martedì 21 luglio 2015

LE ZOLFARE


« ...Scìnninu, nudi, ‘mmezzu li lurdduma
di li scalazzi ‘nfunnu allavancati;
e, ccomu a li pirreri s'accustuma,
vannu priannu: Gesùzzu, piatati!...
Ma ddoppu, essennu sutta lu smaceddu,
grìdanu, vastimiannu a la canina,
ca macari “ddu Cristu” l'abbannuna... »

« ...Scendono, nudi, in mezzo alla sporcizia
cadendo in fondo dalle scalacce;
e, mentre si avvicinano agli spietratori
vanno pregando: Gesù mio, pietà!...
Ma dopo, essendo sotto quello sfracello,
gridano, bestemmiando come cani,
che anche “quel Cristo” li abbandona... »
(Alessio Di Giovanni)


Il prelievo dello zolfo di affioramento avveniva in tempi molto antichi, si sono infatti trovate vestigia minerarie risalenti al 200 a.C.; questo veniva usato in medicina da tempo immemorabile ma i Romani lo utilizzarono anche a scopo bellico mescolandolo ad altri combustibili.

A metter in moto lo sfruttamento su larga scala dello zolfo siciliano fu la scoperta del metodo Le Blanc (1787) per la fabbricazione su scala industriale della soda. Lo zolfo, ingrediente fondamentale anche per la produzione della polvere da sparo, assunse allora un'importanza strategica pari a quella ricoperta nell'era moderna dall'uranio. Durante le guerre napoleoniche numerosi capitalisti britannici cominciarono ad interessarsi delle zone minerarie a cielo aperto che si trovavano in prossimità dei porti della Sicilia meridionale. Dopo la pace e la restaurazione del 1815 anche varie imprese francesi iniziarono la loro attività nel settore in virtù dello sviluppo della produzione e della richiesta dell'acido solforico che ebbe un'ulteriore effetto propulsivo sull'estrazione del minerale siciliano. Lo sviluppo dell'estrazione su base industriale iniziò intorno al 1820, su iniziativa dei reali borbonici, che cercarono sempre di piegare lo sfruttamento di questo importante settore minerario all'interesse nazionale, ma dovettero spesso cedere alle pressioni esterne di Francia e Inghilterra, le superpotenze dell'epoca. Negli anni tra 1828 e 1830 l'esportazione di zolfo verso gli opifici di Marsiglia per la produzione di soda e acido solforico raggiunse e superò le 35.000 tonnellate. Vari motivi contingenti, tra cui la sovrapproduzione, fecero sì che dal 1830 in poi l'industria zolfifera avesse alti e bassi con oscillazioni dei prezzi piuttosto sostenute anche per la concorrenza delle piriti estratte nel centro Italia, e lavorate in loco, il cui costo di trasporto era inferiore. I tentativi di stabilire industrie produttive di acido solforico e soda in Sicilia non ebbero per varie ragioni molto successo; nel 1838 Ferdinando II aveva concesso il monopolio dello zolfo siciliano alla società francese Taix & Aycard che in cambio prometteva lo sviluppo di industrie di trasformazione e la costruzione di 25 km di strade carrozzabili l'anno. Tuttavia questa scelta non condusse ai risultati sperati, poiché i prezzi di mercato salirono eccessivamente, le iniziative industriali non ebbero seguito, e si manifestò la dura opposizione della Gran Bretagna che minacciò addirittura il sequestro delle navi siciliane, così nel 1846 gli accordi in tal senso vennero revocati. Il più grande importatore, nel 1849, era rappresentato dall'Inghilterra, ma lo zolfo era venduto in grandi quantità anche agli Stati Uniti.

Lo sviluppo di metodi di utilizzazione delle piriti (di costo molto più basso) al posto dello zolfo nella produzione dell'acido solforico assieme alla diffusione del metodo Solvay per produrre soda artificiale furono determinanti nella progressiva perdita di quote di mercato, in particolare in Germania e Inghilterra, con conseguente crollo dei prezzi dello zolfo siciliano. La produzione continuò fino alla fine dell'Ottocento ma il crollo dei prezzi di vendita mise in crisi tutto il settore.

