giovedì 7 maggio 2015

LA STELLA ALPINA

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Leontopodium o stella alpina o edelweiss, è una pianta appartenente alla famiglia delle Asteraceae che cresce spontaneamente in Cina, sulle Ande e sulle Alpi europeee. Il suo nome deriva dal greco lèon (leone) e poùs (piede); in passato si supponeva appunto che il suo fiore assomigliasse agli arti del leone. Il genere comprende pochissime specie di piante erbacee, rustiche e selvatiche che crescono spontaneamente nelle fenditure delle rocce: Sono di piccole dimensioni e la pianta raggiunge a malapena i 20 cm di altezza. Le foglie sono ricoperte di peluria argentea e riunite alla base in modo da assumere la forma di una rosetta. I fiori hanno brattee carnose e vellutate di colore biancastro riunite tra di loro tanto da formare una stella.
Nonostante l'aspetto faccia pensare il contrario, in realtà la Stella Alpina è una pianta proveniente da zone calde ed aride: la densa pelosità non serve a proteggerla dal freddo (le piante hanno temperatura uguale a quella dell'ambiente in cui vivono), ma dall'eccessiva traspirazione, lo stesso adattamento si trova in altre piante di zone aridissime.
Il genere Leontopodium è costituito in totale da una trentina di specie diffuse dagli altopiani desertici dell'Asia centrale, dai quali si è irradiato fino al Giappone, all'Himalaya (dove raggiunge l'altezza di 6000 m) e alle pianure steppiche transiberiane. In Europa è giunto in epoca relativamente recente, probabilmente durante le grandi glaciazioni (che hanno favorito la migrazione anche di diverse altre piante), insediandosi sulle pendici erbose dei versanti meridionali che ancora oggi rappresentano l'ambiente ottimale della specie.
Non è vero, come molti pensano, che la Stella Alpina sia una pianta rupestre, le stelle alpine su roccia sono più rare, (anche se spesso di particolare bellezza perché in questo ambiente possono svilupparsi senza concorrenza).

Il maggior pregio della stella alpina e' quello di conservare le sue caratteristiche una volta essicata e di poter essere usata anche come ornamento su cartoline e su composizioni floreali.

La Stella alpina è senza dubbio la più nota pianta alpina. Considerata il simbolo delle Alpi è spesso ricercata dai turisti anche a rischio della loro incolumità e della scomparsa della specie.

Ancora oggi - malgrado anni di battaglie e polemiche, volte a sensibilizzare turisti e gitanti sull'importanza del rispetto dell'ambiente naturale, soprattutto in luoghi "a rischio", come quello alpino - non è infrequente incontrare pseudoalpinisti che, sulla via del ritorno, mostrano trionfanti interi mazzi di fiori "proibiti", come i genepì o le stelle alpine. Quest'ultima, poi, sembra essere la specie più ambita, forse in virtù di una fama che la vuole "difficile da conquistare" e che "conferisce un'aureola di virile coraggio a chi la raccoglie".

La Stella Alpina, in primo luogo, ha avuto dalla sua conoscenza le motivazioni che di aver portato alla costruzione di questo mito vegetale, prime fra tutte la densa tomentosità che la contraddistingue e la sua adozione quale emblema da sfoggiare negli stemmi di alcuni Club Alpini europei.
E inoltre interessante osservare che il timore della sua scomparsa, in seguito ai danni da collezionismo sconsiderato, era già vivo nel secolo scorso, tanto che nel 1878, in Svizzera, si registrò il primo decreto di proibizione di raccolta.
La conoscenza delle stelle alpine risale ad epoche abbastanza remote, la loro introduzione nei giardini europei è un fenomeno relativamente recente, se si pensa che L. alpinum venne impiegato per la prima volta in senso ornamentale nella seconda metà del Settecento e che solo verso gli inizi della prima Guerra Mondiale si iniziò a coltivare una seconda specie proveniente dalla Cina centrale, L. haplophylloides, che oltretutto profuma di limone.

