sabato 29 agosto 2015

LA SINDROME DI KORSAKOFF

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La sindrome di Korsakoff è così chiamata in onore di Sergei Korsakoff, il neuropsichiatra russo che per primo, nel tardo 19esimo secolo, ne descrisse i caratteri generali.

Paralisi dei muscoli dell’occhio (oftalmoplegia), confusione mentale, alterata coordinazione dei movimenti (atassia) nel cammino furono rilevati da Carl Wernicke nel 1881 in tre soggetti, due dei quali erano alcolisti. All’autopsia furono rilevate piccole emorragie multiple diffuse in alcune aree del cervello ed in particolare nella materia grigia localizzata intorno al ventricolo cerebrale, la cavità  posta al centro del cervello. Poco tempo dopo uno psichiatra russo, Sergei Korsakoff, descrisse una casistica di 20 etilisti con disturbi della memoria (amnesia) anterograda. L’amnesia anterograda consiste nell’incapacità  di acquisire nuovi ricordi dopo che un danno ha colpito il cervello. In seguito i due quadri vennero unificati nella Sindrome di Wernicke-Korsakoff dimostrando che non si trattava di patologie distinte, ma di fasi diverse di una stessa malattia. Si scoprì anche che i danni e le disfunzioni erano correlate a carenza o mancanza di vitamina B1 o tiamina. Questa condizione, che si può verificare anche come conseguenza di denutrizione, nutrizione parenterale (endovenosa) prolungata, gravi forme di vomito in gravidanza e dopo interventi chirurgici per grave obesità , è reversibile con la somministrazione di tiamina. Negli alcolisti, la carenza di tiamina ha varie cause: ridotta introduzione per alimentazione inadeguata, riduzione dell’assorbimento della vitamina nell’intestino, dell’immagazzinamento e della trasformazione della sua forma attiva. La Sindrome di Wernicke-Korsakoff ha un’incidenza, rilevata con autopsie nella popolazione generale, dello 0,1-2,8%, ma colpisce il 12.5% degli etilisti. La diagnosi precoce della sindrome si basa sul riconoscimento dei sintomi caratteristici: alterazioni dei movimenti dell’occhio, perdite di equilibrio, mancato coordinamento del cammino o alterati stati mentali. Questi ultimi possono consistere in apatia, incapacità  di concentrarsi, stato confusionale, allucinazioni, fino al coma. La RNM fornisce importanti informazioni sui danni alla base dei sintomi, ad esempio riduzione di volume della materia grigia in aree specifiche, e anche sul beneficio che l’astinenza dall’alcol può portare.

La sindrome di Korsakoff è una malattia neurologica reversibile, che insorge a causa di una grave carenza di vitamina B1.
Tale carenza vitaminica può aver luogo per svariati motivi: l'alcolismo e la malnutrizione sono i due elementi principali, ma potrebbero influire anche un trattamento di tipo chemioterapico, uno stato di iperemesi gravidica, una dieta errata ecc.
I sintomi della sindrome di Korsakoff consistono in gravi disturbi della memoria (come le amnesie anterograde e le amnesie retrograde), cambiamenti di personalità, confabulazione, apatia ecc. Inoltre, alcune persone malate di sindrome di Korsakoff soffrono anche di una forma di encefalopatia, chiamata encefalopatia di Wernicke.



Secondo varie indagini statistiche, riguardanti più Paesi del mondo, la sindrome di Korsakoff sarebbe presente nello 0,8-3% della popolazione generale.
A esserne maggiormente affetti sono gli uomini di età compresa tra i 45 e i 65 anni, con una storia di alcolismo cronico. Tuttavia, possono ammalarsi individui di ogni età, quindi uomini più giovani di 45 anni e più vecchi di 65 anni.
Nelle donne, la sindrome di Korsakoff è un fenomeno più raro e che interessa soprattutto soggetti adulti giovani. Inoltre, occorre ricordare che il sesso femminile è più vulnerabile alla malattia, in quanto l'organismo di una donna è più sensibile agli effetti dell'alcol.

Le due principali condizioni che possono indurre una carenza di vitamina B1 sono: l'alcolismo cronico e uno stato di malnutrizione grave. Infatti, in entrambe le circostanze, si ha un apporto di tiamina così ridotto che non vengono rimpolpate le scorte della stessa vitamina, presenti nell'organismo; scorte che pian piano si esauriscono.
Altre situazioni che possono provocare una carenza di vitamina B1 sono:
Dieta errata
Vomito ricorrente
Disturbi alimentari
Effetti collaterali della chemioterapia
Iperemesi gravidica
Avvelenamento da mercurio

Molti malati di alcolismo non si alimentano secondo le esigenze nutrizionali del proprio organismo, pertanto vengono a mancare elementi fondamentali come le vitamine ecc.
L'alcol interferisce con il processo di conversione della tiamina nella sua forma attiva. La vitamina B1 che si assume con gli alimenti deve subire un determinato processo per entrare in azione: tale processo, in chi abusa di alcol, è ridotto.
L'alcol infiamma la parete interna dello stomaco, causando vomito ricorrente. Ciò riduce l'assorbimento dei nutrienti ingeriti, tra cui anche la tiamina.

La sindrome di Korsakoff provoca tipicamente gravi disturbi di memoria. Questi consistono in amnesie - cioè perdite di memoria - che possono essere di tipo anterogrado e/o retrogrado.
Le amnesie anterograde sono deficit neurologici che rendono difficile l'immagazzinamento di nuove informazioni, mentre le amnesie retrograde sono deficit neurologici che provocano la perdita dei ricordi precedenti l'insorgenza della patologia.

Medici ed esperti di malattie neurologiche ritengono che, oltre ai disturbi della memoria, la sindrome di Korsakoff sia all'origine di altri sintomi e segni altrettanto importanti, quali:
Confabulazione. È un disturbo psichiatrico per cui chi ne soffre costruisce falsi ricordi, riferiti a situazioni o eventi mai accaduti realmente.
Insorge solitamente durante le prime fasi della malattia e, secondo gli esperti, sarebbe un modo per riempire i vuoti di memoria.
Confusione mentale.
Cambiamenti di personalità improvvisi.
Apatia, ovvero riduzione dei comportamenti finalizzati a uno scopo, dovuta a un'assenza di motivazioni.
Poca partecipazione durante le conversazioni.

Dalle autopsie svolte sui malati di sindrome di Korsakoff, è emersa la presenza di lesioni cerebrali e segni di atrofia a livello dei nuclei dorsali del talamo, dei corpi mammillari del diencefalo e dell'ipotalamo.
Tutte queste regioni anatomiche del sistema nervoso centrale sono coinvolte in un modo o nell'altro nel processo di memoria e ciò spiega per quale motivo un malato di sindrome di Korsakoff manifesti amnesie di vario tipo.