Nel 1896 venne costituita a Londra la Anglo-Sicilian Sulphur Company Limited una società di cui faceva parte Vincenzo Florio, che ne era il procuratore per la Sicilia, e un gruppo di investitori interessati tra cui gli inglesi Benjamin Ingham e Agostino Porry; lo scopo era quello di rilanciare la commercializzazione di acido solforico e derivati dello zolfo. Gli accordi stipulati con la Anglo-Sicilian-Sulphur Co. permisero ai produttori l'accesso al credito per il finanziamento di impianti industriali più moderni migliorando le strutture delle miniere. Per un certo periodo il settore solfifero siciliano venne risollevato dalla crisi in cui era precipitato; i prezzi che nel 1895 erano scesi a 56 lire a tonnellata già qualche anno dopo si erano erano stabilizzati a 90-95 lire.



A rilanciare la richiesta di zolfo fu anche la seria diffusione di una malattia delle piante, l'Oidio; un fungo parassita della vite colpì i vigneti di tutta Europa devastandoli. L'unico rimedio per prevenirne la diffusione era l'irrorazione delle piante con polvere di zolfo in soluzione acquosa. La raffinazione e la macinazione dello zolfo divennero quindi di nuovo redditizie con la nascita di raffinerie e impianti molitori in varie località costiere del licatese fino a Porto Empedocle e nella città di Catania.

Uno dei problemi alla base delle varie crisi del settore era la carenza infrastrutturale nei trasporti, mancanza di strade di comunicazione, mancanza di porti che permettessero l'approdo delle grosse navi da carico, assenza di mezzi meccanici e ferrovie che i vari governi avevano trascurato e che il nuovo Regno d'Italia affrontava con poca determinazione. Nei primi anni settanta del XIX secolo il sindaco di Catania Tenerelli, finanziere e imprenditore del settore zolfifero, denunciava il ritardo con cui si procedeva nella costruzione della Ferrovia Palermo-Catania come motivo principale di paralisi dell'industria zolfifera. Infatti, solo dopo l'apertura della tratta fino a Villarosa (1876), realizzata in subappalto da Robert Trewhella (anch'egli grosso imprenditore zolfifero del catanese) lo zolfo poté giungere celermente alle raffinerie della città e al Porto di Catania. Tale fatto portò la città ad assumere un ruolo preminente nel settore, perché abbatté a quasi la metà il prezzo unitario di trasporto, fino al tempo realizzato per mezzo dei carramatti, sorta di carri da carico tirati da robusti cavalli da tiro.

Verso la fine del secolo XIX erano presenti e attive oltre 700 miniere con un impiego di forza lavoro di oltre 30.000 addetti. Le cui condizioni di lavoro tuttavia rimanevano al limite del disumano. Gli anni di fine secolo videro quindi la nascita e lo sviluppo delle prime organizzazioni sindacali e l'inizio degli scioperi per ottenere più umane condizioni di lavoro. Gli zolfatari furono quelli che più di tutti parteciparono alla costituzione dei Fasci dei lavoratori: nel maggio 1891 si costituì il Fascio di Catania, nell'ottobre 1893 a Grotte, paese minerario in provincia di Agrigento, si tenne il congresso minerario. Al congresso parteciparono 1.500 fra operai e piccoli produttori. Gli zolfatari chiedevano di elevare per legge a 14 anni l'età minima dei carusi di miniera sfruttati fin'allora come schiavi, la diminuzione dell'orario di lavoro (che era praticamente dall'alba al tramonto) e il salario minimo. I piccoli produttori chiedevano provvedimenti che li affrancassero dallo sfruttamento dei pochi grossi proprietari che controllavano il mercato di ammasso ricavandone, loro, tutto il profitto. I Fasci tuttavia vennero sciolti d'autorità dal Governo Francesco Crispi all'inizio del 1894 dopo che negli scontri con l'esercito erano morti oltre un centinaio di dimostranti in un solo anno. Il settore era entrato in crisi negli anni novanta e la società anglo-siciliana aveva spostato i commerci su Porto Empedocle dove i costi erano inferiori provocando serie ripercussioni sull'economia catanese.

Nel 1901 le unità lavorative raggiunsero il livello massimo di trentanovemila con 540.000 tonnellate di minerale di zolfo estratto.

La società anglo-sicula continuò ad operare ma cessò l'attività in conseguenza della diffusione del nuovo metodo di estrazione il processo Frasch diffusosi negli Stati Uniti che, abbassando drasticamente i costi di estrazione, rese non più competitive le miniere di Sicilia alle quali il metodo non era applicabile a causa della differente conformazione e composizione dei giacimenti.