Per coltivare la leontopodium è necessario disporre di un terreno poroso e ben drenato composto da ghiaia, sabbia e terra di abete. Le piantine, se coltivate in giardino, dovranno essere esposte in posizione soleggiata ma allo stesso tempo al riparo dalle piogge: l’ideale sarebbe porle a ridosso di pareti rocciose

L'impiego delle stelle alpine nei giardini va fatto in modo oculato, se si vogliono ottenere risultati apprezzabili, soprattutto per ciò che riguarda la conservazione delle loro peculiarità, quali la pelosità e il diametro dei fiori. Importante sarebbe coltivare queste piante in ambiente alpino, quindi ad un'altitudine non inferiore ai 1.000 metri. In ogni modo la loro collocazione va limitata al giardino roccioso o, meglio ancora, al muro fiorito, magari insieme ad altre piante di montagna come Androsace, Papaver alpinum, Saxifraga. Essenziale è poi la preparazione del terreno, che deve essere alcalino o neutro. La moltiplicazione avviene per seme mettendo a germinare i semi in primavera in un terreno composto di terra fibrosa, terriccio di foglie e ciotoli di granito in posizione fresca e ombrosa. Le piantine verrano trapiantate quando avranno raggiunto le dimensioni ideali per consentire la messa a dimora. Altro metodo di moltiplicazione è per divisione dei cespi delle piante adulte.

Le proprietà della stella alpina sono state scoperte di recente e producono un rallentamento dell’invecchiamento della pelle. Per questo si ha cominciato ad aggiungerla come antiossidante ad alcune creme anti-età e ai latti solari.
È però vero che, nonostante negli ultimi anni non sia più considerata in via di estinzione, sarebbe meglio non coglierla, soprattutto per produrre nuovi cosmetici “antirughe” che non solo possono essere ricavati da altre sostanze, ma che porterebbero nuovamente ad una raccolta frenetica della pianta stessa… per uno scopo piuttosto futile.
Nella medicina popolare, invece, la piantina veniva talvolta colta per essere impiegata in decotti, che avrebbero curato i disordini della pancia, la tosse e in genere le affezioni delle vie respiratorie.