Secondo alcuni studi, il sistema intellettivo delle persone con sindrome di Korsakoff risulterebbe inalterato, sebbene ci siano dei danni a livello della struttura cerebrale.
La sindrome di Korsakoff si associa con discreta frequenza a una patologia neurologica particolare, chiamata encefalopatia di Wernicke.
Caratterizzata in genere da oftalmoplegia, atassia e confusione mentale, l'encefalopatia di Wernicke possiede almeno un paio di aspetti in comune con la sindrome di Korsakoff. Infatti, in modo analogo a quest'ultima:
Insorge a causa di un insufficiente apporto, tramite la dieta, di vitamina B1.
È particolarmente diffusa tra gli alcolisti e le persone malnutrite.
Secondo alcune indagini statistiche, la contemporanea presenza dell'encefalopatia di Wernicke e della sindrome di Korsakoff - condizione definita precedentemente col termine di sindrome di Wernicke-Korsakoff - risulterebbe in circa l'80% degli alcolisti di grado elevato.

Al momento, non esiste alcun esame di laboratorio o sul cervello che attesti se una persona soffre di sindrome di Korsakoff o di un'altra forma di demenza.
Con ciò si spiega perché i medici, alle prese con un caso sospetto di sindrome di Korsakoff, basino prima di tutto le loro ricerche su un esame obiettivo accurato (il paziente si nutre in maniera adeguata?) e su un questionario per valutare i disturbi della memoria e un'eventuale dipendenza da alcol.

Se il paziente è un alcolista, un valido strumento diagnostico per individuare la sindrome di Korsakoff è osservare i risultati della disintossicazione da alcol.
Infatti, se il malato dovesse mostrare dei miglioramenti dal punto di vista neurologico, vorrebbe dire che soffre di una demenza temporanea, diversa per esempio dal morbo di Alzheimer.



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venerdì 28 agosto 2015

LA PALMA NANA



La palma nana, comunemente nota anche come palma di San Pietro, è una pianta della famiglia delle Arecaceae, unica specie del genere Chamaerops. È una specie tipica della macchia mediterranea.
I greci la chiamavano phoenix chamaeriphes, che significa letteralmente "palma gettata per terra".

Si presenta come un cespuglio sempreverde che raggiunge normalmente altezze sino a 2 metri, ma può raggiungere l'altezza di alcuni metri.

Il fusto è di diametro variabile (10–15 cm), ricoperto da un tessuto fibroso di colore bruno. Generalmente è corto, visibile solo negli esemplari vetusti. È ricoperto in basso dai residui squamosi delle foglie morte (con un diametro complessivo fino a 25–30 cm).

La corteccia è di colore marrone scuro o rossastra.

Le foglie sono larghe, robuste, a ventaglio, rigide ed erette, sostenute da lunghi piccioli spinosi riuniti a ciuffi sulla sommità del fusto; di colore verde sulla pagina superiore e quasi bianco sulla pagina inferiore.

I fiori sono portati da infiorescenze a pannocchia, corte e ramificate, di colore giallo, con peduncoli brevi. È usualmente (ma non invariabilmente) una pianta dioica con fiori maschili e femminili su piante separate. I fiori maschili hanno 6–9 stami che sovrastano un calice carnoso, i fiori femminili racchiudono 3 carpelli apocarpici carnosi.

I frutti sono drupe, globose o oblunghe, di lunghezza variabile (12–45 mm) con polpa assai fibrosa e leggermente zuccherina, di colore verde nelle prime fasi, successivamente giallo-rossiccio, marroni a maturità.

È diffusa in tutto il Mediterraneo occidentale dal sud del Portogallo a Malta (in Europa) e dal Marocco alla Libia (in Africa).

In Italia si trova lungo tutta la fascia costiera occidentale, dalla Sicilia alla Toscana centro-meridionale, comprese alcune isole del Mar Tirreno, mentre più a Nord è conosciuta solo per alcuni nuclei relitti nel territorio del Parco di Portofino (Liguria); è comune soprattutto in Sicilia, Calabria e Sardegna, regioni in cui si può allontanare di diversi chilometri dalle coste o risalire le prime pendici dei rilievi montuosi.

È un tipico elemento della fascia più termofila della macchia mediterranea. È diffusa soprattutto in zone calde, vicino alle coste; predilige esposizioni soleggiate e teme il freddo intenso. In ambiente naturale cresce principalmente su terreni rocciosi o sabbiosi.



L’estratto di Palma nana è utilizzato nell’uomo per aumentare la funzione testicolare e per eliminare l’irritazione nelle membrane mucose, in particolare quelle del tratto genito-urinario e della prostata. Innanzitutto l’ipertrofia prostatica è una manifestazione dell’invecchiamento cui si accompagna un accumulo di testosterone che, una volta giunto nella prostata, viene convertito nel più potente diidrosterone, che stimola le cellule a moltiplicarsi, da cui l’ipertrofia della ghiandola. Inoltre nello sviluppo della sintomatologia ostruttiva si riconoscono due momenti: una componente meccanica legata alla crescita della massa prostatica e una componente dinamica che coinvolge il tono della muscolatura liscia che riveste prostata e uretra.

I sintomi prevalenti sono una frequenza urinaria aumentata, risvegli notturni per la minzione con riduzione della forza e del calibro dell’urina, ritenzione urinaria.
L'estratto liposterolico (85-95 % di acidi grassi e steroli) delle bacche di Palma nana è utilizzato come adiuvante nel trattamento dell'ipertrofia prostatica benigna allo stadio I e II e dei sintomi ad essa associati. Infatti questo estratto liposterolico della palma nana ha dimostrato di essere in grado di impedire la conversione di testosterone a diidrosterone e di inibire il suo legame ai siti recettoriali e nucleari, aumentando quindi il suo metabolismo e la sua escrezione. Da qui il vantaggio sintomatologico avvertito dai pazienti che fanno uso di questa categoria di prodotti; oltre a una loro intrinseca utilità preventiva alle prime avvisaglie del disturbo: diminuzione dell’enuresi notturna di oltre il 45%; residuo menzionale ridotto del 42%; aumento del flusso di urina di oltre il 50% già a un mese dal suo impiego. Nessun significativo disturbo o effetto collaterale è riportato in letteratura.
I dati di una metanalisi dei risultati dei trials clinici effettuati per verificare l'efficacia della Serenoa repens nel trattamento della ipertrofia prostatica benigna dimostrano che esiste un effettivo miglioramento della pollachiuria e della nicturia nei pazienti che la assumono rispetto ai gruppi di pazienti trattati con placebo. Studi medico-scientifici hanno anche paragonato l’estratto di Saw Palmetto con un farmaco, la finasteride, usato nella medicina convenzionale per combattere l’iperplasia prostatica benigna (l’ingrossamento spesso legato all’età della ghiandola prostatica che, esercitando una pressione sulla vescica, induce più frequenti stimoli urinari, in particolare nelle ore notturne). La ricerca ha coinvolto 1.098 uomini a cui era stata diagnosticata questa problematica di ipertrofia prostatica; i ricercatori hanno concluso che entrambi i trattamenti hanno finito con l’alleviare i sintomi nel 75% dei casi. Ma se da un lato con la finasteride a fronte del beneficio sul volume della prostata si aveva anche una parallela riduzione del desiderio e della potenza sessuale, questo non accadeva col Saw Palmetto, che al contrario parallelamente incrementava la libido negli uomini che lo avevano assunto. Conseguentemente le principali indicazioni saranno date dall’ipertrofia prostatica, dalle patologie infiammatorie delle vie uro-andrologiche, fino alla ripresa di una corretta e buona libido. Il dosaggio varia a seconda della severità dei sintomi.