La prima guerra mondiale aumentò le difficoltà di approvvigionamento dei materiali per l'industria e diminuì i minatori in conseguenza della chiamata al fronte della gran parte della forza lavoro. Alla fine della guerra l'industria dello zolfo americana si accaparrò gran parte del mercato mondiale. Nel 1927 il fascismo demanializzò il sottosuolo minerario creando l'Ente Nazionale Zolfi Italiani con sede a Roma accentrandovi tutte le attività estrattive, commerciali ed economiche non riuscendo tuttavia nell'intento di risollevare il settore. La produzione siciliana di zolfo riprese un po' di fiato solo dopo il 1943, a guerra finita (in Sicilia), ma solo fino ai primi anni cinquanta dato che l'America impegnata nella guerra di Corea canalizzava verso l'industria bellica le risorse.

La successiva ripresa della produzione industriale americana rastrellò di nuovo tutti i mercati bruciando la concorrenza con bassi prezzi nonostante il protezionismo italiano sia a livello di Governo centrale che regionale (che nel 1962 aveva creato allo scopo l'Ente Minerario Siciliano). I provvedimenti adottati non fecero altro che prolungare inutilmente la lenta agonia del settore zolfifero isolano fino a quando la liberalizzazione del mercato voluta dal Mercato Europeo Comune non ne ha decretato la fine. Nel 1976 la produzione di zolfo isolano non aveva superato nel complesso le 85.000 t. A partire dal 1975 varie leggi hanno prodotto la progressiva chiusura delle miniere Musala, Zimbalio, Gaspa La Torre, Baccarato, Giangagliano, Floristella, Grottacalda, Giumentaro per citarne le maggiori; oggi non ne rimane nessuna in attività.

Lo zolfo è un elemento non metallico, ampiamente distribuito sulla superficie della terra. E 'insapore, inodore, insolubile in acqua, e si trova spesso in cristalli di colore giallo o in masse.
Il termine zolfo deriva etimologicamente dal latino sulfur, “Pietra che brucia”, ed è stato usato quasi intercambiabile con il termine per il fuoco. La traduzione inglese si riferisce allo zolfo come “brimstone”, pietra dell'orlo, perché si trova facilmente sul bordo dei crateri di vulcani.
Il termine siciliano “surfaru” deriva quasi certamente dall'arabo sufra, che vuol dire giallo.

A causa della sua combustibilità, lo zolfo è stato utilizzato per vari scopi almeno da 4.000 anni a questa parte: come fumigante, agente sbiancante e come incenso nei riti religiosi.
Omero menziona lo zolfo, usato come agente purificatore dopo la strage dei Proci, nell’Odissea nel IX secolo a.C., viene citato nella Genesi, e Plinio (23-27 d.C.) ha riferito che lo zolfo era un “singolare tipo di terra” con grande potere su altre sostanze, ricco di “virtù medicinali”.
I Romani usavano zolfo, o fumi causati dalla sua combustione, come insetticida e per purificare l’aria delle stanze dei malati, analogamente a quanto riporta Omero nell'Odissea.
Sia i Greci ed i Romani inoltre utilizzarono lo zolfo per produrre fuoco e giochi pirotecnici usati durante le rappresentazioni al Circo o nei teatri. Inoltre, miscelandolo con catrame, resina, bitume e altri combustibili riuscirono a produrre armi incendiarie che usarono nelle loro battaglie e nei lunghi assedi, ma queste conoscenze scomparvero in occidente con il declino dell'impero romano. Rimasero tuttavia in uso nell’impero romano d’oriente tanto che i Crociati, di ritorno dalla Terra Santa, portarono con loro la conoscenza della polvere da sparo, che era stato nel frattempo perfezionata dai cinesi e che consiste in una miscela di nitrato di potassio (KNO3), carbonio e, appunto, zolfo.
Acquisita la conoscenza della polvere da sparo, e compreso l’uso bellico dirompente che se ne poteva fare, in Europa l'uso della polvere da sparo cominciò a diventare significativo a partire dal XV secolo, gettando le basi per la fine della guerra di cavalleria. L'uso delle armi da fuoco personali fu un crescendo fino a metà del XIX secolo, raggiungendo l’apice con le Guerre napoleoniche, tra il 1792 ed il 1815.
Ma il grande impulso all’uso industriale “civile” dello zolfo coincise con la nascita della chimica moderna nel 1700 e il riconoscimento dell’acido solforico come uno degli acidi minerali più importanti e versatile.
Anche se è abbondante su scala mondiale, lo zolfo nativo si trova di solito in quantità relativamente piccole. La maggior quantità di zolfo presente in natura è combinato con altri elementi, in particolare i solfuri di rame, ferro, piombo e zinco, e i solfati di bario, calcio (comunemente conosciuto come gesso), magnesio e sodio.
Le prime civiltà non avevano avuto bisogno di molto zolfo e il loro fabbisogno era stato facilmente soddisfatto dai depositi di zolfo nativo superficiale vicini a vulcani attivi e spenti.
Lo zolfo usato da civiltà pre-romane era probabilmente ottenuto per riscaldamento di pirite di ferro o rame. Indagini archeologiche hanno rivelato che già i romani, che iniziarono a farne un uso più diffuso, ricavavano lo zolfo anche dalle miniere a cielo aperto etrusche e dalle miniere siciliane come documentato da Plinio.
Lo sfruttamento industriale e intensivo dello zolfo ebbe inizio nel 1736 quando si scoprì che da esso poteva ricavarsi l’acido solforico che, oltre ad essere un ottimo solvente, è anche un potente ossidante in grado di attaccare i metalli con formazione del solfato corrispondente e sviluppo d’idrogeno. Concentrato a caldo attacca anche alcuni metalli nobili e carbonizza la maggior parte delle sostanze organiche.



