La birra, fra le genti del Nord Europa, era considerata una bevanda sacra per i guerrieri: come ogni liquido fermentato, essa ha subito un processo di purificazione e può trasmettere all'uomo le energie della terra nella loro totalità.
Secondo una leggenda ceca, il dio Radigost, dio dell'ospitalità, inventò la birra.
Ninkasi era la dea padrona della produzione della birra al tempo degli antichi Sumeri.
In alcune parti dell'Africa la preparazione e il consumo collettivo di birra sono importanti fattori di coesione sociale; per esempio i Nande del Congo la considerano il ritorno degli avi sotto forma di cibo; tra i Kaguru della Tanzania la birra assume un'importanza pari alla danza nei riti di passaggio.
La birra è una delle più diffuse e più antiche bevande alcoliche del mondo. Viene prodotta attraverso la fermentazione alcolica con ceppi di Saccharomyces cerevisiae o Saccharomyces carlsbergensis di zuccheri derivanti da fonti amidacee, la più usata delle quali è il malto d'orzo, ovvero l'orzo germinato ed essiccato, chiamato spesso semplicemente malto.
Vengono poi usati frumento, mais e riso. Altre piante meno utilizzate sono invece l'avena, il farro, la segale, la radice di manioca, il miglio e il sorgo in Africa, la patata in Brasile e l'agave in Messico.
Per produrre la birra, il malto viene immerso in acqua calda dove, grazie all'azione di alcuni enzimi presenti nella radichetta che si forma durante la germinazione, gli amidi presenti vengono convertiti in zuccheri fermentescibili. Questo mosto zuccheroso può essere aromatizzato con erbe aromatiche, frutta o più comunemente con il luppolo. Successivamente viene impiegato un lievito che dà inizio alla fermentazione e porta alla formazione di alcool, unitamente ad anidride carbonica, che viene per la maggior parte espulsa, ed altri prodotti di scarto derivanti dalla respirazione anaerobica dei lieviti.
In questo processo si utilizzano ingredienti, tradizioni e metodi produttivi diversi. Il tipo di lievito e il metodo di produzione possono essere usati per classificare le birre in ale, lager o birre a fermentazione spontanea.
La parola italiana birra deriva dal tedesco Bier, un prestito del XVI secolo. Il termine ha rimpiazzato l'antico cervogia, che indicava le birre fatte senza luppolo. . L'origine della stessa parola germanica (dall'antico alto tedesco bior) è incerta: si pensa che sia un prestito del VI secolo dal latino volgare biber "bibita, bevanda", dal verbo latino bibere, oppure derivi direttamente dal protogermanico beuwoz-, da beuwo- "orzo".
Poiché quasi tutti i cereali che contengono certi zuccheri possono andare incontro ad una fermentazione spontanea dovuta a lieviti nell'aria, è possibile che bevande simili alla birra siano state sviluppate indipendentemente in tutto il mondo poco dopo che una tribù o una cultura presero dimestichezza con i cereali. Test chimici condotti su brocche antiche in ceramica hanno rivelato che la birra è stata prodotta per la prima volta circa 7.000 anni fa sul territorio dell'attuale Iran, e che ciò è stata una delle prime opere note di ingegneria biologica in cui è stato impiegato il processo della fermentazione.
Si pensa che in Mesopotamia la traccia più antica di birra sia una tavoletta sumera di 6.000 anni fa che ritrae persone intente a bere una bevanda con cannucce di paglia da un recipiente comune. Una poesia sumera risalente a 3900 anni fa che onora Ninkasi, la divinità patrona della produzione della birra, contiene la più antica ricetta esistente di birra, descrivendo la produzione di birra a partire dall'orzo per mezzo del pane.
La birra divenne fondamentale per tutte le civiltà classiche dell'antico occidente che coltivavano cereali, compreso l'Egitto, a tal punto che nel 1868 James Death ha proposto la teoria nel suo libro The Beer of the Bible secondo cui la manna dal cielo che Dio ha dato agli Ebrei era una birra a base di pane, simile al porridge, chiamata wusa. L'antropologo moderno Alan Eames sostiene che la "birra è stata la forza trainante che ha spinto gruppi nomadi ad una vita sedentaria... È stato questo forte desiderio di avere materiale per produrre birra che ha portato alla coltivazione, ad insediamenti permanenti e all'agricoltura".
Le conoscenze sulla birra vennero tramandate ai Greci: al riguardo Platone avrebbe scritto che "Deve essere stato un uomo saggio a inventare la birra."
Nel 1995, è stato ritrovato, in una necropoli della cultura di Golasecca presso Pombia (NO), un bicchiere d'impasto databile intorno al 560 a.C., collocato ritualmente sopra le ceneri nell'urna, con resti di una probabile birra rossa di gradazione medio-alta. Le particolari condizioni di conservazione della tomba hanno consentito per la prima volta, attraverso le analisi condotte sul residuo anidro conservato nel bicchiere collocato nell'urna cineraria, di individuare con buona probabilità la natura di una bevanda presente come offerta funeraria all'interno di una tomba golasecchiana. L'identificazione della sostanza come birra con luppolo comporterebbe la retrodatazione della birra moderna all'età del ferro ad opera delle popolazioni Liguri.
