venerdì 30 ottobre 2015

LA LAVATRICE

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Prima della lavatrice, fare il bucato era un lavoro ingrato e faticoso, svolto soprattutto dalle donne, anche in modo collettivo: oggi, a buon diritto la lavatrice è considerata l'alleata numero uno delle famiglie e una delle principali artefici dell'emancipazione femminile. La lavabiancheria, ormai onnipresente nelle nostre famiglie, è senz'altro il primo elettrodomestico, insieme al frigorifero, da acquistare quando si mette su casa. Non è neppure pensabile poterne fare a meno. 

Il primo esemplare di lavatrice fu sviluppato nel 1767 da un teologo di Ratisbona, Jacob Christian Schäffer. I primi modelli di macchine meccaniche risalgono alla fine del XIX secolo; come è accaduto per moltissime invenzioni, ci si è inizialmente ispirati a meccanizzare il processo manuale: le prime lavatrici, infatti, furono concepite come macchine atte a "sfregare" i panni, simulando così l'effetto manuale del modo più diffuso di lavare la biancheria. Le macchine così realizzate, il cui movimento fu inizialmente manuale, poi elettrico, presentavano però l'evidente svantaggio di provocare un'usura eccessiva dei panni, nonché risultati di lavaggio decisamente deludenti. La prima ed unica soluzione efficace fu l'adozione dell'agitatore: il principio è quello di forzare la soluzione detergente attraverso le fibre dei tessuti agitandoli e "sbattendoli" attraverso l'acqua. Sviluppata in America, questa tecnologia è sostanzialmente ancora oggi praticamente la più diffusa nel mondo nonché la più efficace. Negli anni venti ci fu qualche tentativo di adottare nuove tecnologie di lavaggio, con la comparsa delle lavatrici a cestello (ad asse orizzontale) che trovarono però impiego nel tempo specialmente per le applicazioni industriali le quali curavano di meno l'aspetto della pulizia e smacchiatura nel lavaggio a macchina. Infatti la biancheria veniva e a tutt'oggi viene, in queste circostanze, solitamente controllata e smacchiata preventivamente a mano prima del lavaggio, e comunque poi scrupolosamente controllata anche dopo il lavaggio per verificare la completa rimozione dello sporco, ed eventualmente smacchiata manualmente anche dopo il lavaggio.



I modelli ad agitatore sostanzialmente forniscono prestazioni migliori sui risultati di lavaggio e furono quindi, generalmente, preferiti ai modelli a cestello ad asse orizzontale e furono via via dotati di ulteriori funzionalità: resistenze per il riscaldamento dell'acqua, mangani a rulli per la strizzatura della biancheria. Lo sviluppo di questo modello vide la realizzazione delle cosiddette "twin tub", cioè delle lavatrici a due vasche: una, con agitatore, nella quale si effettuava il lavaggio dei panni, l'altra, con cestello ad asse verticale, dove i panni venivano risciacquati e strizzati per centrifugazione; questo modello è tuttora piuttosto diffuso, soprattutto nei paesi asiatici e africani. Il modello con vasca unica e cestello ad asse orizzontale, tipicamente europeo, non ha invece riscontrato grande successo negli USA, dove naturalmente anche per le automatiche si è proseguiti con la produzione e quindi l'uso preferenziale di lavatrici ad agitatore, anche se ci sono aziende che hanno realizzato numerosi modelli a cestello ad asse orizzontale.

Dopo la Seconda guerra mondiale, lo slancio industriale che caratterizzò soprattutto l'Europa occidentale vide nascere nuove esigenze e desiderio di benessere: a livello domestico (anche per il ruolo della donna che stava considerevolmente cambiando, soprattutto in Italia) le industrie elettromeccaniche iniziarono una fervida attività di ricerca e produzione di lavatrici. La Germania, che già prima della guerra aveva iniziato la produzione di lavatrici, riprese continuando sulla scia della tecnologia inizialmente adottata, che vedeva una decisa scelta per i modelli a cestello ad asse orizzontale. Le lavatrici tedesche, anche prodotte dopo la guerra, erano però caratterizzate da notevoli problemi statici, poiché prive di sospensioni (la vasca era solidale con la scocca della macchina) che ne rendevano piuttosto complicata l'installazione: dovevano infatti essere fissate al pavimento. In Italia, invece, si adottò inizialmente il modello americano, con agitatore ad una vasca e mangano per la strizzatura (Candy modello 50, prodotta nel 1947), poi il modello classico a due vasche, semi-automatico (Candy bi-matic, prodotta nel 1957, Rex-Zanussi mod. 250, prodotta alla fine degli anni cinquanta) e, in seguito sulla scia dei moltissimi modelli automatici importati dalla Germania anche in Italia si proseguì la produzione di lavatrici automatiche a modello tedesco, quindi a cestello (ad asse orizzontale) con i modelli (Candy Automatic, 1959, Rex-Zanussi modello 260 etc.) ulteriormente evoluti nelle superautomatiche a seguito dell'adozione delle vaschette per il detersivo separate (per pre-lavaggio, lavaggio, additivi di risciacquo). Le lavatrici hanno raggiunto la maturità di prodotto negli anni successivi, che in Europa si è concentrata in particolare sull'efficienza energetica, raggiungendo di fatto un livello di riferimento a livello globale in termini di riduzione di consumo d'acqua ed energia.



La prima lavatrice elettrica fu lanciata negli Stati Uniti nel 1907 da Alva Fisher.

L'introduzione del microprocessore in questo elettrodomestico ha permesso di facilitarne l'uso, di migliorare il lavaggio ed al contempo di ridurne l'usura: il timer permette di posticipare con precisione l'ora di partenza del lavaggio; i sensori di posizione del cestello, collegati al processore, permettono l'avvio della centrifugazione solo quando la biancheria è stata distribuita uniformemente, in modo da non sollecitare eccessivamente i cuscinetti di supporto del cestello; a fine lavaggio, con partenza automatica, il cestello può ruotare di mezzo giro a intervalli regolari per non far impaccare la biancheria già semiasciutta.

Attualmente l'utilizzo di una moderna lavatrice si rivela semplice e versatile: è sufficiente infatti aprire lo sportello del detersivo e inserire il detersivo stesso (mediante misurini anti-spreco), mettere i capi da lavare nello sportello dell'oblò, richiudere lo sportello e utilizzare vari pulsanti per decidere le funzioni della lavatrice stessa (velocitá, tempo minimo, asciugatura, ecc...) Le lavatrici attuali dispongono di una chiusura automatica di sicurezza dell'oblò, riapribile solo dopo la fine del lavaggio stesso, e di vari misurini e flaconi di detersivo già preparato. Posizionando questi flaconcini assieme ai capi da lavare, si potrà ottenere un lavaggio migliore senza perdere le qualità del lavaggio stesso ed eventuale parte del detersivo usato; (da qui il nome anti-spreco.)

Alcuni modelli di lavatrice hanno porte USB o dispositivi Wi-Fi per essere collegate a sistemi di domotica. Una importante innovazione è stata attuata dalla svizzera "v zug", con la creazione di una lavatrice dotata di pompa di calore e quindi capace, a parita' di temperatura di lavaggio, di dimezzare il consumo effettivo di elettricità. La via dell'impiego di pompe di calore nelle lavatrici non e' attualmente seguita da altri produttori, poiche' l'Energy Label europea non richiede che la temperatura dichiarata per i cicli di lavaggio esaminati venga effettivamente raggiunta: risulta quindi piu' conveniente, per consumare meno energia, scaldare meno l'acqua allungando al contempo la durata del lavaggio.

A partire dal maggio 1999, su tutte le lavatrici deve essere apposta l'etichetta di "efficienza energetica" che suddivide le macchine in classi di efficienza energetica a seconda di una serie di parametri verificati in un ciclo di lavaggio di cotone a 60 °C. Le classi sono contraddistinte da lettere, alla classe A corrisponde la valutazione migliore. I progressi nel campo della tecnologia hanno permesso recentemente di raggiungere macchine che hanno consumi inferiori alla classe A e dal 20 dicembre 2011 è diventata obbligatoria la nuova etichetta energetica che include classi di efficienza superiori alla classe A per l'energia introducendo le varie A+, A++ e A+++, con ciascun "+" ad indicare una riduzione del 10% del consumo rispetto alla classe energetica A, inoltre il test è effettuato non solo sul programma a 60 °C a pieno carico ma anche su quello a 40 °C e a 60 °C con carico parziale. Per finire non è più necessario indicare l'efficacia di lavaggio in quanto tutte le macchine in commercio garantiscono risultati in "classe A" grazie a tempi di lavaggio sempre più lunghi.



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mercoledì 28 ottobre 2015

LA ROSA DI GERICO

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La rosa di Gerico (Anastatica hierochuntica) è una pianta della famiglia delle Brassicaceae, unica specie del genere Anastatica.

Il nome è dovuto dal fatto che è originaria del Medio Oriente. In altre lingue è anche conosciuta come rosa di Fatima.

È una piccola specie erbacea che raramente cresce più di 15 centimetri, produce piccoli fiori bianchi.

Il ciclo vitale di questa specie annuale si conclude all'inizio della stagione secca, quando la pianta disidratandosi ripiega i rami in una massa sferoidale compatta. Questo protegge i semi e ne previene una dispersione prematura. I semi dormienti possono rimanere vitali per anni. Quando bagnata, i rami si allargano e i semi vengono dispersi dalla pioggia battente. Nel giro di poche ore questi germogliano e danno vita alla nuova generazione. Il processo di ripiegamento e distensione dei rami è completamente reversibile e può avvenire molte volte. Dato il ciclo annuale della pianta, questa muore all'inizio della stagione secca, non comportandosi come la vera "pianta della resurrezione". La Selaginella lepidophylla è una felce, non una brassicacea come la vera Anastatica hierochuntica L. Questa confusione è dovuta alla sua originaria diffusione fatta dai crociati che per primi portarono in Europa queste piante.

La specie è diffusa nel Nord Africa, Asia minore e Israele.