Le si intravede da lontano, là sui ripidi pendii delle montagne e accanto ai crepacci, come piccole e candide stelle dai petali di velluto aggrappate alle rocce nude e argentee. Sono i fiori intoccabili, le morbide stelle alpine, che seppur alte e irraggiungibili, come le loro sorelle celesti ispirano nelle anime nobili sogni e antichi desideri… e se solo le si vuol toccare, se solo si desidera di coglierne un unico fiore, occorre intraprendere un lungo e difficile viaggio verso le vette più eccelse… un viaggio che pochi hanno il coraggio di compiere.
Esistono moltissime leggende nate per raccontare la nascita di questo fiore, che appartiene più al mondo divino che a quello dei mortali.
Una di queste narra che un tempo, nelle valli ladine, sorgeva un piccolo e grazioso villaggio, ai piedi di un’alta montagna. Qui, in una casina vicina a un mulino, accanto al quale scorreva un impetuoso e gelido torrente, viveva una fanciulla talmente bella che pareva un raggio di sole, ma che gli abitanti del paese ritenevano malvagia quanto un’erba velenosa. Il suo nome era Berta, ed era la figlia del borgomastro.
Il padrone del mulino era un bel giovane di nome Hans, il quale, perso d’amore per la bellissima ragazza, rimaneva incantato ogni volta che i suoi occhi la incontravano… ma Berta non lo degnava nemmeno di uno sguardo, o almeno questo è ciò che voleva dare a vedere.
Il gatto di Hans, che aveva il dono della parola e si chiamava Peter, ogni volta che vedeva sospirare il suo padrone gli ripeteva “Non è per te, non è per te”, ma Hans non voleva ascoltare i suoi consigli e non pensava ad altro che alla fanciulla.
Un giorno Peter, mentre passeggiava sotto alla finestra di Berta, la vide mentre guardava di nascosto il bel mugnaio, e non appena lei si accorse della presenza del gatto lo accarezzò dolcemente, e senza sospettare che l’animale potesse parlare gli disse: “Ah, sei il gatto di Hans! Salutalo a mio nome”.
Così il gatto riferì al suo padrone ciò che la fanciulla aveva detto, e Hans, fuori di sé dalla gioia, prese quelle parole come un invito a corteggiarla.
Così si recò da Berta, ma la fanciulla lo mandò via, dicendogli “Che vuoi da me, misero mugnaio? Io ho rifiutato i migliori partiti del paese e non posso certo andare ad abitare in un vecchio mulino”. Il giovane, ed anche il suo gatto, rimasero ammutoliti, ma la bella Berta aggiunse: “Vediamo se hai coraggio. Se proprio mi ami devi portarmi l’acqua della Fonte dei Nani, l’Acqua della Vita. Quella che sgorga lassù in cima alle rocce.”
Il giovane si spaventò, perché nel villaggio si diceva che chiunque tentasse di raggiungere la sorgente e di raccogliere una sola goccia dell’acqua incantata, sarebbe stato ucciso dal Re dei Nani. Questo antico Re era il padrone e lo spirito dell’intera montagna, e bastava un suo cenno perché crollassero mortali slavine; ma aveva anche il potere magico di tramutare dei semplici sassi in smeraldi o zaffiri, e di far comparire o scomparire laddove volesse le sue limpide sorgenti.
L’amore che Hans provava per Berta però era ben più grande e forte della paura, così il mugnaio accettò la sfida della fanciulla.
S’incamminò per l’alta vetta, mentre i massi gli rotolavano accanto e le slavine si staccavano poco distante da lui. Un grande corvo lo osservò più volte, mentre volteggiava sopra la sua testa, poi scese e si posò davanti a lui, avvertendolo del pericolo che stava correndo: “Torna indietro finché sei in tempo, oppure morirai!”. Ma Hans non si volle far distrarre dal suo intento, e proseguì con ardore, arrampicandosi e procedendo a fatica… finché finalmente raggiunse il posto in cui si narrava scaturisse l’Acqua della Vita.
Sebbene si aspettasse di trovare una sorgente, il ragazzo vide invece un grazioso laghetto pieno di acqua bianca come la neve, ma quando provò a immergervi la sua brocca non vi riuscì, poiché la superficie era di cristallo.
Allora prese un sasso e lo scagliò nel laghetto, urlando: “Non è per la vita, ma per la morte che prendo quest’acqua, perché l’amore che provo sarà la mia morte!”
Non appena finì di pronunciare queste parole il laghetto scomparve, e dove prima riluceva placida l’acqua bianca apparvero mille e più stelle alpine, candide e vellutate.
Hans ne raccolse qualcuna, ma proprio mentre era chino sul prato fiorito ecco che apparvero i Nani, che furiosi gli gridarono: “Hai rubato il nostro tesoro e ora dovrai morire! ”. Lo sollevarono al di sopra delle rupi rocciose e lo gettarono nel crepaccio.
Alle prime luci del mattino, però, Hans si risvegliò. Era ai piedi della montagna e accanto a lui c’era il suo gatto Peter, il quale osservava stupito le mani del giovane. Egli infatti vi teneva strette le stelle alpine, fiori della vita e della morte. La loro magia gli aveva salvato la vita.
Hans, dopo la “brutta” avventura, non volle più vedere la bella Berta, ma si accontentò di sposare un’altra ragazza semplice e senza troppe pretese.
La bianca stella alpina, in questa leggenda essa è la forma che assume l’Acqua della Vita, e rappresenta dunque ciò che, seppur difficilissimo da raggiungere e da afferrare, provoca un cambiamento profondo, ovvero una morte iniziatica seguita da una splendente rinascita al mondo, illuminati dalla saggezza conquistata.
Non solo, essa è il fiore che richiama e premia l’amore, il coraggio, la nobiltà e il valore che coloro che riescono nell’impresa dimostrano di possedere.

Secondo un’altra leggenda, proveniente questa volta dalle Alpi svizzere, tanto tempo fa viveva in un paesello alpino una bionda fanciulla di nome Edelweiss, bella come mai se n’erano viste, e talmente pura e nobile che, sebbene fosse tanto amata e desiderata da molti cavalieri, non riuscì mai ad offrire il suo amore ad alcuno di essi, perché non trovò mai un giovane che fosse degno di stare al suo fianco.
Così visse in solitudine per tutta la vita, e quando morì le graziose Fate la condussero fino alla cima innevata delle montagne più alte, fra i ghiacci trasparenti e le rocce levigate dai venti, e qui la trasformarono nella purissima stella alpina, che rimane inaccessibile ed intoccabile dalla mano di qualsiasi uomo.
Si dice che solo un giovane dall’animo nobile e luminoso, sospinto da amore vero, coraggio e ardore, possa raggiungere questo delicato fiore, e coglierlo. E forse, colui che vi riuscisse, potrebbe incontrare la bellissima fanciulla, ed essere benedetto dalla felicità e dalla gioia del suo Amore.
A ricordo di questa storia, ancora oggi fra gli svizzeri il detto “cogliere Edelweiss” significa raggiungere il più alto e nobile onore che un uomo possa ottenere.