Quella della zolfara è una storia di miseria, di sfruttamento, di sofferenze, di morte, di abbrutimento, anche degli stessi “gabelloti” che apparivano aguzzini agli occhi dei minatori. Ciò, certamente non giustifica la loro condotta e la loro smania arricchirsi. Ben rende questo clima Luigi Pirandello, che così scrive nella novella Il Fumo: “Chi erano, infatti, per la maggior parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d'un quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivare la zolfara presa in affitto dai mercanti di zolfo delle marine, che li assoggettavano ad altre usure ed altre soperchierie. Tirati i conti, che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiù, esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti, per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore alle loro forze, su e giù per le gallerie e le scale della buca”.

La miniera secondo criteri scientifici, corrisponde all'intero deposito minerario di una determinata zona, ma in Sicilia il termine miniera si faceva corrispondere ai confini di proprietà del suolo. Uno stesso giacimento pertanto poteva essere frazionato in numerose concessioni, rendendone antieconomico lo sfruttamento. Dando in gabella la miniera frazionata si contribuiva alla formazione di elevati estagli, così si chiamava il canone di affitto, causando un aumento del costo del minerale: il gabelloto aveva pertanto interesse a sovra produrre e a sfruttare quanto più possibile sia le miniere che la manodopera.
Nel 1890 erano attive in tutta la Sicilia circa 480 miniere e di queste solo 52 erano “coltivate” direttamente dai proprietari in genere appartenenti a famiglie aristocratiche o ad ordini religiosi, tutte le altre erano concesse a gabella, la cui durata andava da 9-12 anni fino, talvolta, a 20 anni.
Il canone di affitto veniva corrisposto in natura, con una parte dello zolfo ottenuto dalla fusione, chiamato estaglio, e che corrispondeva mediamente al 25% della produzione totale. La gabella mineraria era una sorta di contratto di appalto che imponeva al gabellota sia il sistema di coltivazione (generalmente quello a colonne, archi e pasture di cui si stabilivano per ogni miniera numero, spessore e dimensioni dei pilastri, delle volte e del suolo di lavorazione, come pure l'inclinazione e la profondità delle scale delle gallerie) sia la supervisione del proprietario o di un suo fiduciario.
Strutturalmente una miniera era costituita da una serie di gallerie sotterranee, disposte su più livelli, che crescevano di numero man mano che si procedeva all’estrazione del minerale.
La coltivazione delle miniere, per farle fruttare il più possibile, non avveniva in modo razionale, infatti venivano spesso tralasciati i lavori di tracciamento per una buona ventilazione e l'obbligo contrattuale di procedere all'abbattimento delle sovrastrutture induceva il gabelloto a non costruirle e a servirsi di strette calature a forma di camini inclinati, le “discenderie” provviste di gradini per il transito degli operai e il trasporto all’esterno del materiale. L’areazione nelle miniere più primitive, era data dalla sola apertura all’imbocco della galleria, per cui, la ventilazione era difettosa e, spesso, si verificava l’accumulo di gas asfissianti (acido carbonico chiamato “rinchiusu” dai minatori) o di gas esplodenti (idrogeno solforato o “antimoniu”), facilmente  infiammabili per l’uso delle lumere e successivamente delle lanterne ad acetilene (a citalena).