La falsa rosa di Gerico (Selaginella lepidophylla Spring), è una specie di licopodiofita della famiglia delle Selaginellacee, originaria del deserto di Chihuahua, in America centrale. Viene spesso confusa con Anastatica hierochuntica, la vera rosa di Gerico.
La S. lepidophylla è una pianta che si è adattata a sopravvivere alle condizioni di prolungata siccità del suo ambiente naturale tramite un interessante strategia fisiologica: anziché modificare il proprio metabolismo, cercare di trattenere acqua durante il giorno e assorbire quanta più umidità possibile durante la notte, lascia che i propri tessuti si secchino (per disidratazione) e induce durante tale processo dei meccanismi fisiologici di resistenza a percentuali di umidità molto basse (fino al 5%). Quando l'umidità del terreno e dell'aria torna a salire, anche dopo molto tempo da quando si è appassita, questa pianta è in grado di reidratarsi e recuperare perfettamente le proprie capacità fotosintetiche e di crescita. Piante di questo tipo sono state chiamate 'piante della resurrezione' (ne esistono circa 330 specie conosciute in tutto il mondo e capaci di simili adattamenti). Non sempre però le piante della resurrezione riescono a 'risorgere': nel caso della falsa rosa di Gerico, se la disidratazione è stata troppo rapida, o in caso di un'alternanza irregolare di condizioni di siccità e umidità, la pianta non ha il tempo di prepararsi a dovere a resistere allo stress idrico a cui è sottoposta. Allo stesso modo le capacità di seccarsi e riprendere a vivere possono scemare nel tempo e la pianta, dopo decine di volte in cui riesce ad alternare il disseccamento e la crescita vegetativa, muore.




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IL COYOTE

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Il coyote, il cui nome scientifico è Canis latrans della famiglia dei Canidae è un mammifero molto diffuso che ritroviamo in gran parte dell'America settentrionale e centrale in un ampio territorio delimitato a nord dall'Alaska e a sud da Panama.

E' difficile descrivere l'habitat tipico del coyote in quanto la sua particolarità è che è uno tra gli animali maggiormente adattabile in quanto è in grado di modificare la propria dieta, le abitudini e tutto il suo stile di vita, qualora si rendesse necessario per la sopravvivenza. Questo comporta pertanto che il suo habitat sia estremamente vario: le praterie, le foreste di montagna, i deserti ed anche i sobborghi delle città come le aree agricole, sono diventati dei luoghi dove è possibile ritrovarlo. Una sola eccezione sono le aree dove sono presenti i lupi dalle quali il coyote tende a tenersi lontano.

I coyote appartengono non solo alla stessa famiglia ma anche allo stesso genere dei lupi (Canis lupus) ai quali rassomigliano, sono solo di dimensioni più piccole.

Il coyote è un animale molto agile (può saltare fino a 4 m), veloce (può raggiungere i 65 km/h) ed intelligente (adatta la propria vita in base alle disponibilità del cibo). E' caratterizzato da un mantello il cui colore varia dal grigio, al giallo, al marrone, al bruno con la gola ed il ventre di colore biancastro.

Presentano le orecchie diritte e la coda cadente che viene usata in segno di minaccia infatti quando il coyote vuole essere aggressivo posiziona la coda in modo orizzontale rispetto al terreno e drizza il pelo.

Un'altra particolarità del coyote sono i suoi sensi, particolarmente sviluppati: ha un udito molto sensibile e le orecchie oltre che per udire, servono anche a segnalare il proprio rango ed umore; l'olfatto è molto sviluppato e viene usato per localizzare prede e carogne; la vista è molto acuta.

Il coyote ha delle zampe robuste ed è un digitigrado vale a dire che cammina poggiando sul terreno solo le dita. E' provvisto di cinque dita nelle zampe anteriori e quattro nelle zampe posteriori.

La sua estrema adattabilità alle diverse situazioni comporta uno stile di vita estremamente variabile. Infatti ad esempio se nella zona dove vive il cibo è formato solo da piccoli animali il coyote vive da solo o con la sua compagna; là dove invece le prede sono più grosse (e quindi non possono essere cacciate da un singolo individuo o da pochi) vive in branchi. I branchi pertanto sono creati a seconda delle circostanze e non sono permanenti.



Un branco, se formato, è costituito da 3 a 8 individui dove è presente una coppia dominante in età riproduttiva, i loro piccoli e la prole nata l'anno precedente.

I coyote sono animali prevalentemente notturni anche se non è infrequente vederli a caccia anche di giorno. Durante la giornata di solito stanno nella tana che può essere un buco nel terreno spesso ottenuto allargando tane preesistenti di altri animali. Queste tane sono in genere utilizzate per un anno e poi cambiate e sono caratterizzate dal fatto di avere diverse entrate.

Il caratteristico ululato del coyote è formato da una serie di acuti guaiti ai quali segue un lungo lamento ed il coyote li emette sollevando la testa, tenendo la bocca ben spalancata e mostrando i canini. Sembrerebbe che venga emesso per indicare la propria posizione oppure, quando sono emessi dal branco, per delimitare il proprio territorio.
 
Sia che viva in branco o da solo in coyote marca sempre il proprio territorio con l'urina.

I coyote sono animali molto comunicativi e comunicano soprattutto attraverso segnali vocali (sono tra i mammiferi che utilizzano maggiormente questa caratteristica) che possono essere di diverso tipo per indicare diverse situazioni: per chiedere aiuto agli altri membri del gruppo; per segnalare la presenza di altri coyote; per segnalare situazioni di pericolo, ecc.

I coyote sono fondamentalmente dei carnivori e la loro dieta tipica è a base di piccoli mammiferi quali conigli, scoiattoli, topi. Possono anche mangiare serpenti, piccoli uccelli, pesci ed invertebrati. In genere preferiscono la carne fresca ma non disdegnano le carogne, gli animali domestici, i rifiuti urbani. Una particolarità rispetto a molti altri carnivori è che si nutrono anche di frutta e verdura specialmente in autunno ed in inverno quando le altre fonti di cibo scarseggiano.

Il modo di cacciare del coyote è particolare: fa gli appostamenti acquattandosi nell'erba dopo essersi avvicinato molto cautamente; improvvisamente, quando ritiene che sia arrivato il momento giusto spicca un salto sulla preda tenendo rigide tutte e quattro le zampe e ricade su di essa con le zampe anteriore bloccandola per poi ucciderla con un morso.

Nel caso di animali di grandi dimensioni quali ad esempio un cervo vige un rigoroso lavoro di squadra: possono inseguirlo a turno fino a sfinirlo oppure alcuni lo inseguono dirigendolo verso altri del gruppo che aspettano nascosti.

I coyote non cacciano mai troppo lontano dalla loro tana ma si mantengono in un raggio di circa 4 km.

Il periodo riproduttivo va da gennaio a marzo con la nascita dei piccoli in primavera, periodo di maggiore abbondanza di cibo per i cuccioli. Le femmine hanno un periodo molto breve per accoppiarsi in quanto l'estro dura dai 2 ai 5 giorni ed in questo periodo viene corteggiata da diversi maschi ed il maschio che sceglierà sarà suo compagno per lunghi anni, anche se non necessariamente per tutta la vita.

I cuccioli nascono dopo circa 60-63 giorni in numero variabile da 1 a 19 (la media è in genere 6 cuccioli) e pesano circa 250 gr. Alla nascita sono ciechi e sono allattati dalla madre e solo dopo 10-14 gg aprono gli occhi ed iniziano a consumare cibo semi-solido che viene rigurgitato da entrambi i genitori e le orecchie iniziano ad assumere la conformazione adulta.
 
Dopo circa 28 gg dalla nascita i piccoli iniziano ad uscire dalla tana e dopo 35 gg sono completamente svezzati. In genere i coyote maschio lasciano per sempre la tana dei genitori dopo 6-9 mesi mentre le femmine tendono a restare e a costituiscono la base del branco.

I coyote solo dopo 9-12 mesi sono da considerare adulti.

Il principale predatore del coyote è sicuramente l'uomo in quanto si avvicina spesso alle periferie dei centri urbani alla ricerca di cibo. I piccoli (ma anche gli adulti) possono essere cacciati dai lupi e dai leoni di montagna.

I coyote non corrono alcun pericolo di estinzione grazie alla loro estrema capacità di adattamento tanto che nell'America del nord sono i carnivori terrestri dominanti.

Il coyote è un animale essenziale all'interno dell'ecosistema in quando tiene sotto controllo le popolazioni di conigli, topi ed altri piccoli animali: senza la sua presenza si avrebbe una loro proliferazione estremamente pericolosa per l'ambiente.

Pur essendo fortemente cacciato, il coyote è una delle poche specie animali di dimensioni grandi che ha ampliato la sua gamma da quando l'invasione umana è cominciata. Originariamente diffusi soprattutto nella parte occidentale del Nord America, si sono adattati rapidamente ai cambiamenti dovuti alla presenza umana e, sin dagli inizi del XIX secolo, si sono diffusi praticamente ovunque. Gli avvistamenti infatti avvengono in gran parte del territorio degli U.S.A e del Canada. I coyote abitano con soluzione di continuità la costa occidentale del Nord America dagli Stati Uniti all'Alaska. Hanno colonizzato gran parte delle aree del Nord America precedentemente occupate dai lupi, e sono spesso osservati, rovistare nei cassonetti nelle periferie di città (ad esempio Los Angeles).

I coyote sono difficili da addomesticare, tranne quando sono allevati sin dalla più giovane età, e anche in questi casi, gran parte del loro temperamento selvaggio rimane e si manifesta una volta raggiunta la pubertà. I coyote storicamente non sono mai stati addomesticati ad eccezione dei cani Hare di alcune popolazioni di nativi, che, secondo i più recenti studi, sembrano essere il frutto di coyote addomesticati e in parte incrociati col cane per renderli più docili. Sono utilizzati nel nord del Canada per la caccia. Il naturalista John Richardson, che ha studiato la razza nel 1820, prima che il patrimonio genetico fosse diluito da incroci con altre razze tra cui il cane principalmente, non fu in grado di rilevare alcuna differenza decisiva tra la razza addomesticata e il coyote, supponendo che la prima specie fosse una versione addomesticata della seconda.

Attacchi del coyote sugli esseri umani sono rari e ancor più raramente causano lesioni gravi, a causa delle dimensioni abbastanza ridotte del coyote. Tuttavia essi sono sempre più frequenti, soprattutto in California. Tra il 1976 e il 2006, almeno 160 attacchi sono avvenuti negli Stati Uniti d'America, soprattutto nella contea di Los Angeles. I dati, provenienti principalmente dall'USDA Wildlife Services e dal California Department of Fish and Game, indicano 41 gli attacchi verificatisi nel periodo 1988-1997 e 48 tra 1998 e 2003. Risulta evidente quindi come essi siano più che raddoppiati dal 1988 al 2003 considerando i due periodi. La maggior parte di questi incidenti si è verificato nel sud della California vicino al confine tra l'estremità della periferia cittadina e il territorio circostante.