Secondo un’antica tradizione delle Alpi Graie, le stelle alpine coronavano le fronti lucenti delle Fate che, “ritte sui carri di fuoco, in uno splendore di luce”, partecipavano alla corsa selvaggia guidata dalla bellissima Dea Berchta, insieme agli spiritelli del suo gioioso corteo, a buffi animali volanti e ad altre entità fatate.
Un altro racconto popolare alpino, invece, narra che in cima ad una delle montagne più alte, fra il ghiaccio e la neve, abita da tempo immemore una Regina delle Nevi, “splendida come la dea Bercht”, circondata e protetta da folletti che impugnano sottili e trasparenti lance di cristallo.
Se un cacciatore di camosci, o un alpinista intraprendente, desidera di incontrare la bellissima Dama Bianca, lei lo guarda e gli sorride dolcemente… e il suo sorriso provoca nel coraggioso viaggiatore un ardore tale che egli, incurante dei pericoli, continua senza posa a salire e ad arrampicarsi verso la cima nevosa. Nel suo audace procedere egli “non ammira altro che il volto candido della Regina e la sua corona di gemme scintillanti”. Ma i folletti e gli spiriti del monte, che si crede siano gelosi della loro Dama, tentano in ogni modo di ostacolarlo, finché egli scivola e precipita nel vuoto.
Allora la Regina delle Nevi piange tristemente, e le sue lacrime scivolano dai ghiacciai, cadono oltre le rupi e quando toccano terra fioriscono in mille, bianche stelle alpine.
Si potrebbe pensare che la Dama Bianca pianga le sue lacrime ogni volta che un viaggiatore lascia la presa e precipita nei crepacci, ovvero ogni volta che egli cede agli ostacoli dei folletti dei ghiacciai – che altro non fanno se non mettere alla prova coloro che desiderano raggiungere la vetta – ed abbandona il suo viaggio.
Ma è pur vero che la dimora della bianca Regina è molto lontana, ed è facile cadere e precipitare nel vuoto più e più volte, poiché il cammino per raggiungerla è certamente il più difficile che si possa intraprendere. Ciò che conta, forse, è riprendere il viaggio ogni volta, senza lasciarsi abbattere dalle sfide dei folletti, ricordando che il sorriso della Dama non abbandona mai i suoi cercatori, e che lei è sempre lassù, ad aspettarli.
Una bellissima leggenda dedicata alla stella alpina, che rende ancora più avvinta la vicinanza fra le Fate e questo splendido fiore immacolato.
“Molti e molti secoli fa, quando quelle meravigliose montagne, chiamate oggi Dolomiti, emersero dalle acque che a quei tempi sommergevano buona parte del nostro globo, scesero sulla Terra delle Creature favolose fatte di fumo e di nebbia, di lembi di nuvole e di arcobaleno.
Erano gli Spiriti-delle-Cose-non-create che cominciarono a dar forma e vita agli alberi, alle erbe, ai fiori.
Gli alberi si moltiplicarono in poco tempo e ricoprirono molte zone sotto le pendici di quelle montagne. Erano abeti, larici, pini. Sulle colline nacquero le betulle e il sorbo, il frassino e il castagno. Le erbe formarono immense distese di prati lussureggianti, che discendevano dai ghiaioni fino alle piane in dolci declivi o arditi pendii. I fiori spuntarono: nei boschi c’erano i piccoli garofani cremisi e i ciclamini, nei prati anemoni gialli, clematidi viola, primule bianche e colchici lilla. E fiori spuntarono nelle paludi: erano giaggioli, gladioli, narcisi…
Altri ne nacquero sulle rive dei laghi e sugli specchi d’acqua, come le ninfee bianchissime e i nannufari gialli. Ancora spuntarono le aquilegie, le pulsatille, le peonie e i papaveri alpini. E moltissimi altri dai colori delicati e luminosi.
Sotto le ultime rocce ecco prosperare i primi “baranci” o pini mughi. Accanto sorsero gli arbusti dei rododendri color rosso, i raponzoli di roccia e le meravigliose genziane turchine. Cosi ogni cosa ebbe il “suo” fiore e le genti che vivevano in quelle vallate fra le montagne ne godettero e ringraziarono il cielo e la natura.