Il personale delle miniere constava di un numero elevato e diversificato di addetti in relazione al tipo di prestazione esercitata. Era costituito da operai che lavoravano all’interno della miniera, per la costruzione e manutenzione delle gallerie, l’abbattimento ed il trasporto del minerale e da operai che lavoravano all’esterno il materiale estratto e attendevano a tutte le mansioni che richieste nel processo produttivo.
Lo scarso livello tecnico dei lavori di preparazione era spesso causa di crolli che seppellivano intere squadre di operai.
Artefici principali nell’estrazione dello zolfo erano i picconatori, i “pirriatura” o “picunieri”, cioè coloro che individuavano il filone zolfifero e staccavano a picconate il minerale dalle pareti di roccia. Il loro lavoro era duro e rischioso per la elevata temperatura, la poca luce e ventilazione e per l'aria sempre impregnata di gas e polvere. Tra il gabellota e il picconiere il rapporto di lavoro era regolato da un contratto a cottimo: il gabellota pagava un tanto per una certa quantità di zolfo estratto e trasportato fino al piano della miniera. L'orario di lavoro era, teoricamente, di circa otto ore al giorno e la retribuzione media oscillava alla fine dell'Ottocento da 2 a 3 lire. Ovviamente l'esercente metteva in atto tutte le forme più diffuse di sfruttamento come la corresponsione irregolare o la pratica del truck system.

Compagni inseparabili e complemento dei “pirriatura” erano i “carusi”, bambini di età tra i sette ed i quindici anni cui era affidato il compito di trasportare a spalla, fuori dalla miniera, il materiale zolfifero. I carusi erano legati al picconiere da contratti orali di cottimo, con un compenso fisso per ogni cassa di zolfo trasportata. Ogni picconiere disponeva da due a sei carusi. Il picconiere “affittava” i carusi anticipando una somma di denaro, detto soccorso morto, alle famiglie dei carusi.
Una volta trasportato all’esterno, i “carcarunara” sistemavano il materiale zolfifero nei forni e gli “arditura”, davano fuoco e controllavano la fusione e la colatura del liquido nelle forme di legno, dove si sarebbe solidificato in “balate”.
La direzione dei lavori era affidata ai capomastri, di solito ex picconieri, che avevano maturato esperienza attraverso il loro lavoro.
Solo dopo il 1864, anno in cui si avvia la Scuola Mineraria di Caltanissetta, le miniere più grandi furono dirette da periti e capominatori ben preparati.
Una volta portato in superficie lo zolfo doveva essere separato dalla ganga. L'estrazione dello zolfo avveniva in speciali forni detti “calcaroni” e in tempi più recenti in forni “Gill” o per flottazione.
Il metodo più antico di fusione fu quello della “calcarella”, una piccola fornace del diametro di circa due metri con un suolo a piano inclinato necessario per fare confluire verso il foro di uscita (la “morte”) lo zolfo liquido.
Il sistema di fusione delle Calcarelle fu usato fino alla prima metà del 1800. Questo forno arcaico veniva riempito fino all’orlo e, appiccato il fuoco al cumulo, si attendeva la fusione. Il processo durava circa 6-7 ore lo zolfo cominciava a colare dalla “morte” dentro appositi recipienti di legno, “gaviti” e, dopo il raffreddamento ed il consolidamento, confezionato in forme tronco-piramidali dette “balati”.
Questa tecnologia arcaica era fortemente inquinante per l'aria e per i terreni circostanti, tanto che per molti decenni non fu possibile coltivare i terreni in vicinanza delle calcarelle.
Anche la resa era modesta, poiché veniva bruciato e quindi perso, circa il 60% del prodotto.
Durante un incendio, avvenuto nel 1842 in una miniera presso Favara in Sicilia gli uomini, non disponendo di acqua, pensarono bene di soffocare il fuoco coprendo il minerale con terra e pietre. Dopo circa un mese da sotto quella massa cominciò a scorrere zolfo puro di qualità superiore a quella che la miniera aveva sempre dato. Fu così che, intorno alla metà del 1800, venne messo a punto il “calcarone”, sistema di fusione sostanzialmente simile al precedente, ma caratterizzato da una copertura sommitale che aveva lo scopo di frenare e rendere meno viva la combustione e da una resa superiore del prodotto, che colava in grana più fine e colorito migliore. E soprattutto non si correva il rischio di perdere il prodotto nel caso di avverse condizioni atmosferiche e la produzione di anidride solforosa era più limitata.
Con questo sistema si ottenne un notevole aumento della produzione e gli operai che si occupavano del caricamento e quelli che curavano le fasi della fusione, carcarunara e arditura, divennero figure determinanti per la buona riuscita delle fusioni.