In assenza di cibo nel loro territorio per la crescita della loro popolazione, i coyote stanno perdendo la loro paura per gli esseri umani, urbanizzandosi. Questo fenomeno è ulteriormente peggiorato da persone che intenzionalmente o involontariamente danno loro da mangiare. In tali situazioni, qualche coyote ha cominciato a comportarsi in maniera aggressiva verso gli stessi, inseguendo corridori e ciclisti, affrontando le persone a spasso coi cani, e avvicinandosi ai bambini piccoli, specie nei parchi pubblici. I Coyote hanno cominciato a prendere di mira i bambini piccoli, in gran parte sotto i 10 anni, anche se occasionalmente anche alcuni adulti sono stati morsi.

Anche se i media generalmente identificano gli animali degli attacchi come semplici "coyote", la ricerca genetica identifica in coywolves, incroci di coyote e lupo, quindi coyote solo per metà, quelli coinvolti in attacchi nel nord-est dell'America del Nord. Tra le zone colpite dagli attacchi abbiamo: Pennsylvania, New York, New England e Canada orientale.

Comunque, si registrano molto frequentemente casi in cui un coyote riesce a prevalere su un branco di cani da pastore formato da un minimo di 5 esemplari. Recenti studi, infatti, danno per scontato che un coyote possa predare un branco di cani da pastore in meno di 2 minuti.




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IL FENNEC

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Si ritiene che il termine "fennec" derivi dalla parola araba fanak, che significa "volpe". "Zerda" è invece una parola greca che significa "asciutto" e si riferisce dunque all'habitat naturale di questo animale.

Nel nord Africa vive un piccolo mammifero appartenente alla famiglia dei canidi. Il suo nome è fennec, nota anche come "volpe del deserto". È un animale notturno che si rifugia in tane sotterranee durante le fasi del giorno più soleggiate. La sua caratteristica principale sono due grandi orecchie a punta. La loro funzione è quella di disperdere l'estremo calore delle zone desertiche. Questo conferisce alla volpe fennec un aspetto piuttosto simpatico e carino.

Il fennec, come molti altri canidi, vive in piccoli branchi. I branchi di fennec solitamente superano di poco la decina di esemplari. L'alimentazione del fennec si basa soprattutto su altri piccoli mammiferi, preda di queste piccole volpi. Ma il fennec è capace di adattarsi a tutto. Consumano come pasto anche piante e piccoli insetti. In quanto animale desertico resiste alla siccità e può vivere senza abbeverarsi per diverso tempo. Il fennec presenta un manto particolare, capace di bilanciare la temperatura corporea. Inoltre protegge dal caldo eccessivo proveniente dall'esterno. È un pelo piuttosto morbido e setoso, cosa che purtroppo lo rende appetibile per i bracconieri.

Il fennec è un animale evolutosi appositamente per l'habitat che popola. Anche le zampe del fennec presentano un folto pelo. Ciò lo aiuta a muoversi con molta agilità sul terreno sabbioso e ardente. Il fennec è un mammifero curioso, vispo e molto intelligente. È anche piuttosto prudente. Se sente una minaccia imminente scappa via in velocità. Ciò gli vale il soprannome di "folletto del deserto", grazie alla rapidità di movimento. Si riproduce una volta l'anno, dando alla luce dai tre ai cinque cuccioli di fennec. In alcuni Paesi privi di restrizioni è possibile adottare cuccioli di fennec come animali da compagnia.



Il fennec è la più piccola volpe al mondo, ma le sue grandi orecchie, lunghe 15 centimetri, sembrano prese in prestito da un parente di maggiori dimensioni. I fennec vivono nel deserto del Sahara e un po’ ovunque nelle regioni del Nord Africa. Le loro abitudini notturne li aiutano a sopravvivere alle temperature infuocate dell’ambiente desertico, e alcuni adattamenti fisici sono a loro volta d’aiuto.

I fennec addomesticati si dimostrano piuttosto socievoli, anche con gli estranei. Estremamente attivi, possono persino rendere esausti gli altri animali domestici a causa della loro vivacità.

Nonostante questo, in molti paesi è illegale possedere un fennec.


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domenica 25 ottobre 2015

LA BILANCIA



La Bilancia (in particolare, la bilancia a bracci) è uno dei più tradizionali simboli di giustizia; nelle rappresentazioni statuarie è sorretta spesso da una donna, personificazione della Giustizia, secondo una simbologia comune anche alle rappresentazioni delle dee Giustizia e Diche in epoca romana. Questo simbolismo corrisponde all'uso della metafora sul mantenere "uguali pesi e uguali misure".

Il termine bilancia deriva dal latino bilanx che significa "a due piatti". La bilancia, nella sua forma più semplice, con bracci uguali e sospensione centrale, è uno degli strumenti più antichi inventati dall'uomo: se ne conservano esemplari (risalenti alla civiltà mesopotamica ed egizia) databili al V millennio a.C. Lo strumento si diffuse ben presto presso tutti i popoli antichi i quali, a cominciare dal IV secolo a.C., affiancarono alla bilancia la stadera.

La bilancia è uno strumento per pesare il cui funzionamento è riconducibile al principio della leva. Essa è costituita da un giogo che può oscillare attorno ad un fulcro (generalmente a coltello), recante alle estremità due piatti. La pesata viene eseguita mediante confronto tra pesi campione di massa nota e un oggetto di massa ignota. Gli spostamenti dalla posizione di equilibrio della bilancia vengono segnalati dall'indice, o su una scala graduata o rispetto ad un punto di riferimento. Esistono innumerevoli tipi di bilance.

La bilancia a contrappeso si basa su un sistema di leve, una delle quali è contrappesata. Il sistema è tale che il piatto in cui si pone il corpo da pesare si sposta, al variare del contrappeso, lungo l'asse verticale. La lettura del peso avviene tramite un indice su una scala graduata solidale ad una delle leve.

La bilancia a sospensione solitamente di piccole dimensioni e priva di sostegno, viene sostenuta con una mano.

La bilancia idrostatica è anche detta bilancia di Archimede. Archimede (287-212 a.C.), infatti, smascherò l'inganno perpetrato da un artigiano il quale aveva consegnato a Ierone, Tiranno di Siracusa, una corona in lega d'oro e d'argento facendola passare come se fosse stata d'oro massiccio. Il metodo usato da Archimede e i suoi presupposti teorici furono attentamente studiati da Galileo (1564-1642) nella Bilancetta, un breve testo steso a Firenze nel 1586, e pubblicato solo dopo la sua morte. Lo scienziato pisano propone uno strumento, la Bilancetta, appunto, dotato di grande precisione, il cui funzionamento risiede nel concetto archimedeo di peso specifico: i corpi pesati nell'acqua risultano meno gravi che in aria in proporzione della relazione tra il loro peso specifico e quello dell'acqua. La bilancia idrostatica permette dunque di determinare il peso specifico di un corpo rispetto a quello in cui è immerso, o se il peso specifico è noto, di determinarne il volume.

Mentre la bilancia è costituita da un giogo e da due piatti, la stadera, costituita da una leva a bracci disuguali e fulcro generalmente fisso, ha un unico piatto. Molto diffusa nell'antichità, la sua invenzione viene attribuita ai Romani. La bilancia è appesa ad un gancio la cui posizione rappresenta il fulcro. Sul braccio più lungo, che reca una o più scale, scorre un peso detto "romano". Il braccio più corto sostiene, tramite un gancio, il piatto con il corpo da pesare. Facendo scorrere il romano lungo la scala si raggiunge una posizione di equilibrio nella quale il braccio graduato è orizzontale. Dalla posizione del romano sulla scala si legge dunque il peso cercato. Già i fabbricanti in età romana si accorsero che, graduando due o tre facce dell'asta, si ottenevano stadere a due o tre portate. Ad ogni scala corrispondeva un punto diverso al quale, tramite un gancio, si appendeva il corpo da pesare. Detti ganci di sospensione avevano una distanza dal fulcro tanto minore quanto maggiore era il carico da determinare..



La bilancia nel suo schema originario e tradizionale è una leva a bracci uguali (giogo) appoggiata nel suo punto di mezzo su uno spigolo di un prisma triangolare di acciaio o di pietra dura (coltello). Alle estremità dei due bracci del giogo sono sospesi due piatti uguali; a piatti vuoti la bilancia è in equilibrio stabile con giogo orizzontale; il baricentro del sistema giogo-piatti si trova sotto il coltello. Al giogo è solidale un lungo indice che può oscillare davanti a una piccola scala graduata. Il corpo di cui si vuole misurare la massa m1 (e quindi il peso), posto su uno dei piatti, fa pendere il giogo da quella parte, perché esercita una forza m1g (dove g è l'accelerazione di gravità); se una massa nota m2 posta sull'altro piatto ristabilisce l'equilibrio, si ha m1=m2. Ogni bilancia viene corredata pertanto di una pesiera contenente masse campione (cioè di valore noto) che complessivamente non superano la portata, cioè l'intervallo entro cui può variare la massa in esame. Altre caratteristiche importanti di una bilancia sono: la sensibilità, cioè la più piccola variazione di massa che fa spostare in modo apprezzabile l'indice dalla sua posizione di equilibrio; la prontezza, cioè il tempo che occorre alla bilancia per raggiungere la posizione di equilibrio. Un aumento di prontezza si ottiene sempre a scapito della sensibilità per cui in genere si preferiscono bilance sensibili e non molto pronte per misure di precisione e bilance pronte anche se poco sensibili per scopi commerciali. La bilancia si dice giusta quando il suo equilibrio non viene alterato aggiungendo sui due piatti masse uguali e questo si verifica quando i due bracci hanno la stessa lunghezza. Opportuni metodi di pesata servono a eliminare le conseguenze di difetti dell'apparecchio (disuguaglianza dei bracci, dei pesi dei bracci, dei piatti ecc.). Fra questi si hanno:  il metodo della doppia pesata o di Gauss: si pesa due volte il corpo mettendolo prima su un piattello e poi sull'altro; indicando con p1 e p2 i pesi che si devono mettere successivamente sui due piattelli e che saranno in generale di poco diversi, il peso del corpo sarà dato dalla loro media aritmetica p=(p1+p2)/2. Il metodo della tara o di sostituzione o di Borda: si pone su uno dei due piatti il corpo da pesare e sull'altro una tara (palline di vetro, di piombo, ecc.) fino a raggiungere l'equilibrio; si sostituisce poi il corpo con pesi campione raggiungendo ancora l'equilibrio; la somma di questi pesi campione dà il peso del corpo; con questo metodo si evitano errori dovuti all'eventuale differenza di lunghezza dei bracci.  Il metodo a carico costante, o a sensibilità costante o di Mendeleev: si carica un piatto con un peso campione (generalmente 100 g), che deve essere superiore al peso previsto del corpo da pesare, e l'altro con zavorra fino a ottenere l'equilibrio. Si toglie poi il peso campione e si pone sullo stesso piatto il corpo da pesare aggiungendo pesi campione fino all'equilibrio. Il peso del corpo si ottiene per differenza tra il peso campione equilibrato dalla zavorra e la somma dei pesi campione aggiunti al corpo. Con questo metodo si possono fare pesate di corpi diversi senza toccare la zavorra e avere così una sensibilità costante, poiché la sensibilità di una bilancia, a parità di altre condizioni, dipende dal carico che si pone nei piatti.