L’estratto di palma nana è anche stato usato nella donna con disturbi della ghiandola mammaria e si ritiene in letteratura che un suo impiego continuativo possa contribuire a un aumento del volume della mammella. In tal senso agiscono anche i fitoestrogeni della soia. Trattamenti che ovviamente devono essere seguiti per tempi medio-lunghi affinché possano effettivamente vedere ottenuti questi specifici benefici.

Fondamentalmente per questi stessi motivi il Saw palmetto risulta indicato per contrastare la caduta dei capelli. Pertanto anche in questa situazione un abbinamento di questo tipo di prodotti con quelli ricchi in sostanze ad azione antiossidante (oltre che in minerali e aminoacidi specifici per la nutrizione del bulbo pilifero e la sua protezione dagli insulti di carattere ossidativo) risulta particolarmente vincente nel contrastare attivamente la caduta dei capelli negli uomini di tutte le età e nelle donne dopo i primi anni di menopausa, quando si viene a manifestare la cosiddetta alopecia androgenetica (cioè la caduta a chiazze dei capelli nella donna in seguito a modificazioni ormonali a loro volta conseguenti alla menopausa). Infine grazie al suo contenuto in saponine sferoidali la palma nana può risultare utile nei casi di atrofia del testicolo e libido insufficiente, rinforzando la stessa fertilità e contrastando attivamente le disfunzioni del sistema riproduttivo, rivelandosi utile per riacquisire una buona funzionalità andrologica.


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IL DISCOGLOSSO DIPINTO

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E' un piccolo anfibio lungo mediamente 5-7 cm; alcuni esemplari arrivano anche a 10 cm. La caratteristica distintiva del genere è la presenza di una lingua rotondeggiante a margine posteriore libero. Il mantello, nel fenotipo più comune, è ricoperto da macchie bruno-verdastre su sfondo ocra-beige; ne esiste anche una varietà a strisce marrone-cioccolato alternate a strisce ocra-giallastro acceso. La taglia dei maschi è maggiore di quella delle femmine. I maschi sono provvisti di una palmatura che copre circa i 3/4 della superficie interdigitale degli arti posteriori, nelle femmine e negli immaturi la palmatura è ridotta a circa 1/4. I girini sono di colore bruno scuro, grigio o nero, con coda chiara.

La specie è comune dal livello del mare fino a circa 400 m di quota. Al di fuori del periodo degli amori, il suo habitat preferito è costituito da zone asciutte, anche se mai molto distanti da fonti di acqua perenni. frequenta anche luoghi moderatamente antropizzati, come giardini, camping, piantagioni e fattorie abbandonate. L'habitat acquatico preferito è costituito dalle zone poco profonde e ferme di stagni, canali, bacini artificiali e delle acque moderatamente correnti di fiumi, torrenti e ruscelli. Tollera bene alte concentrazioni saline ed è in grado di vivere anche in paludi salmastre e zone costiere sabbiose. Si ciba prevalentemente di invertebrati terrestri ed acquatici, come insetti, vermi, molluschi ed aracnidi. Le larve si cibano di alghe, fitoplancton e detrito organico.
Nel periodo post-riproduttivo lo si trova di rado e quasi mai in acqua.

È diffuso nel Maghreb (Marocco, Algeria, Tunisia), in Sicilia (assente nel resto d'Italia) e a Malta. Piccole popolazioni, probabilmente introdotte dall'uomo, sono state segnalate nel meridione di Francia e Spagna


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IL PIPISTRELLO ALBOLIMBATO



Pipistrello albolimbato è un pipistrello appartenente alla famiglia dei Vespertilionidi.

Chirottero diffuso in tutto il Mediterraneo, in particolare Europa meridionale, Africa settentrionale, Asia meridionale fino all'India orientale. In Italia è diffuso su tutta la superficie dal mare fino ai 1000m.

L'areale della specie è molto variegato. Nei luoghi urbani, sfruttando gli interstizi e i buchi delle costruzioni umani. In campagne utilizza i buchi negli alberi e nelle rocce. Anche se rimane principalmente una specie antropofila.

Coperto da mantello bruno, questo pipistrello è piuttosto piccolo e ha un’apertura alare di 21-24 centimetri; il volo è agile e veloce, le planate brevi. Di abitudini sedentarie, si rifugia nelle crepe delle rocce, nelle cavità degli alberi, nelle fessure degli edifici e nelle cantine; si nutre di piccoli insetti come ditteri e coleotteri, che in genere cattura in volo. La stagione riproduttiva cade tra la tarda estate e l’autunno, e in giugno-luglio nascono 2 piccoli. Le femmine sono fertili già dopo il primo anno di vita.

Danno alla luce due piccoli, più raramente soltanto uno, da giugno fino a luglio. Gli accoppiamenti avvengono in tarda estate o in autunno. Le femmine raggiungono la maturità sessuale dopo un anno di vita. L'aspettativa di vita è fino a 8 anni.

Si nutre di insetti, particolarmente ditteri, lepidotteri, tricotteri, coleotteri ed emitteri, catturati in volo intorno ai lampioni, in prossimità di alberi o sopra specchi d'acqua.


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IL MINIOTTERO



Il miniottero vive nell’Europa mediterranea, nell’Asia occidentale (Medio Oriente, Asia Minore e Caucaso) e nell’Africa settentrionale, dove frequenta gli ambienti boschivi. Provvisto di un mantello folto e morbido la cui colorazione varia tra il grigio e il bruno-giallastro, presenta muso corto, testa arrotondata, orecchie piccole e tondeggianti e coda lunga, completamente racchiusa nel patagio. Caccia gli insetti ad alta quota, anche fino a 30 metri; le ali, molto lunghe e strette, raggiungono un’apertura di 35 centimetri e si muovono molto rapidamente, tanto che il volo del miniottero ricorda un po’ quello delle rondini. Di giorno si rifugia in grotte, in gallerie e tra le fessure delle rocce formando colonie di centinaia di individui; quando vola, emette versi di suono metallico.
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Di medie dimensioni, con la lunghezza della testa e del corpo tra 47 e 63 mm, la lunghezza dell'avambraccio tra 42 e 51 mm, la lunghezza della coda tra 56 e 64 mm, la lunghezza del piede tra 8 e 10 mm, la lunghezza delle orecchie tra 7 e 13 mm, un'apertura alare fino a 34,2 cm e un peso fino a 19,5 g.