I carcarunara, lavoravano in squadre di 20-30 e avevano un capo che stabiliva il contratto di cottimo, e si spostavano da una miniera all'altra durante la stagione estiva. Gli arditura controllavano tutte le fasi della fusione e della colatura dello zolfo fuso nei gaviti da dove si estraevano i balati o pani di zolfo solido che venivano spediti, tramite carri o ferrovia, ai porti di imbarco. Questi operai erano meglio pagati poiché gli si richiedeva notevole esperienza ed abilità nel controllo della combustione.
In realtà l’ambiente delle zolfare era intriso di feudalità e la sua economia era soggetta alle continue variazioni del mercato internazionale. Inoltre molti erano i mercanti stranieri che affittavano le miniere in Sicilia: a Lercara, ad esempio, c’erano gli inglesi Gardner e Rose e il console svizzero Hirzel.
Furono proprio i mercanti inglesi, quegli stessi inglesi che si opposero con la forza a che le miniere siciliane fossero “modernizzate” dai mercanti francesi, ad adottare l'odiosa pratica del “Truck system”, un sistema escogitato per ridurre i costi di produzione a spese dei minatori.
Il metodo dei Calcaroni continuò, però, a produrre danni all’ambiente ed alle colture circostanti.
Le proteste degli agricoltori e le denuncie delle amministrazioni comunali contro i danni provocati dall’anidride solforosa furono tali e tante che l’intendenza di Girgenti e Caltanissetta furono costrette ad emanare una serie di regolamenti tra i quali si prescriveva che questi impianti fossero installati ad una distanza non inferiore a 3 chilometri dai centri abitati ma che, ovviamente, non riuscirono ad eliminare il problema.
Molti furono i tentativi di trovare modi di fusione meno inquinanti come il forno Durand o il forno Hirzel, che però ebbero scarsi risultati, fu solo nel 1880 venne messo a punto nelle miniere Gibellini e Ragalmuto un nuovo tipo di forno, il Forno Gill, che prendeva il nome del suo ideatore, l’ingegnere Robert Gill.
Il forno Gill, come il calcarone, funzionava usando lo zolfo come combustibile per la fusione dello zolfo stesso, ma aveva diversi vantaggi: era riparato dall’azione degli agenti atmosferici, la produzione poteva svolgersi tutto l’anno con qualsiasi tempo e la perdita di zolfo era appena del 15-25%.
Solo verso la metà del XX secolo l’industria estrattiva dello zolfo si avvalse degli impianti di flottazione., l'unica alternativa concreta ai vari sistemi di fusione sperimentati ed utilizzati in prossimità delle miniere.
Questo sistema, che entrò in uso solo nell’ultimo periodo delle miniere, in quella fase ormai di dismissione dell'attività estrattiva dello zolfo siciliano, consisteva nella separazione del minerale dalla ganga con l'utilizzo di sostanze e procedure che ne favoriscono il distacco. In pratica il materiale estratto veniva finemente triturato e messo in sospensione, in apposite celle, in un liquido (acqua e oli) a formare una miscela, la “torbida”. Nelle celle di flottazione la “torbida” veniva agitata meccanicamente fino alla formazione di una schiuma, con la conseguente separazione dello zolfo dalla ganga. L’impianto di flottazione consentì un recupero di zolfo fino al 99,5%.
I più importanti progressi dell'industria solfifera si avranno verso il 1870/80 quando saranno introdotti l'estrazione meccanica per i pozzi verticali, l'eduzione delle acque per mezzo di motori a vapore e agli inizi del XX secolo con l'applicazione dell'energia elettrica.

Tuttavia le basi dell'industria mineraria siciliana rimarranno sempre deboli e non consentiranno il formarsi di una forte borghesia imprenditoriale; i gabelloti, vessati da rapporti di produzione di tipo feudale e soggetti alle brusche oscillazioni del mercato solfifero, spesso andavano incontro al fallimento, come successe alla famiglia Pirandello, non permettendo il costituirsi di una struttura imprenditoriale solida e stabile.




LEGGI ANCHE : http://popovina.blogspot.it/2015/07/lo-zolfo.html





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