Nelle bilance di precisione il giogo porta agli estremi altri due coltelli ai quali mediante apposite staffe sono appesi due piattelli. Gli spigoli dei tre coltelli sono paralleli, complanari tra loro, normali al piano di oscillazione del giogo e poggiano su piani molto duri, di solito di agata; perché non si danneggino vengono tenuti sollevati mediante un dispositivo di bloccaggio, durante le operazioni di carico e scarico dei pesi e quando la bilancia non è usata. La base della bilancia è provvista di viti calanti e di livella per essere disposta orizzontalmente; una custodia trasparente protegge l'apparecchio da correnti d'aria. Per mantenere un'atmosfera relativamente secca si pongono all'interno della custodia sostanze essiccanti. La sensibilità della bilancia può essere aumentata o diminuita avvicinando o allontanando il baricentro del giogo dal coltello con qualche apposito accorgimento. Una diminuzione della sensibilità, riducendo le oscillazioni intorno alla posizione di equilibrio, rende più rapida la pesata. A seconda degli scopi particolari cui la bilancia è destinata, variano le particolarità costruttive. In molte bilance i pesi inferiori al centigrammo sono misurati con il cavalierino di Berzelius costituito da un filo di platino o di alluminio piegato a forcella e generalmente del peso di 10 mg; manovrando dall'esterno della custodia si può appoggiarlo in vari punti del giogo. Quando si trova all'estremità di un braccio equivale a 10 mg posti sul piatto sottostante, quando invece è in altre posizioni, in corrispondenza di tacche equidistanti segnate sul giogo, equivale a un peso proporzionale alla sua distanza dal fulcro. Fra i vari tipi di bilance di precisione ricordiamo: la bilancia analitica o bilancia per analisi che ha una sensibilità anche inferiore al milligrammo e una portata massima di 1 kg (la portata più comune è però di 200 g). Le bilance più moderne di questo tipo possono avere anche un solo piattello, come, per esempio, la bilancia di Mettler; sono corredate da dispositivi per lo smorzamento delle oscillazioni in modo da rendere più rapide le misure, da meccanismi per il caricamento automatico dei piatti, da scale graduate in milligrammi e in decimi di milligrammi, su cui si legge direttamente il valore del peso in esame. Le bilance a smorzatori d'aria hanno i bracci reggenti i piattelli che sostengono nella parte superiore una scatola cilindrica di metallo, la quale, oscillando col piattello stesso, scorre in un altro cilindro fisso e coassiale, privo della parte superiore e portante un forellino nella parte inferiore; l'aria che si trova tra un cilindro e l'altro è costretta dalla scatola mobile a defluire nell'intercapedine, provocando un forte smorzamento delle oscillazioni. La bilancia di Mettler permette di eseguire le pesate a carico costante; il giogo, a bracci disuguali, è in equilibrio quando porta a un estremo un piattello e un corredo di pezzi tarati e all'altro estremo un contrappeso costante inserito in uno smorzatore d'aria. Posto sul piatto il corpo in esame, l'equilibrio viene ristabilito togliendo dei pezzi tarati, il cui valore rappresenta ovviamente il peso del corpo. Poiché corpo in esame e pesi campione sono appesi allo stesso braccio del giogo e sono confrontati senza che il carico vari, vengono eliminati gli errori dovuti alle diverse lunghezze dei bracci del giogo e gli svantaggi relativi alla variazione di sensibilità col carico. Questa bilancia è anche molto rapida grazie a un dispositivo di manipolazione meccanica dei pesi e allo smorzamento ad aria delle oscillazioni. L'angolo di inclinazione del giogo, che individua l'equilibrio, è reso visibile da un dispositivo ottico, che permette di leggere direttamente su una scala con nonio il valore del peso. Sono bilance di altissima precisione le microbilance che hanno caratteristiche simili a quelle delle bilance analitiche, ma con portate solo fino a 20 g; generalmente sono poste in una doppia custodia di vetro. Gli ultimi tipi sono caratterizzati dall'eliminazione del secondo piatto, da bracci di lunghezza diversa, dalla lettura con sistemi ottici su quadranti numerici.



Esistono numerosi tipi di bilance usate per scopi pratici, dette anche bilance tecniche; la loro portata può variare da pochi grammi fino a diverse decine di tonnellate e la sensibilità relativa si aggira in genere sull'1‰ del carico massimo. Spesso invece di essere provviste di una sola leva sono costituite da un sistema di leve eventualmente a bracci disuguali. La bilancia a stadera o stadera, è una bilancia a bracci disuguali il più corto dei quali porta un piatto sul quale viene posato l'oggetto da pesare; sull'altro braccio, notevolmente lungo e sul quale è incisa la graduazione in chilogrammi e sottomultipli, scorre un peso, detto romano. La posizione di equilibrio del romano fa da indice per la lettura del peso del carico. La bilancia a contrappeso è costituita da un sistema di leve una delle quali contrappesata; il piatto su cui si pone il corpo da pesare si sposta parallelamente a se stesso in senso verticale; il peso del corpo è indicato da un indice su una scala solidale a una delle leve. Questa bilancia è usata specialmente come pesalettere. Le bilance di Roberval e le bilance di Béranger, dette anche a sospensione inferiore, hanno un sistema di leve costituito da un giogo a bracci uguali e da due leve ausiliarie, o controgiogo. I collegamenti sono tali che nell'oscillazione le estremità del giogo e dei controgioghi si spostano in egual misura e fanno muovere i piatti della bilancia parallelamente a se stessi. La portata è generalmente di 10 kg, con una precisione da 0,5 a 5 g. La bascula è una bilancia a bracci disuguali provvista di un unico piano su cui si pone il carico e il cui abbassamento viene trasmesso per mezzo di un sistema di leve a un braccio analogo a quello della stadera su cui scorre un romano. La portata varia da 100 a 500 kg. La bilancia semiautomatica è una combinazione della bilancia a contrappeso e della bilancia a sospensione inferiore con l'aggiunta di dispositivi per una comoda lettura diretta del peso. La massa Q, imperniata eccentricamente in A e solidale con un indice affacciato su una scala S, costituisce la bilancia a contrappeso ed è collegata mediante un tirante (un nastro d'acciaio) al giogo di una bilancia di Roberval modificata. Su un piatto si pone il corpo da pesare, che fa deviare l'indice sulla scala; se il peso è tale da fare deviare l'indice oltre il fondo scala, si pone un peso sull'altro piatto: il peso del corpo è dato dalla somma di questo peso e di quello indicato dall'indice. Le bilance automatiche sono sostanzialmente simili, salvo che hanno un solo piatto, su cui va posto il corpo da pesare. Per rendere più spedite le misurazioni, le oscillazioni dell'indice vengono smorzate con opportuni smorzatori generalmente ad aria. Queste bilance sono generalmente usate nei negozi e sono spesso provviste di due scale: la prima con una graduazione corrispondente a una sensibilità piuttosto elevata, per esempio, da 5 g fino a un chilogrammo, la seconda con una portata fino a 5 o 10 kg; girando una leva o una manopola si rende la bilancia adatta a misurare con l'una o con l'altra scala. Nelle bilance idrauliche e pneumatiche, il peso in esame viene trasformato, mediante un pistone o un'opportuna molla di superficie, in una pressione che viene misurata da un manometro. In generale le misurazioni sono influenzate dalle variazioni di temperatura, per cui sono necessari opportuni dispositivi di compensazione.

Le bilance per misurazione di densità sono strumenti che utilizzano il principio di Archimede per la determinazione della densità di liquidi e di solidi . Poiché nei problemi pratici la densità e il peso specifico sono espressi dallo stesso numero, nel linguaggio comune i due concetti vengono spesso confusi. La bilancia di Archimede o bilancia idrostatica è una comune bilancia adattata con opportuni accorgimenti a misurare la spinta archimedea che un corpo riceve quando è immerso in un liquido e serve per misurare densità di solidi e liquidi. Si differenzia dalla bilancia ordinaria perché le sospensioni dei due piattelli sono una più corta dell'altra. Il piattello appeso alla sospensione più corta è fornito di un gancetto. Per determinare la densità di un solido, lo si appende al gancetto e se ne determinano separatamente il peso e la corrispondente spinta archimedea: la densità è data dal rapporto di queste misurazioni. Per calcolare la densità relativa di un liquido si appende al gancetto un cilindro (detto immersore) e se ne determina la spinta archimedea nel liquido in esame e in acqua: la densità relativa è data dal rapporto di queste misure. La bilancia di Mohr-Westphal è derivata dalla bilancia di Archimede; è molto usata perché permette misurazioni rapide con letture dirette, esatte fino alla quarta cifra decimale. Il giogo ha bracci disuguali; il fulcro è appoggiato su un'asta alla cui base si trova una vite di livello; il braccio corto del giogo porta una massa opportuna e termina con una punta che oscilla davanti a una scala graduata; il braccio lungo è diviso mediante tacche o pioli in dieci parti uguali e all'estremità un gancio sostiene o un corpo cilindrico generalmente di vetro, detto pescante, o un castello forato, a seconda che si debbano determinare densità di liquidi o di solidi. Completano il corredo della bilancia un bicchiere, un termometro a mercurio di forma adatta per essere appeso al bicchiere e cinque cavalierini che costituiscono i pesi della bilancia; quattro di questi cavalierini pesano ognuno un decimo del precedente; il quinto ha il peso del maggiore (10 g). I cavalierini vengono opportunamente appesi ai pioli del giogo per ristabilire l'equilibrio della bilancia durante le misurazioni, quando il pescante (nel caso di liquidi) o il corpo (nel caso di solidi) sono immersi o in aria o in un liquido, generalmente acqua.

