La cucina bustocca è fatta da tradizioni e rituali, più che da semplici ingredienti, che fanno da cassa di risonanza all’eco profonda della terra contadina.
In un mondo sempre più legato agli sprechi, all’apparenza, alla cura dell’alimentazione e all’incalzare di diete di ogni genere che si pongono come oracoli non comprendiamo il significato profondo e il richiamo tellurico di queste ricette, il bisogno di difenderle e di recuperarle. Non capiremmo ad esempio il culto della carne, che emerge con forza anche allo sguardo più distratto, senza una lettura esegetica dei piatti tipici… piatti che non sono tanto radicati perché si mangiavano davvero tutti i giorni, spinti da chiari bisogni nutrizionali in una campagna devastata dalla pellagra. Una campagna in cui l’unico alimento disponibile era la polenta, in genere “condita solo con l’aria dell’uscio che si apriva e si chiudeva” , o alla meglio tamponata sulla salacca per farle prendere un po’ di sapore. Sempre meglio di farina fatta con ghiande macinate, bucce di melone e serpenti… che non mancavano nei tempi più duri.
Da qui il culto della carne, che si mangiava in inverno perché il maiale si comprava d’estate quando la terra era un po’ più generosa e si poteva far ingrassare… e che inesorabilmente si uccideva d’inverno… e allora sì che era una grande festa per tutta la famiglia! Da qui il culto del riso, che accompagnava le rarissime occasioni di festa, come a voler dimenticare per un giorno le quotidiane privazioni: così come la polenta era il cibo della gente di campagna, il riso era il cibo dei più raffinati cittadini… e dato che il riso voleva dire ricchezza, fuori dalle chiese si iniziarono a lanciare chicchi di riso agli sposi al posto dei chicchi di frumento! Da qui il culto delle uova, che venivano usate come moneta di scambio e che nei periodi in cui erano meno abbondanti venivano riservate ai bambini e ai malati… ma non ai bambini e ai malati della famiglia, piuttosto a quelli dell’intera comunità. Chiunque, in qualsiasi momento, poteva recarsi dal vicino a chiedere un uovo, perché anche se tutti erano poveri i cuori erano ricchi e ci si aiutava gli uni con gli altri.
Questa era la vera grandezza che ha fatto crescere il popolo bustocco e questo è il senso delle ricette tradizionali, che insegnano a non sprecare e che non mancano mai di seguire il ritmo della natura e delle stagioni, anche in un territorio poco generoso, arido, ghiaioso, acido e poco adatto a coltivazioni come quello di Busto Arsizio.
La polenta con i bruscitti sono nati dall’ esigenza della donna che lavorava nei campi o in fabbrica, di cucinare qualcosa che cuocesse molto lentamente sulla brace del camino, senza tante attenzioni. Tutti gli ingredienti a freddo nella pentola di coccio e poi, a fine cottura, al ritorno a casa, un bicchiere di vino ed una fiammata. Da piatto povero quale è nato è diventato un piatto della tradizione, ed è il capofamiglia che deve scegliere e tagliare la carne a filo di coltello perché non perda il sugo, e che deve scegliere il vino adatto alla circostanza.
Bruno Grampa aveva scritto: "I bruscitti hanno conservato con la carne il sapore del peccato, col finocchio raccolto nei campi il profumo della giovinezza e col vino il gusto prepotente dell’età matura". La ricetta, certificata con atto notarile è stata depositata presso al Camera di Commercio di Varese.
Volendo a tutti i costi giustificare l’origine del piatto, taluni lo fanno risalire all’utilizzo dei brandelli di carne che rimanevano attaccatti alle pelli da concia (in Busto Arsizio, nel medioevo, erano attive delle concerie). Si ritiene più plausibile un uso attento di tutte le parti delle bestie macellate, una spolpatura totale delle ossa, un recupero di quelle parti che venivano scartate dalle mense dei più abbienti. Allora la carne non si mangiava tutti i giorni e in ogni caso non si cucinavano certo tagli di prima scelta. I tagli pregiati, quelli che stanno "dietro la testa e prima della coda", erano destinati alla cucina dei ricchi. Ai più, restavano la testa, la coda, i piedini e le interiora non nobili, cioè la trippa, l’intestino e i polmoni. Talvolta si riusciva ad acquistare a buon prezzo quella parte di polpa ricca di connettivo e cartilagine, come il fusello o il geretto, che disossata e lardellata, dava origine a stracotti e stufati. Nel lesso, assieme a pezzi di carne finivano le ossa, da cui si staccavano attentamente le cartilagini per poi mangiarle con la polenta o con i fagioli. Nulla veniva buttato: ciò che non si poteva mangiare, veniva usato per produrre sugo (la pucia) in cui intingere pane o polenta.
Uno dei piatti più antichi della cucina bustocca. Il nome è di chiara derivazione dalla "puls" romana, polentina che gli antichi facevano con il farro o con altri cerali e che era il cibo base del popolo.
L’ultimo giovedì di gennaio nei cortili e nelle piazze di Busto e del circondario si compie un rito: il rogo della "Giöbia", la vecchia malefica che simboleggia la conclusione dell’inverno e l’inizio della primavera, la morte e la vita quindi, la realtà di ieri e l’ignoto del domani. E alla saga del fuoco segue il rituale banchetto con risotto e luganiga. Nel risotto giallo è d’obbligo fare una fossetta da riempire di vino.
Una romantica tradizione è la festa "dei morosi e delle coppette" che si festeggia a Busto il giorno della Immacolata, l’8 dicembre. In questo giorno il fidanzato si presenta a casa della promessa sposa per formalizzare la loro unione e fissare la data delle nozze. Ancora oggi, per questa ricorrenza, compaiono nelle pasticcerie le "coppette", dolci fatti con mandorle tostate, caramellate e poste tra due cialde, ed il fidanzato si presenta a casa dei futuri suoceri con il suo dolce pacchettino. Ad attenderlo vi è un piatto tradizionale, lo "stufato in concia" o "stufato dei promessi sposi" cucina dalla futura sposa, secondo una vecchia ricetta, con le patate.
Questo territorio era un tempo ricco di vigneti dai quali si ricavava abbondante vino, citato tra l’altro dal Foscolo e dal Porta, vigneti scomparsi a metà dell’800 per l’arrivo della filossera e delle industrie che allontanarono i contadini dalle fatiche della terra.
Proprio il vino è uno dei condimenti più usati nella preparazione di piatti tramandati da padre in figlio e tuttora presenti sulle nostre tavole, rustici ma al contempo ricchi di sapori e profumi.
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