La pelliccia è corta, molto soffice e densa. Le parti dorsali sono bruno-grigiastre, grigie o nero-brunastre, mentre le parti ventrali sono più chiare con la base dei peli più scura. La fronte è molto alta e bombata, il muso è stretto e con le narici molto piccole. Le orecchie sono corte, triangolari, ben separate tra loro, con l'estremità arrotondata e bruno-grigiastre o marroni. Il trago è moderatamente lungo, con i bordi paralleli e l'estremità arrotondata. Le membrane alari sono molto allungate, strette, bruno-grigiastre e attaccate posteriormente sulle caviglie. La lunga coda è inclusa completamente nell'ampio uropatagio. Il calcar è lungo e privo di carenatura.

Emette ultrasuoni sotto forma di impulsi di breve durata a banda larga con massima energia compresa tra 48,8-52,8 kHz nelle forme asiatiche e 54,2 kHz in quelle europee.

Le femmine tendono a formare vivai, dove sono spesso presenti numerosi maschi. Normalmente si aggrappa con le zampe alle pareti, più raramente in contatto con la superficie o con altri individui. Condivide i siti con altre specie di pipistrelli, in particolare del genere Rhinolophus e Myotis. Durante le giornate autunnali raggiunge uno stato di torpore diurno, mentre entra in ibernazione da ottobre a marzo in Europa. Solitamente preferisce temperature esterne tra 7 e 12 °C.

Si nutre di insetti volanti, principalmente lepidotteri, coleotteri e ditteri, catturati sopra spazi aperti a circa 5-20 metri dal suolo e lontano dai rifugi.

Gli accoppiamenti avvengono in autunno, seguiti da un ritardato impianto dell'embrione, unico tra le specie di pipistrelli europei e dopo una gestazione di 8-9 mesi nasce un piccolo alla volta non prima dell'estate. Le femmine diventano mature sessualmente al secondo anno di età. L'aspettativa di vita media è di tre anni, mentre in cattività può raggiungere i sedici anni.


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giovedì 27 agosto 2015

IL PIPISTRELLO FERRO DI CAVALLO



Pipistrello di medie dimensioni, con la lunghezza della testa e del corpo tra 42 e 64 mm, la lunghezza dell'avambraccio tra 47 e 56 mm, la lunghezza della coda tra 16,2 e 37 mm, la lunghezza del piede tra 9 e 12 mm, la lunghezza delle orecchie tra 18 e 23 mm e un peso fino a 23 g.

La pelliccia è lunga, soffice, densa e vellutata. Le parti dorsali sono bruno-grigiastre con la base dei peli più chiara, il muso è più chiaro con una maschera intorno agli occhi più scura, mentre le parti ventrali bianche. Le orecchie sono relativamente corte. La foglia nasale presenta una lancetta affusolata con i bordi quasi paralleli e l'estremità smussata, un processo connettivo triangolare e una sella priva di peli, con i bordi paralleli, l'estremità larga, arrotondata e piegata in avanti. La porzione anteriore è stretta e con un incavo centrale alla base superficiale. Le membrane alari sono bruno-grigiastre, la prima falange del quarto dito è relativamente corta. La coda è lunga ed inclusa completamente nell'ampio uropatagio. Il primo premolare superiore è situato al di fuori della linea alveolare.

Emette ultrasuoni ad alto ciclo di lavoro con impulsi di lunga durata a frequenza costante di 105-112 kHz.



Si rifugia all'interno di grotte e fessure rocciose dove forma grandi colonie fino a 5.000 individui, spesso insieme al ferro di cavallo maggiore, il vespertilio maghrebino e il miniottero comune. Entra in ibernazione in inverno durante il quale si sposta nei ricoveri verso le entrate, mentre in estate le femmine formano vivai. Emette vocalizzazioni udibili dall'uomo. L'attività predatoria inizia la sera. Il volo è lento ed altamente manovrato, caratterizzato da brevi planate. È una specie sedentaria.

Si nutre di lepidotteri e in misura minore di coleotteri e ditteri catturati nella vegetazione od occasionalmente anche al suolo.

Danno alla luce un piccolo alla volta a maggio o giugno. Le femmine raggiungono la maturità sessuale a tre anni, i maschi a due. L'aspettativa di vita è fino a 12 anni.

Questa specie è diffusa in maniera frammentata nella Penisola iberica, Europa sud-orientale, Africa settentrionale dal Marocco al delta del Nilo in Egitto e nel Medio oriente fino all'Afghanistan. In Italia è presente soltanto in Sardegna e nella parte orientale della Sicilia.

Vive nella vegetazione mediterranea, boschi e foreste montane, radure e boscaglie semi-desertiche fino a 2.000 metri di altitudine.

Il disturbo dell’uomo nei suoi rifugi ed il forte uso di pesticidi in agricoltura mettono in serio pericolo la sua sopravvivenza.
Particolare attenzione deve essere posta alla protezione dei rifugi, soprattutto delle grotte per quanto riguarda lo svernamento. Preservazione degli edifici rurali e ristrutturazioni mirate, evitando anche l’impiego di vernici tossiche e di trattamenti antitarlo per le travi in legno. Conservazione degli habitat di caccia, con piantumazione di siepi, protezione dei boschi e riduzione di pesticidi negli ambienti agricoli.



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IL GECO



Il geco comune è un piccolo sauro della famiglia Phyllodactylidae, diffuso in gran parte dei Paesi che si affacciano sul mar Mediterraneo.