La bilancia di torsione è un dispositivo estremamente sensibile che si trova applicato in moltissimi apparecchi per la misurazione di forze, di momenti di coppie e più in generale di altre grandezze fisiche che si colleghino a momenti di forze. Il suo funzionamento è basato sul fenomeno dell'elasticità di torsione; permette di apprezzare anche effetti molto piccoli. Tale bilancia è essenzialmente costituita da una sbarretta sospesa per il baricentro a un filo di sospensione (questo tipo, il più comune, è detto monofilare ma ve ne sono di quelle con sospensione bifilare). Se agli estremi della sbarretta sono applicate due forze uguali e contrarie, la cui natura dipende dall'uso cui è destinato lo strumento, esse determinano una torsione del filo di un angolo che è direttamente proporzionale al momento delle forze applicate e alla lunghezza del filo, e inversamente proporzionale alla quarta potenza del raggio del filo (legge di Coulomb). In condizioni di equilibrio il momento torcente delle forze applicate alla sbarretta sarà opposto al momento delle reazioni elastiche del filo: scrivendo l'equazione di equilibrio si potrà ricavare l'incognita del problema in esame. Generalmente il filo di sospensione porta uno specchietto per valutare con grande precisione l'angolo di torsione con il metodo ottico di Poggendorff, basato sulla lettura della deviazione che subisce al ruotare dello specchio un raggio riflesso su di esso. La bilancia di torsione permette di raggiungere sensibilità estreme, apprezzando forze dell'ordine di 10-10 g, con fili di sospensione di quarzo molto lunghi con diametro di 10-6 m. Gli esperimenti con la bilancia di torsione vanno fatti preferibilmente sotto vuoto: le minime correnti d'aria e il più piccolo spostamento dello zero del filo di sospensione sono spesso causa di notevoli errori nelle misure. Tra le più importanti bilance di torsione si ricordano quelle usate per misurare la forza gravitazionale che si esercita tra masse dell'ordine del chilogrammo (bilancia di Cavendish); l'interazione fra cariche elettriche puntiformi (bilancia di Coulomb); le variazioni locali dell'accelerazione di gravità (bilancia di Eötvös).



L'applicazione dell'elettronica ha rivoluzionato i sistemi di pesatura, sia nel campo delle bilance commerciali sia in quello delle bilance analitiche di precisione. Il carico meccanico viene convertito in un segnale elettrico, proporzionale al carico stesso, per mezzo di vari tipi di trasduttori: estensimetri elettrici (dei quali si misura la resistenza che varia al variare del carico); lamine vibranti (se ne misura la frequenza di vibrazione, che varia col carico); magnetoelastici (che sfruttano la variazione, col carico, dell'accoppiamento magnetico di due avvolgimenti); o col sistema a compensazione elettromagnetica delle forze. Quest'ultimo, utilizzato per le bilance di precisione, consente di risolvere un carico da 60 g a 0,01 mg. La rilevazione del peso netto è immediata: basta azzerare la bilancia (premendo un pulsante) dopo avere posato sul piatto il contenitore. L'impiego di bilance elettroniche nel commercio consente anche molte altre operazioni: dal prezzo del prodotto pesato (peso × costo unitario, che può essere impostato mediante tastiera, o anche richiamato da una memoria, per mezzo di tasti simbolici o di codici) alla completa gestione del magazzino, per mezzo di un calcolatore, al quale sono collegate tutte le bilance. Ciascuna bilancia può essere dotata di stampante ed emettere uno scontrino con l'indicazione del peso, prezzo al kg, prezzo totale e descrizione di ogni prodotto pesato; il totale può anche essere stampato sotto forma di codice a barre. Le bilance elettroniche sono usate anche per la pesatura di carichi elevati, come veicoli a motore, vagoni, siviere di colata, serbatoi, contenitori, tramogge, materiale transitato su nastro trasportatore e in generale per installazioni di pesature di tipo industriale. La sensibilità dipende dalle caratteristiche costruttive e dalla portata. Molto diffuse sono le bilance in cui la parte sensibile è costituita da una o più celle di carico, opportunamente installate, che subiscono deformazioni proporzionali al carico misurate da estensimetri. Anche in questo caso il carico meccanico viene convertito in un segnale elettrico, proporzionale al carico applicato, misurato tramite uno strumento, detto indicatore, fornito di scala graduata per la lettura diretta del peso, o mediante un registratore di peso.

La bilancia aerodinamica è un dispositivo utilizzato nella sperimentazione aerodinamica alla galleria del vento per misurare forze e momenti agenti sul modello in prova. Caratteristica essenziale di qualsiasi bilancia aerodinamica è quella di arrecare il minor disturbo possibile al campo aerodinamico, per evitare di falsare le misure che vengono eseguite; è pure estremamente importante assicurare alla bilancia una considerevole robustezza, data l'eventualità che su di essa possano agire forze, anche rapidamente variabili, di notevole entità; sono pure essenziali un'elevata rigidezza, onde evitare indesiderabili spostamenti del modello, e una grande precisione. Le bilance aerodinamiche impiegate possono essere di tipo meccanico, sostanzialmente costituite da bilance tecniche corredate da un opportuno sistema di vincolo del modello, oppure da bilance estensimetriche, costituite da una struttura di supporto del modello in cui sono incorporati, quali elementi sensibili, estensimetri elettrici. Qualsiasi bilancia aerodinamica richiede sempre un'accurata taratura, che consenta di valutare gli inevitabili fenomeni d'interferenza tra modello e bilancia e tra bilancia e galleria. Per evitare almeno i primi, tecnici francesi hanno sperimentato bilance magnetiche, costituite da un complesso di elettromagneti che consentono di tener sospeso, entro la camera di prova, il modello (realizzato, almeno in parte, in materiale ferromagnetico) e di misurarne le forze aerodinamiche attraverso le variazioni di eccitazione degli elettromagneti, necessarie per mantenere il modello nell'assetto voluto.

Ciascun Paese dispone di precise normative riguardanti la progettazione, la costruzione e l'utilizzo delle bilance commerciali. Questo ha portato ad un arresto precoce lo sviluppo della tecnologia delle bilance, dove un nuovo brevetto deve sottostare e severe norme prima di vedere la luce. Ciononostante, una recente tecnologia chiamata "celle di carico digitali", prevede l'utilizzo di celle di "carico" contenenti convertitori analogici dedicati. Questo design ha notevolmente ridotto il problema della trasmissione di segnali dell'ordine dei 20 millivolt su dispositivi particolarmente sensibili ad interferenze.

Le leggi ed i regolamenti prevedono, da parte di personale qualificato, ispezioni periodiche tramite l'uso di sistemi di calibrazione rilasciati da laboratori certificati. Le bilance ad uso occasionale o semplici pesa-persone possono comunque essere prodotte, ma devono riportare per legge l'etichetta con scritto "Non destinato ad un uso commerciale", onde evitare che un utilizzo improprio possa compromettere interessi commerciali in atto. Negli Stati Uniti, ad esempio, il documento che descrive come una bilancia deve essere progettata, installata, e usata commercialmente è l'Handbook 44 del NIST.

La gravità varia dello 0.5% nei diversi angoli del pianeta, dunque la differenza tra forza peso e massa diventa rilevante nella taratura di bilance destinate ad uso commerciale. Generalmente il problema viene risolto comparando la massa con un campione conosciuto invece che misurando la forza peso indotta dalla gravità, dipendente da particolari condizioni locali.

La bilance tradizionali a doppio piatto e braccio flottante forniscono intrinsecamente una misura della massa. Invece le bilance elettroniche danno una misura delle forza gravitazionale tra l'oggetto e la Terra. Si pensi ad esempio al peso dell'oggetto campione, che varia da un posto all'altro del pianeta.

Ecco che talune bilance commerciali necessitano di una calibrazione immediatamente dopo l'installazione in un determinato luogo. Tutto ciò fornisce una chiara e precisa lettura della massa di un oggetto.

Ecco alcune fonti potenziali di errore nei sistemi di misura del peso:

Spinta dell'aria, causata dal fatto che un oggetto di una certa dimensione occupa una determinata porzione di aria, la cui entità va determinata e calcolata. Bilance ad alta precisione spesso operano nel vuoto.
Errate masse di riferimento (usate per ingannare la misura).
Raffiche d'aria, anche se di piccola entità, possono aumentare o abbassare il peso rilevato.
L'attrito di tutte le parti in movimento che ostacola il raggiungimento dell'equilibrio.
La polvere statica, che contribuisce al peso.
Scala non calibrata o mal-calibrata. La calibrazione dei circuiti elettronici tende alla deriva nel corso del tempo, o a causa della variazione di temperatura.
Allineamento approssimato delle parti meccaniche, ad esempio:
Il fulcro che viene agganciato da un sistema quadrato-quadrato invece che un cerchio-punto (usato per ingannare la misura).
Accorciando il braccio spostando la catena dal piatto al bilanciere (usato per ingannare la misura).
Disallineamenti meccanici causati da dilatazione o contrazione termica dei componenti la bilancia.
L'azione del campo magnetico terrestre sui componenti metallici della bilancia.
L'azione di campi magnetici sulle parti metalliche della bilancia, originati sia da magneti, sia dal percorso della corrente elettrica nei cavi.
Ad esempio posizionando un magnete sotto l'oggetto di massa incognita (metodo usato per ingannare la misura).
Disturbi magnetici verso bobine ed altri sensori.
Forze indotte da campi elettrici, ad esempio dovuti allo sfregamento delle scarpe sul terreno in una giornata particolarmente secca.
Reazione chimica tra l'aria e la sostanza oggetto della misura (o la bilancia stessa) sotto forma di corrosione.
Condensa del vapore acqueo atmosferico su un corpo freddo.
Evaporazione dell'acqua da un corpo caldo.
Moto convettivo dell'aria da un corpo caldo o freddo.
La rotazione terrestre sotto forma di forza di Coriolis.
Anomalie gravitazionali (ad esempio nell'uso di una bilancia nei pressi di una catena montuosa, oppure nella mancata ricalibrazione dopo lo spostamento dello strumento da un luogo ad un altro).
Vibrazioni o disturbi sismici. Ad esempio, la vicinanza di una strada ad alto traffico.
Bilance posizionate su superfici troppo morbide, tappeti o moquette. (Questo effetto si può rilevare anche con una bilancia pesa-persone).




sabato 24 ottobre 2015

LO SCARABEO NERO

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Lo Scarabaeus sacer era lo scarabeo sacro degli antichi Egizi. Gli Egizi credevano, infatti, che l'insetto nascesse da una palla di sterco, per cui lo considerarono un'immagine dell'autocreazione. Il nome egizio dello scarabeo stercorario, kheper, significa "divenire" e simboleggia trasformazione e rinascita. Esso fu incluso nella teofania solare, poiché era considerato un'ipostasi (la personificazione) del sole nascente ed era identificato con Khepri, il dio del Sole nascente, che si supponeva creasse il Sole ogni giorno in modo analogo a quello con cui lo scarabeo crea la pallottola di sterco: come recita una preghiera del Libro dei Morti "Io sono Keper al mattino, Ra a mezzogiorno e Atum alla sera".