La birra ebbe un'importanza notevole per i primi Romani, ma durante il periodo repubblicano il vino divenne la bevanda alcolica d'elezione; la birra cominciò ad essere considerata una bevanda adatta solamente ai barbari; Tacito scrisse della birra prodotta dalle popolazioni germaniche del tempo con toni dispregiativi. Anche i Traci sono noti per aver consumato birra fatta a partire dalla segale, sin dal V secolo a.C., come scrive Ellanico di Lesbo nelle sue opere.
La birra è stata una delle bibite più diffuse durante il Medioevo: essa veniva consumata giornalmente da tutte le classi sociali nei paesi del nord e dell'est Europa dove la coltivazione della vite era difficoltosa o impossibile. Nel sud Europa, dove invece il vino era la bevanda più diffusa, la birra veniva consumata principalmente dalle classi più basse: ciò accadeva poiché la purezza dell'acqua poteva essere garantita solo di rado, mentre le bevande alcoliche venivano bollite (e quindi pressoché sterilizzate) durante il processo di produzione. Nel nord Europa la birra forniva inoltre una quantità notevole di calorie giornaliere: in Inghilterra e nei Paesi Bassi, il consumo pro-capite era di 275-300 litri (60-66 galloni) all'anno durante il Basso medioevo, periodo in cui la birra veniva servita ad ogni pasto. Sebbene fosse probabilmente una delle bevande più scelte in Europa, la birra veniva etichettata dalla scienza come sostanza poco salubre, principalmente perché gli antichi greci e i medici arabi avevano condotto pochi esperimenti su di essa. Nel 1256 Aldobrandino da Siena descrisse la natura della birra nel modo seguente:
« Comunque con qualsiasi cosa venga prodotta, sia con l'avena, sia con l'orzo o con il frumento, fa male alla testa e allo stomaco, causa una cattiva respirazione e rovina i denti, riempie lo stomaco con fumi dannosi, e chiunque la beva insieme al vino diventa ubriaco rapidamente; ma ha la proprietà di facilitare la minzione e rende la pelle bianca e liscia. »
(Aldobrandino da Siena)
L'impiego del luppolo nella birra è stato descritto nell'822 da un abate carolingio; ancora, nel 1067 la badessa Ildegarda di Bingen scriveva:
« Se qualcuno intende fare della birra con l'avena, viene preparata con il luppolo. »
(Ildegarda di Bingen)
La pratica dell'aromatizzazione con il luppolo era nota almeno dal IX secolo, ma fu adottata solo gradualmente a causa di problemi nello stabilire la giusta proporzione dei vari ingredienti. Prima del luppolo veniva utilizzata la gruit, una miscela di varie spezie, che però non aveva le stesse proprietà conservanti del primo: la birra aromatizzata senza luppolo, infatti, veniva bevuta subito dopo la preparazione e non poteva essere esportata; l'unica alternativa era aumentare il contenuto di alcol, ma ciò risultava piuttosto costoso. La birra luppolata fu perfezionata nei comuni della Germania a partire dal XIII secolo: come risultato, poiché questa birra risultò più duratura, si cominciò ad esportarla su vasta scala, anche grazie all'impiego di botti di dimensioni standardizzate. I comuni tedeschi introdussero inoltre una nuova scala di gestione ed un livello di professionalità mai raggiunti prima. In precedenza la birra veniva prodotta da uno o due uomini, durante questo periodo invece la produzione venne gestita da otto-dieci persone: questo modello si diffuse in Olanda nel XIV secolo e in seguito nella Contea delle Fiandre, nel Ducato di Brabante e raggiunse l'Inghilterra alla fine del XV secolo.
Nel XIV secolo in Inghilterra furono introdotte delle leggi per imporre l'uso del luppolo, ed in seguito furono introdotte leggi simili in altri paesi. In Inghilterra queste leggi portarono a sollevazioni di contadini: questi sostenevano che il luppolo rovinasse il sapore della birra. Le rivolte furono comunque represse brutalmente.
In Europa, la birra rimase un'attività casalinga durante tutto il Medioevo. La fabbrica di birra più antica ancora attiva è il birrificio Weihenstephaner in Baviera gestito da un'abbazia, che ottenne i diritti per produrre birra dalla città limitrofa di Frisinga. A partire dal XIV e XV secolo, la produzione di birra passò gradualmente dall'essere un'attività familiare ad essere un'attività artigianale: i pub e i monasteri cominciarono a produrla in proprio per un consumo di massa.