Ma in mezzo a tutte quelle meraviglie c’era qualcuno che soffriva in silenzio: era la Grande Montagna di Lavaredo, nuda e dirupata, scanalata da lunghi camini verticali nei quali colavano le gelide stille dei ghiacciai perenni, tagliata orizzontalmente dalle cenge e scarnita dalle acque in orridi strapiombi…
Solo le sue pareti altissime, spesso lisce e diritte come pale, riflettevano la luce del sole che alla sera le accarezzava con gli ultimi raggi infuocati. La Grande Montagna allora sembrava diventare trasparente come cristallo, diafana come un lembo di nuvola…
Ma quella straordinaria carezza del sole non poteva renderla felice. Essa ammirava dall’alto i sottostanti pianori verdi, rigogliosi e fioriti, le fitte abetaie, i laghetti verdazzuri…
Ognuna di queste “cose” possedeva un “fiore”! Perfino la neve ne aveva uno: un timido fiorellino bianco, a forma di campanellino chiamato Bucaneve, che all’inizio della primavera forava quella bianca coltre per emergere diritto e luminoso.
La Grande Montagna cominciò a lamentarsi: “A cosa serve essere cosi alta e imponente se la natura non mi vuole donare neanche un piccolo fiore? Le mie rocce sono aspre, nude, scarnite e tristi… Se la Terra non si vuole ricordare di me, io mi rivolgerò al cielo!”.
E nella notte profonda essa tentò di raggiungere la cupola del cielo per prendere almeno una stella che adornasse le sue rocce così cupe.
Invano!
Le stelle brillavano misteriosamente nel cielo turchino, troppo lontano, e la Montagna si sentiva sempre più triste e si lamentava con la voce del vento che vorticava attorno alle sue alte cime. Allora le slavine scendevano a valle, i macigni ruzzolavano dalle sue pareti scabre e tenebrose rimbalzando con cupo rumore di roccia in roccia, la tempesta scendeva in lunghi rivoli d'acqua in un diluvio di lacrime.
La udì finalmente il vento del Nord, che riportò i suoi lamenti alla più bella delle Fate: Samblàna, che viveva da tempo lontanissimo fra gli spalti delle Dolomiti.
La Fata comprese l’angoscia della Grande Montagna e una notte si levò nell’alto del cielo per cogliere una stellina lucente.
Presala delicatamente fra le sue dita, ella si diresse verso la più alta vetta delle Tre Cime di Lavaredo e la depose fra le rocce. Poi la toccò e la trasformò in un meraviglioso fiore stellato, dai petali vellutati, bianco come la neve, e la chiamò “stella alpina”.
Così la Grande Montagna ebbe anch’essa il suo magnifico fiore!
In seguito le “stelle alpine” si moltiplicarono; nacquero sulle Crode, sugli spalti rocciosi, sui picchi inviolati…
E diventarono i fiori più pregiati delle Dolomiti. ”

La stella alpina dai petali color della neve simboleggia la più alta e lucente nobiltà, la purezza dell’anima che si è resa inattaccabile da qualsiasi oscurità o bruttura, e si è elevata al di sopra di esse.
Avvicinarsi al suo candore, ovvero rendersi ad essa sempre più simili, significa camminare verso il raggiungimento della vetta, verso il termine del lungo viaggio di coloro che, dopo aver percorso le antiche vie invisibili che valicano le montagne, ritrovano uno stato d’essere limpido, luminoso e incorruttibile.
E si potrebbe pensare che questa graziosa piantina suggerisca, a chi la voglia ascoltare, di distaccarsi poco per volta dalle cose solamente materiali, arrampicandosi sempre più lungo le stradine ripide e scivolose che portano ai regni sottili, dove lei vive.

La nobile stella alpina, infine, è il fiore sacro alle Fate dei ghiacciai, che la colgono dal cielo notturno per donarla alla terra e far fiorir le montagne.
Nessuno può sfiorarla, a meno che non si sia disposti a conoscere la morte per poterne raccogliere un unico, morbido fiore bianco… come una liquida goccia d’acqua lattiginosa che dona tutta la felicità che un mortale possa sognare.
Chi la coglie, è degno dell’Amore di una Dea.



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