ceca alla Romania; la più grande popolazione di linci a ovest del confine con la Russia.
In Serbia, Macedonia, Albania e Grecia e nella zona interna della Croazia si stimano circa circa 150 linci.
In Scandinavia ci sono circa 2500 linci in Norvegia, Svezia e Finlandia. Le linci scandinave erano sull'orlo dell'estinzione, ma il loro numero è aumentato dopo la protezione. Per questo la caccia alle linci è stata di nuovo legalizzata, seppur in alcuni periodi dell'anno
Più del 60% di tutte le linci eurasiatiche vive nelle grandi foreste siberiane. Sono distribuite anche in altre zone della Russia dai confini occidentali, al Caucaso fino all'isola del Pacifico di Sakhalin.

La lince è nativa delle province cinesi di Gansu, Qinghai, Sichuan e Shaanxi, come di Mongolia, Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan Tagikistan.



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