Lo scarabeo racchiude simboli solari: con le ali aperte è l'immagine del Sole nel suo duplice cammino, ascendente e discendente; quando sotterra la palla di sterco rappresenta il Sole che cala dietro la montagna .

Sul petto della mummia, o a volte al posto del cuore, veniva messo uno scarabeo (generalmente di oro e argento per unire i simboli di sole-luna) e si credeva assicurasse l'immortalità di chi lo possedeva.
Riprodotto in vari materiali (pietre dure, steatite invetriata, calcare) aveva grande importanza come amuleto ed era spesso parte del corredo funerario. Aveva anche il fine utilitaristico di sigillo ed era portato appeso al collo o incastonato in un anello. Come effigie del Sole si conservano statue colossali di granito nero che hanno corpo umano e testa di scarabeo.



Gli scarabei hanno caratteristiche morfologiche e cromatiche assai varie, corpo massiccio e arti robusti, elitre ben sviluppate che ricoprono l'intero addome. La clava antennale è formata da articoli divaricabili a ventaglio. Quasi tutte le specie presentano dimorfismo sessuale. Le larve vivono nel terreno e su materiali in putrefazione, sono biancastre con testa ben sclerificata e corpo piuttosto carnoso.
I Coleotteri stercorari si nutrono di feci e raccolgono il loro nutrimento (per conservarlo e per deporvi le uova) in caratteristiche sfere quasi perfette che fanno rotolare sul suolo.

Questo singolare comportamento è esibito da varie specie appartenenti alle famiglie Scarabaeidae e Geotrupidae. Di colore scuro con particolari riflessi metallici, le due famiglie hanno corpo tozzo e tegumento consistente che forma una vera e propria corazza, forniti di robuste zampe fossorie. Sono entrambe dotate di volo rumoroso.
Tra i coprofagi più noti si possono citare lo Scarabaeus sacer, che gli antichi Egiziani veneravano come simbolo del dio Sole, e il Geotrupes stercorarius che si distingue per le particolari attenzioni volte ai nascituri.

Lo Scarabeo sacro (Scarabaeus sacer) è lungo dai 28 ai 32 mm, di colore nero, comune nei luoghi assolati e sulle spiagge. Fabbrica con gli escrementi pallottole sferiche usando le zampe medie e posteriori che fa rotolare fino al nido sotterraneo, come scorta alimentare, utile per la deposizione dell’uovo e il nutrimento per le larve. La Famiglia Scarabedidae conta circa una cinquantina di specie in Italia.



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domenica 18 ottobre 2015

IL LAMPIONE e illuminazione pubblica




Generalmente vengono definiti lampioni tutti quei sistemi dedicati all'illuminazione pubblica, il termine, utilizzato perlopiù in relazione ad infrastrutture e viabilità, è utilizzato anche in urbanistica o design urbano per identificare un punto luce volto all'illuminazione di uno spazio urbano circoscritto, pubblico o privato, o per migliorare l'identificazione di un punto d'interesse, spesso d'accesso o di transito, ma anche di sosta.

Più correttamente tali sistemi sono chiamati "apparecchi per pubblica illuminazione" o "corpi illuminanti" e si dividono in molteplici categorie; il termine generico lampione infatti identifica un vasto numero di corpi illuminanti, dalle caratteristiche molto diversificate.

Il concetto di illuminazione pubblica è relativamente recente, anche se certe parti di edifici importanti (castelli, conventi) hanno sempre avuto un'illuminazione notturna continua assicurata mediante torce o bracieri. L'illuminazione pubblica coincide all'inizio, e anche oggi in gran parte, con l'illuminazione stradale, e nasce coll'ingrandirsi delle città e il diffondersi della criminalità, che ovviamente era grandemente favorita dalle tenebre.

Dapprima limitata a lanterne da appendersi sotto i balconi delle case, avrà una svolta con la disponibilità del gas illuminante, che permetterà di realizzare nel 1825 un'illuminazione a gas centralizzata nella città di Parigi, che prenderà da questo il soprannome di Ville Lumiere. Nel 1811 Windsor costruì la prima officina pubblica a Londra (Gas-Ling and Coke) per la produzione continua di gas che, convogliato in tubature, alimentava le lampade per illuminare Pali Mali, il Saint James's Park e il Golden Lane.

I primi esperimenti in Italia furono compiuti nel 1818 da Giovanni Arduin; nel 1832 venne inaugurata l'illuminazione a gas della galleria De Cristoforis a Milano, alla quale seguì quella pubblica nel 1845; nel frattempo (1840) si attiva la prima illuminazione pubblica di Napoli. Il 1º ottobre 1846, a Torino, furono illuminate le contrade Doragrossa e Nuova e, poco dopo, anche le vie Po e Santa Teresa, piazza Castello, piazza San Carlo e piazza Vittorio. Solo nel 1847 il governo pontificio autorizzò l'installazione dell'illuminazione a gas a Roma. In anni successivi, il gas giunse ad illuminare anche le pubbliche vie di città meno grandi: ad esempio Forlì, nel 1864, o Prato, nel 1869.

L'illuminazione elettrica si iniziò nel 1814 (lampada ad arco di Humphry Davy); questo determinò un ulteriore progresso con la messa a punto del sistema ad arco fra due carboni di storta affiancati (candela Jablochkov) o disposti frontalmente; nel 1878 Thomas Edison ideò la prima lampadina a incandescenza. L'affermazione di questo sistema di illuminazione è dovuta sia alla facilità di impiego, alla tonalità e alla costanza della luce, sia al rapido progredire dell'industria elettrica che ha consentito di portare ovunque l'energia elettrica. Il primo impianto di illuminazione pubblica a incandescenza fu montato a New York nel 1882. In Europa, a Torino e a Milano nel 1884: nel maggio 1884 infatti fu inaugurato il primo impianto di illuminazione elettrica a Torino in piazza Carlo Felice con 12 lampade ad arco Siemens da 800 candele; nello stesso anno le Ferrovie illuminarono elettricamente la stazione di Porta Nuova e l'ingegnere torinese Enrico progettò l'illuminazione del Teatro Regio.



Dopo una cinquantina d'anni, comincerà a diffondersi l'illuminazione elettrica, oggigiorno praticamente la sola utilizzata.

La disponibilità, a partire dall'ultimo ventennio del secolo scorso, di lampade più efficienti rispetto alla classica lampadina a incandescenza, ha permesso di aumentare e migliorare l'illuminazione pubblica, che si è estesa anche a scopi meno strettamente utilitaristici come l'illuminazione di monumenti, generando però contemporaneamente problemi di inquinamento luminoso.

L'illuminazione pubblica è stata gradualmente estesa anche ad ambiti extraurbani relativi ai trasporti, quali incroci stradali e aeroporti, mentre l'illuminazione di altre grandi superfici, come carceri e aree industriali, anche se molto simile come tecniche e motivazioni non si può a stretto rigore definire pubblica.

Il progetto di illuminazione pubblica (in particolare quella stradale) in Italia è regolato dalla norma UNI 11248 che definisce la categoria illuminotecnica in base al tipo di strada, al flusso di automezzi, alla presenza di pedoni, di svincoli, di pericoli di aggressione, ecc. Per ogni categoria vengono definiti i parametri illuminotecnici che il progetto deve soddisfare. Particolari caratteristiche sono definite anche per le zone circostanti alla carreggiata (piste ciclabili, marciapiedi, attraversamenti pedonali, incroci).

Il progetto deve essere realizzato in maniera da limitare gli sprechi energetici e limitare fenomeni indesiderati quali l'abbagliamento debilitante e l'inquinamento luminoso.

L'altezza dei pali deve essere circa pari alla larghezza della carreggiata e la distanza dipende dal tipo di apparecchi utilizzati e soprattutto varia in base alle caratteristiche illuminotecniche richieste dalla norma, l'angolo di inclinazione del braccio del lampione deve essere dimensionato in modo da ridurre effetti di inquinamento luminoso.

Si può realizzare l'impianto di illuminazione disponendo i lampioni in vari modi:

Disposizione unilaterale: I lampioni vengono disposti su un solo lato della carreggiata, rientrano in questa categoria anche gli impianti in cui i lampioni sono posti tra le due carreggiate (dove è presente uno spartitraffico)
Disposizione bilaterale: I lampioni sono disposti su entrambi i lati della carreggiata disposti frontalmente gli uni agli altri
Disposizione a quinconce: I lampioni sono disposti su entrambi i lati della strada posti alternativamente, in questo modo si ottiene un'uniformità dell'illuminazione maggiore.