Gli esemplari adulti possono misurare fino a 15 cm di lunghezza, coda compresa. Questo geco è robusto ed ha la testa piana. Su tutto il corpo sono presenti dei tubercoli conici prominenti. La coda, se rigenerata dopo essere stata persa per autotomia, è invece liscia e priva di tubercoli. Ha una bocca simile ad un angolo ottuso, occhi privi di palpebre e pupilla verticale. Ha delle barrette con dei grandi sviluppi laterali e nella parte inferiore della faccia delle lamine aderenti divise una dall'altra. Soltanto la terza barretta rimane unita. Di colorazione è grigio oppure marrone brunastro con punti scuri o luminosi. Questi colori cambiano d'intensità a seconda della luce. Quando sono attivi di giorno il loro colore è più scuro rispetto a quando sono attivi di notte. Lo si trova in cantieri, rovine, pietraie, tronchi d'albero, muretti a secco ecc.
Testa abbastanza grande rispetto al corpo, ovale ed appiattita, con muso appuntito, occhi rotondi grandi, pupilla verticale ed iride giallastra, grigiastra o brunastra. Corpo robusto, grassoccio e appiattito. Dorso e coda grigiastri, brunastri o bruno-grigiastri, ricoperti di tubercoli che gli conferiscono un aspetto "ruvido e spinoso". Le dita sono provviste di ampi cuscinetti, più larghi sulla punta, che hanno sul lato inferiore una serie di lamelle longitudinali con funzione adesiva. Le unghie sono presenti solo nel 3° e 4° dito.
I maschi sono più grandi e robusti delle femmine ed hanno, alla base della coda, due rigonfiamenti in corrispondenza degli organi copulatori.
I piccoli hanno le bande scure sulla coda più evidenti.

La specie è molto legata agli ambienti mediterranei. La si può trovare in pietraie, cave, muretti a secco, cumuli di legna. é anche molto frequente in ambienti antropizzati quali coltivi ed abitazioni umane.

Il Geco Comune è un animale rapido, veloce, agile ed un ottimo arrampicatore. Compatibilmente con la temperatura, lo si può trovare in piena attività sia di giorno sia di notte. Territoriale, delimita la zona con movimenti rituali e la difende dalle invasioni ingaggiando aspre lotte con i rivali.
Il periodo di attività va da febbraio a novembre. Ad aprile cominciano gli accoppiamenti ed i maschi emettono un suono simile ad un pigolio; verso che, in maniera più debole e rauca, viene emesso anche quando l'animale è spaventato.
Dopo l'accoppiamento le femmine depongono una o due uova che schiudono in circa quattro mesi. Sono possibili fino a tre deposizioni annue a distanza di due mesi circa l'una dall'altra.

Il Geco Comune si nutre di insetti di svariati ordini quali Coleotteri, Ditteri, Imenotteri, Isopodi, Lepidotteri, Scorpioni ecc. che caccia all'agguato e cattura con la lingua vischiosa.

In natura viene predato da serpenti arboricoli e terricoli (in particolare dalla Coronella girondica), da alcune specie di rapaci diurni e notturni e da mammiferi quali Riccio, Genetta ed alcune specie di mustelidi.

È considerato di buon auspicio avere un geco che vive nei pressi della propria abitazione.


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L'ORECCHIONE BRUNO



E’ un pipistrello di taglia media, dall’aspetto molto gradevole e particolare, viste le orecchie enormemente sviluppate, di colore marrone, che si uniscono sul margine interno. Dorsalmente la pelliccia si presenta dal grigio-marrone al marrone; l’addome è invece bianco, con sfumature marroni; il pelo alla base è scuro, di colore marrone. Le orecchie vengono spesso tenute ripiegate all’indietro sul corpo, al di sotto delle ali.

Specie in origine legata ad ambienti forestali, frequenta vari tipi di boschi e foreste, zone aperte, parchi, giardini e corpi d’acqua: è ritenuto meno antropofilo del congenere P. austriacus. E’ segnalato dal livello del mare a circa 2.000 metri di altitudine

E’ un animale dal comportamento poco gregario: le stesse colonie riproduttive sono formate da uno scarso numero di esemplari: in genere 10-20 animali tra cui, a volte, alcuni maschi. Abbandona i rifugi in genere dopo il tramonto, nel tardo crepuscolo o a notte fatta, cacciando senza mai allontanarsene molto fino all'alba e ritornando più volte al proprio rifugio, come dimostrano le numerose tracce delle prede catturate. Ha un volo lento, agile e farfallaggiante, con frequenti cambi di direzione; si svolge di solito tra i 2 e i 7 metri di quota, di rado oltre i 15 m; in volo mantiene le lunghe orecchie tese in avanti. In molti casi la caccia si svolge soprattutto tra le fronde, muovendosi verticalmente lungo la chioma degli alberi per esplorarne il fogliame; pratica anche il volo librato (il così detto “spirito santo”).

Secondo la Lista Rossa dei Vertebrati Italiani, pubblicata dal WWF Italia, la specie è “a più basso rischio”, ossia il suo stato di conservazione non è esente da rischi. Oltre che dalla alterazione e dalla distruzione degli habitat, in questo caso di tipo prevalentemente forestale, e dalla diffusione di sostanze inquinanti, risulta minacciato dall’azione di disturbo diretta nei suoi rifugi abituali (alberi, grotte, cave e/o edifici o altri manufatti).



La pelliccia è lunga, soffice e lanosa. Le parti dorsali variano dal marrone al bruno-grigiastro, mentre le parti ventrali sono più chiare. Il muso è conico, bruno e con una maschera più scura intorno agli occhi e alla bocca. Le orecchie sono enormi, ovali, marroni, unite sulla fronte da una sottile membrana cutanea. Il trago è lungo circa la metà del padiglione auricolare, affusolato e con l'estremità smussata. Le membrane alari sono marroni e semi-trasparenti. Le dita dei piedi sono ricoperte di peli brunastri e munite di robusti artigli marroni. La coda è lunga ed inclusa completamente nell'ampio uropatagio.
Emette ultrasuoni ad alto ciclo di lavoro sotto forma di impulsi di breve durata a frequenza modulata iniziale di 55 kHz e finale di 24 kHz. Questa configurazione è adatta alla predazione nella densa vegetazione in presenza di diversi ostacoli.

In estate si rifugia in piccoli gruppi di 5-10 individui nelle cavità degli alberi, spesso vicino al terreno, in nidi di altri animali, nelle fessure rocciose e negli edifici. In inverno preferisce luoghi sotterranei come grotte, miniere, cantine frequentemente in gruppi di 2-3 adulti, con i maschi spesso solitari. Forma vivai di 10-50, talvolta fino a 100 femmine, tra aprile e maggio. Tollera il freddo ed entra in ibernazione, tra ottobre-novembre fino a marzo-inizi di aprile, a temperature di 2-5 °C ed umidità prossima al 100%, sebbene possa sopportare per alcuni giorni anche temperature fino a -3,5 °C. L'attività predatoria inizia dopo il tramonto a notte fonda e prosegue fino all'alba, tornando più volte ai propri ricoveri. Il volo è lento, manovrato ed effettuato fino a 15 metri dal suolo. È una specie sedentaria, con piccoli spostamenti fino a 88 kM, principalmente tra siti invernali ed estivi.

Si nutre di insetti, principalmente lepidotteri e in misura minore grossi ditteri catturati in volo nella densa vegetazione e talvolta negli spazi aperti. quando si tratta di piccole prede, queste vengono divorate in volo, mentre quelle più grandi vengono trattenute temporaneamente nell'uropatagio e mangiate sopra un posatoio.

Danno alla luce un piccolo una volta all'anno, a metà giugno. Si accoppiano a fine estate e in autunno, anche se sono stati osservati in primavera e probabilmente anche durante l'inverno. I nascituri iniziano a volare a circa un mese di vita e vengono svezzati il mese dopo. Le femmine diventano mature a due anni di età. L'aspettativa di vita è fino a un massimo di 30 anni, sebbene mediamente sia di 4 anni.

Questa specie è diffusa in Europa, dal Portogallo, fino agli Urali e al Caucaso. In Italia è presente fino alla Campania e alla Puglia settentrionali e in Sardegna.

Vive nei boschi decidui e conifere, nei parchi e giardini cittadini fino a 2.350 metri di altitudine. Tollera gli ambienti antropici in misura minore rispetto all'orecchione meridionale.



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LA BELLA VANESSA ATALANTA



La Vanessa atalanta Linneo 1758,  è una farfalla che vive nelle aree geografiche piu’ miti dell’Europa, dell’Asia e  del Nord America. Questa bella farfalla si riconosce dalle ampie ali color nero, le anteriori macchiate di bianco e solcate di larghe strisce rosse, le posteriori ampiamente bordate di rosso. Il bruco si nutre di foglie di Ortica e più raramente di Cardo, mentre gli esemplari adulti per nutrirsi frequentano sovente i fiori di piante come la Buddleia (Buddleja Davidii),   la frutta marcescente, o addirittura gli escrementi degli animali, dove i maschi trovano sostanze indispensabili per la loro riproduzione. Questa specie  di farfalla vive abitualmente in zone temperate ed in primavera effettua delle migrazioni verso nord. Nel nord Europa, è una delle specie di farfalle visibili più tardivamente prima dell'arrivo dell' inverno.  Ebbene, mentre la quasi totalità delle farfalle ha una vita molto breve, al massimo una decina di giorni,  solo alcune poche specie: principalmente le Vanesse, hanno una vita lunga, che può durare fino a undici mesi e trascorrono l’inverno riparate e riscaldate all’interno delle fessure delle rocce o nelle cavità di vecchie mura in pietra.

Questa grande farfalla si riconosce dal vivace disegno color marrone scuro, bianco e rosso delle sue ali, che raggiungono l'apertura media di 45-50 mm.

Il bruco si nutre di foglie di ortica, mentre gli esemplari adulti prediligono le infiorescenze di piante come la Buddleja e la frutta in avanzata fase di maturazione.

Questa specie vive abitualmente in zone temperate, ma effettua delle migrazioni verso nord in primavera e occasionalmente in autunno.

È una delle ultime specie di farfalle avvistabili in nord Europa prima dell'arrivo dell'inverno, spesso mentre si posa sui fiori dell'edera nelle giornate di sole.

La Vanessa atalanta è anche nota per essere capace di cadere in stato di ibernazione; la colorazione degli esemplari che riemergono da questo stato è notevolmente più scura rispetto a quella dei nati in primavera. La farfalla, specialmente nelle zone dell'Europa meridionale, è comunque in grado di alzarsi in volo anche d'inverno se il tempo è bello.

La Vanessa Atalanta è una farfalla confidente nei confronti dell’uomo, tanto che talora si posa sulle spalle o sulle mani di chi la avvicini. Durante il periodo riproduttivo, però, il maschio può manifestare una cerca aggressività, contrastando con voli mirati la presenza d’intrusi. Ogni maschio, infatti, in attesa di femmine con cui accoppiarsi, pattuglia attivamente un suo “territorio” che in media è largo 4-13 metri e lungo 8-24. Pare che in un’ora lo percorra anche 30 volte. Quando è in riposo, Vanessa Atalanta solleva e accosta le ali, mostrandone la superficie inferiore, tutta giocata sui toni grigi e marroncini, secondo un disegno complesso ma poco vistoso: si mimetizza con rispetto all’ambiente circostante, e questo è un indubbio vantaggio nei confronti dei predatori.Un altro interessante aspetto della vita di vanessa Atalanta è la migrazione. Una parte della popolazione ch vive nel Sud dell’Europa durante la bella stagione si sposta verso il nord, raggiungendo le regioni settentrionali, dove si riproduce ma non sverna. Le vanesse che, per esempio si osservano in maggio nelle Isole Britanniche, non sono indigene ma “emigranti” in cerca di nuovi territori.Come si può interpretare questo comportamento migratorio? Probabilmente è il risultato di quella spinta evolutiva a espandere il proprio reale che caratterizza ogni specie animale e che si fa più forte quanto nei luoghi di origine la stagione riproduttiva è stata particolarmente felice e la popolazione si è arricchita di molti nuovi individui, troppi rispetto alle risorse alimentari disponibili.



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lunedì 24 agosto 2015

IL DIABETE



È possibile prevedere la comparsa del diabete entro i prossimi 5 anni di vita anche nei soggetti finora ritenuti non a rischio. Uno studio italiano ha infatti dimostrato l’efficacia del test da carico di glucosio, un test semplice e già comunemente utilizzato. Lo studio è stato condotto da Giorgio Sesti, presidente eletto della Società Italiana di Diabetologia, insieme ai ricercatori dell’Università Magna Graecia di Catanzaro e dell’Università di Roma Tor Vergata. I risultati sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism.

Grazie a questo test, si può identificare una nuova categoria di soggetti con pre-diabete, i cosiddetti «NGT-con alta glicemia ad un’ora», che presenta un rischio aumentato del 400 per cento di sviluppare un diabete conclamato entro i successivi 5 anni.

Una categoria di soggetti finora «invisibili» alle strategie di prevenzione che invece meritano attenzione come «sorvegliati stretti». Il test da carico di glucosio misura la glicemia di base e viene eseguito due ore dopo l’ingestione di 75 grammi di glucosio.

«Questa ricerca - ha detto Sesti - ha dimostrato che le persone con normale tolleranza glucidica, ma con valori di glicemia maggiori di 155 mg/dl, un’ora dopo l’assunzione di una bevanda contenente 75 gr di glucosio hanno un rischio maggiore di sviluppare il diabete mellito tipo 2, rispetto a quelli con alterata glicemia a digiuno, una condizione considerata a rischio secondo le linee guida internazionali e caratterizzata da un valore di glicemia a digiuno compreso tra 100 e 125 mg/ml».

Il diabete è una malattia cronica caratterizzata dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia) e dovuta a un’alterata quantità o funzione dell’insulina. L’insulina è l’ormone, prodotto dal pancreas, che consente al glucosio l’ingresso nelle cellule e il suo conseguente utilizzo come fonte energetica. Quando questo meccanismo è alterato, il glucosio si accumula nel circolo sanguigno.