Anche se con un po’ di ritardo, anche l’Italia riesce alla fine a seguire le orme dei paesi più progrediti. E’ Venezia, assieme a Torino, una delle prime città a dotarsi di una primitiva illuminazione pubblica: decretata a partire dal maggio del 1732, essa impone alla città lagunare una tassa speciale per tutti i cittadini (ad ogni modo l’illuminazione non si diffonde inizialmente ovunque e per lungo tempo continua a sopravvivere l’uso di rivolgersi, in caso di necessità, alle guide notturne).
Ancora nel 1763 il Parini può contemplare a Milano le fiaccole dei lacchè in corsa davanti alle carrozze dei nobili ed è necessario attendere il 1786 per poter parlare di vera illuminazione cittadina. Dieci anni dopo è la volta di Bologna, ma l’impresa non viene condotta a termine prima del 1801: nel frattempo la città, fatta eccezione per qualche lumino acceso davanti agli altari votivi alla Madonna, rimane nell’oscurità più totale e coloro che escono di notte per le vie sono costretti a ricorrere necessariamente all’uso di piccole lanterne.
Firenze si rivela più sollecita e il primo tentativo di illuminare il suo centro storico risale al 1783 anche se in passato, come apprendiamo dall’Osservatorio fiorentino del Lastri, le lampade collocate in prossimità delle immagini sacre, specialmente quelle agli angoli delle strade, erano abbastanza frequenti da riuscire ad avere la meglio sulle tenebre circostanti.
Precise notizie su Lucca, ricavate dal libro Vita lucchese nel Settecento (Cesare Sardi, 1905) confermano l’accensione delle prime luci di strada a partire dalla fine del ‘700: finalmente la gente può aggirarsi per le vie anche dopo il tramonto, frequentare le osterie e i ritrovi di ogni sorta.
Dall’opera del Sardi, inoltre, apprendiamo che i lampioni compaiono nel 1792, grazie all’opera di privati benefattori: Pietro Bancari e Cosimo Bernardini che ne collocano qualcuno davanti alle proprie dimore. I meno facoltosi si accontentano di lanterne a muro, mentre il Comune provvede per i lampioni del Palazzo Pubblico regolando, con norme opportune, la quantità d’olio secondo l’intensità luminosa della luna e l’orario di accensione in base al variare delle stagioni.

Nella città toscana si raggiunge comunque una perfetta efficienza nel 1808, sotto il regime napoleonico, con l’istallazione di 100 lampioni, dei quali 70 ordinati nuovi e 30 scelti tra quelli di proprietà privata. Anche i romani rimangono al buio fino al 1798, data in cui il governo repubblicano prescrive a tutti i proprietari di case con “più di tre finestre corrispondenti sopra di una strada” l’obbligo “di tenere sospeso ad una finestra del primo piano un lampione acceso in tutta la notte dal tramontare del sole sino al nuovo giorno”.

Provvedimenti ancora più solleciti si registrano a Napoli dove fin dal 1770 il governo ordina che tutti gli edifici pubblici, i Banchi, i palazzi dei ministri, degli ambasciatori e dei nobili di grande casato, tengano fanali accesi di notte davanti alle porte e agli angoli delle strade; in seguito ne viene collocato un centinaio lungo la strada di Forcella.

Ma si tratta di un’illuminazione di breve durata in quanto le luci vengono presto abbattute da malviventi che necessitano del buio per poter svolgere le loro illecite attività. Per ovviare a questo grave inconveniente si racconta che padre Gregorio Maria Rocco (1700-1782), ottenuta la licenza dal re, inizia a disporre nei punti più trafficati, e in apposite nicchie, 300 copie di un quadro raffigurante la Vergine e 100 figure del Cristo montate su altrettante croci di legno: da quel giorno si registra una vera e propria gara da parte dei fedeli per mantenere continuamente accesi, sia di giorno che di notte, due fanali ai lati di ciascuna raffigurazione sacra. Con questo espediente Napoli riesce finalmente ad essere illuminata, persino nei vicoli in precedenza troppo bui e pericolosi.

Tra il 1785 e il 1786 si hanno tracce di appalti per l’illuminazione anche nelle vie principali della città di Palermo.

Molti, però, sono i centri che rimangono ancora al buio, rotto a malapena da qualche scialbo lumicino posto davanti alla edicole dei Santi e al rintocco della campane delle chiese, annuncianti un’ora trascorsa dall’Avemaria, piazze, strade, vicoli e cortili, ripiombano nell’oscurità.
Soltanto a partire dalla metà dell’Ottocento, con l’entrata in funzione del gas ottenuto dalla distillazione del carbon fossile, anche i centri italiani possono finalmente dotarsi di lampioni stradali capaci di illuminare e vincere in maniera efficace e duratura persino le tenebre più profonde.




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sabato 17 ottobre 2015

IL DESERTO



La parola deserto non è solo un sostantivo ma anche un aggettivo col significato di "solo, abbandonato". Il latino desertum deriva dal verbo deserere che significa abbandonare. Deserere, a sua volta, è composto da de, con valore negativo, e serere (legare) quindi non più legato

Un deserto è un ecosistema che riceve pochissima pioggia e di solito si pensa che possegga poca vita, ma questo dipende dal tipo di deserto; in molti la vita è abbondante, la vegetazione si è adattata al basso tasso di umidità e la fauna solitamente si nasconde durante il giorno, il che significa che un deserto è un ecosistema solitamente arido (la sua più grande caratteristica) e che quindi rende difficoltoso, se non talvolta impossibile, l'instaurazione permanente di gruppi sociali. I deserti costituiscono una delle aree emerse più grandi del pianeta: la loro superficie totale è di 50 milioni di chilometri quadrati, circa un terzo della superficie della Terra. Rappresenta il 30% delle terre emerse, (il 16% è costituito da deserti caldi, il 14% da deserti freddi).

Gran parte dei deserti del mondo si trovano in zone caratterizzate da alta pressione costante, cioè una condizione che non favorisce la pioggia. Tra i deserti di queste aree vi sono: il deserto del Sahara (il più grande deserto del pianeta Terra), il Kalahari, e il deserto del Namib nell'Africa meridionale; il Gran Deserto Sabbioso, in Australia, il deserto del Gobi (o Chamo), il Karakum, il deserto di Taklamakan in Cina, il Rub' al-Khali in Arabia, il deserto del Negev, il deserto del Mojave, e il deserto di Atacama nelle Americhe solo per citarne alcuni dei più vasti.

Gran parte di deserti sono localizzati all'interno dei continenti, vale a dire distanti dal mare: come ad esempio, il deserto del Gobi e altri deserti dell'Asia centrale, che difficilmente vengono raggiunti dai venti umidi dagli oceani. Un esempio del contrario, tuttavia, si riscontra in piccole zone desertiche del Mediterraneo occidentale in Europa: in Spagna, Francia ed Italia.

I deserti lungo le coste occidentali dell'Africa australe e del Sud America sono influenzati dalla presenza di correnti oceaniche fredde che causano deumidificazione nell'atmosfera.

L'unico bioma nel quale la pioggia può mancare per anni è il deserto. Se ne possono distinguere tre tipologie principali:

Deserto caldo, deserto roccioso dove il suolo è costituito da pietre o ciottoli chiamati con la parola araba di hammada; può essere anche ghiaioso, chiamato reg, oppure sabbioso a dune, chiamato erg, presenti nelle regioni tropicali, caratterizzate da accentuata aridità, vegetazione ridotta o assente, mancanza di corsi d'acqua perenni, tendenza alla siccità; il clima a cui si associa tale ambiente è il clima desertico caldo (secondo la classificazione dei climi di Köppen);
Deserto freddo (chiamato anche, un po' impropriamente, "deserto temperato"), presente nelle regioni temperate più continentali, caratterizzate da fortissima aridità e da notevolissime escursioni termiche annue di temperatura, con estati caldissime e inverni freddissimi; il clima a cui si associa tale ambiente è il clima desertico freddo (secondo la classificazione dei climi di Köppen);
Deserto polare (deserto bianco), presenti nelle regioni settentrionali e meridionali a margine dei continenti boreali e australi (Groenlandia, Artide e Antartide), caratterizzate da freddo intenso e perenni distese di neve e ghiaccio; il clima a cui si associa tale ambiente è il clima glaciale (secondo la classificazione dei climi di Köppen).
I paesaggi desertici possiedono alcune caratteristiche comuni.



I deserti per via delle loro condizioni climatiche possono essere classificati come:

deserti caldi sono spesso composti per la stragrande maggioranza da sabbia, che per l'azione del vento dà luogo alle caratteristiche dune. Anche affioramenti di strutture rocciose sono abbastanza comuni e la vegetazione è molto scarsa.
deserti freddi sono spesso composti da rocce.
deserti polari sono invece composti soprattutto da ghiaccio e l'assenza di vegetazione è quasi totale.
Deserti caldi e freddi sono accomunati comunque da un fattore preponderante: il vento.

Non è raro che i deserti possano contenere depositi di minerali preziosi formatisi in un ambiente arido, o esposti successivamente a causa dell'erosione dell'ambiente circostante. A causa della siccità, taluni deserti possono essere ideali per la conservazione di manufatti o fossili.

La maggior parte delle classificazioni si basano su alcune combinazioni del numero di giorni, di pioggia, il totale della quantità annuale di pioggia, temperatura, umidità o altri fattori.

Nel 2010 Peveril Meigs divise il deserto in tre categorie secondo la quantità di precipitazioni che riceve:

Terreno estremamente arido: può mancare anche per 12 mesi consecutivi la pioggia
Paesaggio arido: meno di 250 mm per anno di piovosità
Paesaggio semiarido: media annuale di precipitazioni tra 250 e 500 mm.
I deserti interni vengono suddivisi in:

hammada
erg
serir o reg
I paesaggi aridi e estremamente aridi sono deserti e le praterie semiaride sono da riferimento alle steppe. Phoenix, Arizona riceve meno di 250 mm di precipitazioni all'anno, ed è riconosciuta come una città a clima desertico.

Anche il nord di un pendio dell'Alaska riceve meno di 250 mm di precipitazioni per anno, ma non è generalmente riconosciuto come deserto.

In alcune regioni la scarsità di acqua è caratterizzata dalla presenza in superficie di distese di sale che ricoprono interamente la superficie desertica; spesso queste regioni sono il risultato di fondali di antichi laghi o fondali marini, dove il vento può essere fattore rilevante nel plasmare il, paesaggio.

La desertificazione è il processo di degradazione del suolo, causato da attività solitamente umane che lo porta a diventare un deserto, questo processo, generalmente irreversibile interessa tutti i continenti con delle variazioni di intensità.

Esistono popolazioni nomadi come i Tuareg, che vivono nel deserto in tribù formate da poche persone, all'incirca 30 o 40 membri. Essi si dedicano soprattutto alla pastorizia e all'agricoltura, sviluppata nelle oasi (formatesi quando l'acqua sotterranea affiora solo in zone ristrette). Per proteggersi dagli intensi raggi del sole, i Tuareg devono coprirsi completamente lasciando liberi solo occhi e bocca. Usano indossare il caffettano, una lunga veste coperta a sua volta da numerosi teli. Inoltre nel deserto vi sono presenti anche tribù di boscimani.

Animali tipici dei deserti sono il cammello (in Asia) ed il dromedario (in Nordafrica e nei deserti dell'Arabia), utilizzati dalle popolazioni locali come animali da soma e come cavalcatura. Hanno entrambi zampe piatte, adatte a camminare sulla sabbia, un mantello molto folto per proteggersi dai raggi solari ed una (il dromedario), o due (il cammello) caratteristiche gobbe, il cui grasso, mediante un complesso processo metabolico, serve a produrre liquidi necessari a questi animali per sopravvivere in condizione di grave disidratazione, rendendoli particolarmente adatti alle difficili condizioni ambientali. Tra gli animali desertici, vi sono: i suricati che vivono in grandi colonie. Per sopravvivere alla scarsità di cibo si nutrono di una dieta varia e costruiscono profonde gallerie per raggiungere eventuali falde acquifere nel sottosuolo. Anche varie specie di uccelli abitano il deserto, così come molti rettili, tra cui serpenti e lucertole. Molti animali hanno una livrea mimetica. Il cammello può resistere un anno intero senza mangiare ecco perché nei deserti si usa sempre come mezzo di trasporto.Esistono vari tipi di deserti e come tali hanno animali e vegetazioni diverse. Generalmente, in essi sono presenti anche il fennec (volpe del deserto), alcune gazzelle, il coyote, lo scarabeo nero e la vipera dal corno.

A causa della rarità dell'acqua, il Sahara è quasi privo di flora, della vegetazione mediterranea che copriva le montagne del Sahara prima che diventasse un deserto, rimane solo l'oleandro ed il cipresso del Tassili, in prossimità dei guelta.

Le piante si sono adattate all’ambiente in modo da ridurre l'evaporazione ed aumentare l'assorbimento d’acqua: presentano foglie molto piccole, radici molto lunghe capaci di affondare negli strati più umidi del suolo (acacie, tamerici), o accumulano l’acqua nei tessuti e hanno foglie ricoperte di cera (succulenti); alcune perdono le proprie radici per lasciarsi trasportare in modo da assorbire l'umidità dell'atmosfera (rose di Gerico) o succhiano la linfa delle radici delle altre piante (cistanche); altre perdono le proprie foglie in caso d’aridità per lasciarle crescere nella stagione umida (zilla), o rendono le proprie foglie immangiabili (melo di Sodoma), …



Si possono trovare alcuni arbusti isolati (tamerici, acacie) nel letto degli oued. I rari rovesci possono trascinare il germoglio di una magra prateria temporanea, l'acheb, ricercata dai nomadi.

La palma da datteri, introdotta dagli arabi, è indispensabile all'esistenza dell'uomo nelle oasi: i datteri sono un alimento molto energetico, i tronchi servono alla fabbricazione delle travi, il fogliame serve alla fabbricazione di cesti, corde, trecce e coperture per le capanne, … protegge dal sole gli alberi da frutto che, a loro volta, riparano le culture orticole.

Gli animali hanno anch’essi messo in opera delle strategie per economizzare l'acqua ed evitare il caldo eccessivo: strato spesso di chitine e vita sotto terra per gli scorpioni e gli insetti; recupero del vapore d’acqua contenuto nell'aria polmonare facendolo condensare nelle narici, produzione di feci iperprosciugate e d’urina molto concentrata, addirittura solida, da parte di certi uccelli; perdita delle ghiandole sudoripare, colore chiaro del manto per riflettere la luce solare, attività notturna di ricerca dell’acqua e del cibo, accumulo dell’acqua in sacche interne, sovradimensionamento delle orecchie per utilizzarle come radiatore per regolare la dispersione del calore (fennec, gatto delle sabbie); pelliccia a pelo corto che permette una migliore termolisi, aumento della temperatura interna per evitare di traspirare. .




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venerdì 16 ottobre 2015

IL REGGISENO



Gli antichi romani apparentemente non apprezzavano la vista dei seni femminili troppo grandi quindi le signore adottavano una serie di accorgimenti atti a ridurre il seno:
il mammillare era una fascia di cuoio che serviva per appiattire e contenere la crescita,
lo strophium sosteneva senza comprimere, mentre, per seni più abbondanti, si ricorreva al cestus, un corpetto di cuoio morbido, o addirittura ad una specie di corsetto, che dall'inguine arrivava alla base del petto (il mito narra che fu Venere ad inventarlo e a consigliarlo a Giunone, notoriamente prosperosa, al cui nome si deve l'aggettivo giunonica)
Il primo esempio documentato di reggiseno, nella sua concezione odierna, è stato ritrovato nel 2008 nel castello di Lengberg, in Tirolo, e risale alla metà del XV secolo.

Il reggiseno è nato ufficialmente nel 1889 dalle mani di Hermine Cadolle, bustaia di Parigi. Il primo esemplare era formato da due triangoli di seta rosa, legati da nastri in tinta che si allacciavano sulla schiena. In realtà, questo non era affatto il primo reggiseno della storia. Le antiche romane, per contenere “le grandezze indecorose”, facevano grande uso di fasce che fermavano poi con una cintura da indossare sopra la tunica, alla base del seno. Un’abitudine, quest’ultima, diffusa anche nel XIV secolo, quando le donne di alto rango per alzare il seno ne stringevano la parte inferiore con un’alta fascia. Poi arrivarono gli anni castigati del tardo Medioevo, tempo di corsetti in stoffa rigida e addirittura di armature metalliche.
Nel 1596 Scipione Mercurio dipinge, nella sua opera La commare, un reggiseno per nutrici sorretto da nastri sottili che si legano sul dorso, e da un altro da allacciare intorno al collo. E’ il primo prototipo di reggiseno che a poco a poco prende piede. Dopo i modelli della parigina Cadolle, verranno i “seni falsi”, imbottiti, brevettati in Germania per proteggere dagli urti le sportive (1929). Poi è la volta dei reggiseno gonfiabili (1933) e di quelli abbottonati davanti (1937).

Nel 1907, il reggiseno comparve per la prima volta sulla rivista Vogue, anche se si era ancora lontani dal reale abbandono del corsetto, al quale Paul Poiret e altri sarti innovatori dichiararono guerra, creando una nuova figura femminile non più ad anfora ma con vita molto alta, appena sotto il seno.
In America nel 1913, da un’ideazione di Mary Phelps Jacob, meglio nota come Carezza Crosby, si vide il primo reggiseno di concezione moderna, consistente in una sorta di tracolla in grado di separare il seno servendosi di due fazzoletti e di fasce per neonato.
Nel novembre dell’anno seguente l'inventrice ottenne il brevetto e tentò di commercializzare la sua invenzione, ma fu un fallimento.

Fu solo con l'avvento della Grande Guerra, quando gli uomini erano al fronte e le donne necessitavano di miglior libertà di movimento per lavorare e quindi di un abbigliamento comodo, il reggiseno iniziò ad imporsi sul mercato.
Nel primo dopoguerra, con l’emancipazione femminile, la moda ridusse le differenze fisiche tra uomo e donna, così negli anni '20 le donne iniziarono a portare capelli corti, a fumare sigarette e a portare i pantaloni, che fino a quel momento erano riservati solo al sesso forte.
Il reggiseno si trasformò in una tracolla che appiattiva il seno e gli “donava” un profilo informe: era la moda della donna alla “garçonne”, della quale ne fu testimonial Greta Garbo.

Arrivarono poi gli anni ’30, importanti per la vita del reggiseno poiché proprio in quel periodo si svilupparono tessuti elastici, come la batista o la mussolina in latex; venne inoltre scoperto il nylon e soprattutto il rayon, prima fibra sintetica della storia, il cui aspetto era simile alla seta, ma dai costi meno elevati. Questo fece sì che anche le donne meno abbienti potessero permettersi l’acquisto del reggiseno.
Arriva il secondo dopoguerra e in quel periodo ad andare di moda sono le tanto amate “pin-up”, donne con seno tornito, sferico, ben spinto verso l’alto. Un seno così nella società denutrita del periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale risultava molto rassicurante, un'immagine esteriore da invidiare e tentare di raggiungere. Nasce così il reggiseno Very Secret costituito da cuscini d’aria in grado di aumentare il décolleté persino delle più magre.
Donne famose che incarnavano questo prototipo di bellezza erano Marilyn Monroe, Jane Russell, Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Anita Ekberg. Donne ancora oggi considerate icone di bellezza a livello mondiale, oltre ogni moda e tempo.



Più la società si sviluppa e le persone mangiano a sazietà, e più purtroppo diviene quasi obbligatoria la magrezza nelle donne, vista come sinonimo di bellezza. In piena società dei consumi non stupisce che la bellezza coincida con il fisico asciutto della celebre indossatrice Twiggy. In questo periodo si può dire che il reggiseno sia quasi superfluo.

Altra grande svolta ci fu negli anni Cinquanta con la scoperta della lycra, tessuto fine, morbido, che si presentava come una seconda pelle, assicurando vestibilità e comfort.
Nel 1968 il reggiseno visse un momento particolare, alcune femministe gli diedero simbolicamente fuoco. Era una manifestazione dell’emancipazione femminile, del desiderio bruciante di liberare la donna da tutti gli impedimenti e di differenziarsi dalle generazioni precedenti.

Ma comodità non significa dover rinunciare al reggiseno: nel 1970 in Francia venne lanciato sul mercato il primo reggiseno modellato e senza cuciture, saldato ed impunturato in tutte le sue parti con gli ultrasuoni.
A seguito delle grandi crisi economiche degli anni '70, gli anni ’80 segnano il ritorno di seni fiorenti e donne in carne; nel 1981 si ebbe un vero big-bang dell’intimo. Sul mercato spopolava la varietà di modelli, colori e stampe, uniti a comodità e finezze mai viste.

Nel 1988 la Huit lanciò il reggiseno in felpa di velluto. Era l’era del reggiseno portato a vista, una moda lanciata dalla famosissima cantante Madonna, agli esordi della sua sfavillante carriera. La metà degli anni '90 è ricordata per la straordinaria invenzione che ha permesso alle donne di tutto il mondo di esibire un décolleté sfrontato, anche in mancanza di curve abbondanti: il Wonderbra, letteralmente “reggiseno delle meraviglie”, che grazie al sistema push-up regala quasi una taglia in più.
E da qui si sono sviluppate, una dopo l'altra, tecniche sempre più innovative per sorreggere il seno e dargli risalto, in modo il più possibile comodo. E allora si vedono sul mercato reggiseni ad olio, al silicone, ad aria e così via.



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