Il diabete tipo 1 riguarda circa il 10% delle persone con diabete e in genere insorge nell’infanzia o nell’adolescenza. Nel diabete tipo 1, il pancreas non produce insulina a causa della distruzione delle cellule ß che producono questo ormone: è quindi necessario che essa venga iniettata ogni giorno e per tutta la vita. La velocità di distruzione delle ß-cellule è, comunque, piuttosto variabile, per cui l’insorgenza della malattia può avvenire rapidamente in alcune persone, solitamente nei bambini e negli adolescenti, e più lentamente negli adulti (in questi rari casi si parla di una forma particolare, detta LADA: Late Autommune Diabetes in Adults).

La causa del diabete tipo 1 è sconosciuta, ma caratteristica è la presenza nel sangue di anticorpi diretti contro antigeni presenti a livello delle cellule che producono insulina, detti ICA, GAD, IA-2, IA-2ß. Questo danno, che il sistema immunitario induce nei confronti delle cellule che producono insulina, potrebbe essere legato a fattori ambientali (tra i quali, sono stati chiamati in causa fattori dietetici) oppure a fattori genetici, individuati in una generica predisposizione a reagire contro fenomeni esterni, tra cui virus e batteri. Quest’ultima ipotesi si basa su studi condotti nei gemelli monozigoti (identici) che hanno permesso di dimostrare che il rischio che entrambi sviluppino diabete tipo 1 è del 30-40%, mentre scende al 5-10% nei fratelli non gemelli e del 2-5% nei figli. Si potrebbe, quindi, trasmettere una “predisposizione alla malattia” attraverso la trasmissione di geni che interessano la risposta immunitaria e che, in corso di una banale risposta del sistema immunitario a comuni agenti infettivi, causano una reazione anche verso le ß cellule del pancreas, con la produzione di anticorpi diretti contro di esse (auto-anticorpi). Questa alterata risposta immunitaria causa una progressiva distruzione delle cellule ß, per cui l'insulina non può più essere prodotta e si scatena così la malattia diabetica.

Per questo motivo, il diabete di tipo 1 viene classificato tra le malattie cosiddette “autoimmuni”, cioè dovute a una reazione immunitaria diretta contro l’organismo stesso. Tra i possibili agenti scatenanti la risposta immunitaria, sono stati proposti i virus della parotite (i cosiddetti "orecchioni"), il citomegalovirus, i virus Coxackie B, i virus dell'encefalomiocardite. Sono poi in studio, come detto, anche altri possibili agenti non infettivi, tra cui sostanze presenti nel latte.

IL diabete tipo 2 è la forma più comune di diabete e rappresenta circa il 90% dei casi di questa malattia. La causa è ancora ignota, anche se è certo che il pancreas è in grado di produrre insulina, ma le cellule dell’organismo non riescono poi a utilizzarla. In genere, la malattia si manifesta dopo i 30-40 anni e numerosi fattori di rischio sono stati riconosciuti associarsi alla sua insorgenza. Tra questi: la familiarità per diabete, lo scarso esercizio fisico, il sovrappeso e l’appartenenza ad alcune etnie. Riguardo la familiarità, circa il 40% dei diabetici di tipo 2 ha parenti di primo grado (genitori, fratelli) affetti dalla stessa malattia, mentre nei gemelli monozigoti la concordanza della malattia si avvicina al 100%, suggerendo una forte componente ereditaria per questo tipo di diabete.

Anche per il diabete tipo 2 esistono forme rare, dette MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young), in cui il diabete di tipo 2 ha un esordio giovanile e sono stati identificati rari difetti genetici a livello dei meccanismi intracellulari di azione dell’insulina.

Il diabete tipo 2 in genere non viene diagnosticato per molti anni in quanto l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e inizialmente non è di grado severo al punto da dare i classici sintomi del diabete. Solitamente la diagnosi avviene casualmente o in concomitanza con una situazione di stress fisico, quale infezioni o interventi chirurgici.

Il rischio di sviluppare la malattia aumenta con l’età, con la presenza di obesità e con la mancanza di attività fisica: questa osservazione consente di prevedere strategie di prevenzione “primaria”, cioè interventi in grado di prevenire l’insorgenza della malattia e che hanno il loro cardine nell’applicazione di uno stile di vita adeguato, che comprenda gli aspetti nutrizionali e l’esercizio fisico.



La sintomatologia di insorgenza della malattia dipende dal tipo di diabete. Nel caso del diabete tipo 1 di solito si assiste a un esordio acuto, spesso in relazione a un episodio febbrile, con sete (polidipsia), aumentata quantità di urine (poliuria), sensazione si stanchezza (astenia), perdita di peso, pelle secca, aumentata frequenza di infezioni.

Nel diabete tipo 2, invece, la sintomatologia è più sfumata e solitamente non consente una diagnosi rapida, per cui spesso la glicemia è elevata ma senza i segni clinici del diabete tipo 1.

Il diabete può determinare complicanze acute o croniche. Le complicanze acute sono più frequenti nel diabete tipo 1 e sono in relazione alla carenza pressoché totale di insulina. In questi casi il paziente può andare incontro a coma chetoacidosico, dovuto ad accumulo di prodotti del metabolismo alterato, i chetoni, che causano perdita di coscienza, disidratazione e gravi alterazioni ematiche.

Nel diabete tipo 2 le complicanze acute sono piuttosto rare, mentre sono molto frequenti le complicanze croniche che riguardano diversi organi e tessuti, tra cui gli occhi, i reni, il cuore, i vasi sanguigni e i nervi periferici.
Retinopatia diabetica: è un danno a carico dei piccoli vasi sanguigni che irrorano la retina, con perdita delle facoltà visive. Inoltre, le persone diabetiche hanno maggiori probabilità di sviluppare malattie oculari come glaucoma e cataratta
nefropatia diabetica: si tratta di una riduzione progressiva della funzione di filtro del rene che, se non trattata, può condurre all’insufficienza renale fino alla necessità di dialisi e/o trapianto del rene
malattie cardiovascolari: il rischio di malattie cardiovascolari è da 2 a 4 volte più alto nelle persone con diabete che nel resto della popolazione causando, nei Paesi industrializzati, oltre il 50% delle morti per diabete. Questo induce a considerare il rischio cardiovascolare nel paziente diabetico pari a quello assegnato a un paziente che ha avuto un evento cardiovascolare
neuropatia diabetica: è una delle complicazioni più frequenti e secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità si manifesta a livelli diversi nel 50% dei diabetici. Può causare perdita di sensibilità, dolore di diversa intensità e danni agli arti, con necessità di amputazione nei casi più gravi. Può comportare disfunzioni del cuore, degli occhi, dello stomaco ed è una delle principali cause di impotenza maschile
piede diabetico: le modificazioni della struttura dei vasi sanguigni e dei nervi possono causare ulcerazioni e problemi a livello degli arti inferiori, soprattutto del piede, a causa dei carichi che sopporta. Questo può rendere necessaria l'amputazione degli arti e statisticamente costituisce la prima causa di amputazione degli arti inferiori di origine non traumatica
complicanze in gravidanza: nelle donne in gravidanza, il diabete può determinare conseguenze avverse sul feto, da malformazioni congenite a un elevato peso alla nascita, fino a un alto rischio di mortalità perinatale.

La terapia della malattia diabetica ha come cardine l’attuazione di uno stile di vita adeguato. Per stile di vita si intendono le abitudini alimentari, l’attività fisica e l’astensione dal fumo.
La dieta del soggetto con diabete (definita negli USA: Medical Nutrition Theraphy, cioè terapia medica nutrizionale) ha l’obiettivo di ridurre il rischio di complicanze del diabete e di malattie cardiovascolari attraverso il mantenimento di valori di glucosio e lipidi plasmatici e dei livelli della pressione arteriosa il più possibile vicini alla normalità.

In linea di massima, si raccomanda che la dieta includa carboidrati, provenienti da frutta, vegetali, grano, legumi e latte scremato, non inferiori ai 130 g/giorno ma controllando che siano assunti in maniera equilibrata, attraverso la loro misurazione e l’uso alternativo. Evitare l’uso di saccarosio, sostituibile con dolcificanti. Come per la popolazione generale, si raccomanda di consumare cibi contenenti fibre. Riguardo i grassi, è importante limitare il loro apporto a <7% delle calorie totali giornaliere, con particolare limitazione ai grassi saturi e al colesterolo.

Un’attività fisica di tipo aerobico e di grado moderato per almeno 150 minuti a settimana oppure di tipo più intenso per 90 minuti a settimana è raccomandata per migliorare il controllo glicemico e mantenere il peso corporeo. Dovrebbe essere distribuita in almeno tre volte a settimana e con non più di due giorni consecutivi senza attività. Come per la popolazione generale si consiglia di non fumare, e a tale scopo dovrebbe essere prevista una forma di sostegno alla cessazione del fumo come facente parte del trattamento del diabete.

I diabetici tipo 1 hanno necessità di regolare in maniera più stretta la terapia insulinica all’apporto dietetico e all’attività fisica, mentre per i diabetici tipo 2, che in genere sono anche sovrappeso o francamente obesi, assume maggior importanza un adeguato stile di vita che comprenda riduzione dell’apporto calorico, soprattutto dai grassi, e aumento dell’attività fisica per migliorare glicemia, dislipidemia e livelli della pressione arteriosa.



Le neuropatie legate al diabete appartengono ai disturbi del sistema nervoso e portano a insensibilità, qualche volta dolore e debolezza nelle mani, nelle braccia, nelle gambe e nei piedi. Le neuropatie possono anche avere effetti sul sistema digerente, sul cuore e sugli organi sessuali.
Circa il 50 % delle persone con diabete mostrano danni al sistema nervoso, ma non tutti presentano sintomi fisici a questo riguardo. Le neuropatie sono più comuni nelle persone che hanno il diabete da almeno 25 anni, che sono sovrappeso, che tengono sotto controllo il livello di glucosio e che hanno la pressione alta. Il tipo più diffuso riguarda le neuropatie periferiche, che danneggiano le gambe e le braccia. Questo tipo di danno è riscontrabile in un’assenza di sensibilità nei piedi. Questo aumenta la probabilità di infortuni ai piedi, che, se non curati, possono portare all’amputazione.

Un alto livello di glucosio indurisce le arterie (arteriosclerosi), e questo può portare a un attacco di cuore, all’ictus o a problemi di circolazione nei piedi.
I disturbi legati al cuore sono le prime cause di morte legate al diabete. Gli adulti con diabete hanno tassi di morte legati al cuore da 2 a 4 volte superiori rispetto a coloro che non l’hanno. Anche il rischio di ictus è superiore di 2 a 4 volte.

Un alto livello di glucosio nel sangue ispessisce le pareti capillari, rende il sangue più denso e può causare delle crepe nei vasi sanguigni più piccoli. Questi effetti, insieme, possono ridurre la circolazione del sangue verso la pelle, le braccia, le gambe e i piedi. Possono anche avere effetti sugli occhi, sui denti e sui reni. Un flusso capillare di sangue ridotto può inoltre provocare macchie marroni sulle gambe.
Con un buon controllo del glucosio nel sangue, molti di questi disturbi possono essere ridotti. La priorità dovrebbe essere quella di raggiungere livelli di emoglobina glicata (HbA1c) uguali o inferiori al 7 %.  La ricerca ha mostrato che per ogni punto percentuale in meno di HbA1c che si riesce a raggiungere, il rischio di attacco di cuore diminuisce del 14%, il rischio di disturbi microvascolari del 37% e il rischio di disturbi vascolari periferici del 43%. Ogni punto percentuale in meno nel livello di HbA1c riduce ulteriormente il rischio di complicazioni.
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ANEMONIA SULCATA

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Questo anemone di mare ha un corpo cilindrico, di colore variabile dal giallo-bruno al verde, da cui si diparte una corona di tentacoli lunghi, poco retrattili, con estremità di colore violetto. Raggiunge grandezze fino a circa 20 cm di diametro.

Questa specie esprime una proteina fluorescente, denominata Kindling Fluorescent Protein (KFP), utilizzata come marker nel campo della biologia molecolare.

Diffusa nel Mar Mediterraneo e lungo le coste orientali dell'oceano Atlantico.

Bellissimo anemone mediterraneo, ipnotizza l'osservatore con l'incessante ondeggiare dei suoi molteplici tentacoli urticanti, con i quali cattura le prede (crostacei e piccoli pesci).



Occorre prestare attenzione nel maneggiarla: il contatto con la pelle é doloroso ma non sul palmo delle mani.

Vive in simbiosi con le zooxantelle che gli conferiscono parte del nutrimento di cui ha bisogno, ma si nutre anche di zooplancton piccoli pesci e crostacei che riesce a catturare con i tentacoli.

In natura si riproduce per via sessuata e per scissione; in acquario si riproduce frequentemente e spontaneamente per scissione.

Le attinie di questa specie sono molto ricercate in Sardegna ove vengono preparate impanate e fritte col nome di orziadas. È considerato un piatto prelibato e sono quindi molto ricercate, raggiungendo quotazioni mediamente elevate, anche per il costante depauperamento della specie a causa di un prelievo sconsiderato.



Anche in Sicilia, dove sono noti come ogghiu a mari, vengono fritte in pastella e sono una specialità del catanese, nonché dell'isola di Ustica e delle isole Egadi.

In Spagna, nella regione di Cadice, in Andalusia sono molto apprezzate e vengono preparate fritte sotto il nome di ortiguillas.



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