Nell'Inghilterra del XV secolo, una birra senza luppolo era nota come ale, mentre l'uso di questo trasformava la bevanda in birra. La birra con il luppolo venne importata in Inghilterra dall'Olanda fin dal 1400 a Winchester, e il luppolo stesso cominciò ad essere piantato sull'isola a partire dal 1428. La popolarità del luppolo all'inizio era incerta, la Brewers Company of London arrivò a dichiarare "no hops, herbs, or other like thing be put into any ale or liquore wherof ale shall be made — but only liquor (water), malt, and yeast." ("né luppolo, né erba né altra sostanza deve essere messa nella ale o nella bevanda alcolica in cui deve essere preparata la ale; ma solo acqua, malto e lievito"). Tuttavia, a partire dal XVI secolo, il termine "ale" cominciò a riferirsi a qualsiasi birra forte, e tutte le ale e le birre vennero luppolate.
Nel 1516, Guglielmo IV, Duca di Baviera, approvò la Reinheitsgebot ("requisito di purezza", in tedesco), forse la più antica regolamentazione in uso fino al XX secolo. La Gebot prescriveva che gli ingredienti della birra fossero ristretti ad acqua, orzo e luppolo, con l'aggiunta del lievito dopo la sua scoperta da parte di Louis Pasteur nel 1857. La legge bavarese fu applicata in tutta la Germania subito dopo l'unificazione tedesca nell'Impero tedesco ad opera di Otto von Bismarck nel 1871, e da allora è stata aggiornata per riflettere le tendenze moderne nella produzione della birra. Ad oggi, la Gebot viene considerata un segno di purezza per le birre, sebbene ciò sia dibattuto.
La maggior parte delle birre fino a tempi relativamente recenti erano quelle oggi chiamate ale. Le lager furono prodotte per caso nel XVI secolo dopo che la birra venne conservata in grotte fresche per lunghi periodi di tempo; da allora hanno ampiamente distanziato le ale in termini di volume prodotto.
Sono state ritrovate tracce preistoriche che mostrano che la produzione di birra è iniziata intorno al 5.400 a.C. ad opera dei Sumeri (che erano insediati nell'Iraq del sud). Alcune recenti scoperte archeologiche mostrano anche che i paesani cinesi producevano bevande alcoliche già dal 7.000 a.C. Comunque, questi sforzi preistorici per produrre la birra erano su piccola scala (se non individuale) non certo su scala dell'odierna industria birraia. La prima birreria asiatica venne registrata nel 1855 (sebbene fosse stata fondata precedentemente) da Edward Dyer a Kasauli nelle Montagne Himalayane in India, sotto il nome di Dyer Breweries. L'azienda esiste ancora ed è chiamata Mohan Meakin Brewery, ed oggi comprende un grande gruppo di imprese.
A seguito di importanti miglioramenti nell'efficienza del motore a vapore nel 1765, l'industrializzazione della birra divenne realtà. Ulteriori innovazioni nel processo di produzione della birra si ebbero con l'introduzione del termometro nel 1760 e del densimetro nel 1770, strumenti che permisero ai birrai di aumentare l'efficienza.
Prima della fine del XVIII secolo, il malto veniva essiccato principalmente su fiamme provenienti dal legno, dalla carbonella o dalla paglia, e dopo il 1600 dal carbone coke.
In generale, nessuno di questi malti era abbastanza protetto dal fumo provocato dal processo di essiccamento, e di conseguenza le prime birre avevano un retrogusto "fumoso" nel loro sapore; le prove indicano che i venditori di malto e i produttori di birra cercarono costantemente di minimizzare la fumosità delle birre prodotte.
Il malto essiccato con legna aveva un sapore orribile, ma alcuni birrai di Londra una volta lo usavano perché era economico e dopo averlo fatto invecchiare in una birra molto luppolata il suo sapore "fumoso" si notava a malapena.
Tuttavia il malto brown essiccato con paglia preferito a Londra era il meno ricercato: questa è la ragione principale per cui veniva valutato più della varietà essiccata a legna. In un libro del 1830 circa, c'è un capitolo su cosa può andare male durante il maltaggio. Il malto fumoso veniva considerato un serio errore.
Il densimetro trasformò il modo di produrre la birra: prima della sua introduzione le birre erano fabbricate da un malto singolo: braunbier da malto tostato (brown), birre amber da malto amber, pale beer da malto pale. Con l'utilizzo del densimetro i birrai poterono calcolare la produzione a partire da malti differenti e osservarono che il malto pale, sebbene fosse più costoso, forniva più materiale fermentabile rispetto a malti più economici: ad esempio il malto brown (usato per la birra Porter) fruttava 54 libbre (circa 24,5 kg) di estratto ogni quarto, mentre il malto pale forniva 80 libbre (circa 36 kg). Una volta venuti a conoscenza di ciò i produttori di birra cominciarono ad usare prevalentemente malto pale per tutte le birre con l'aggiunta di piccole quantità di malto molto colorato per raggiungere il colore corretto per le birre più scure.
L'invenzione del tostacaffè nel 1817 ad opera di Daniel Wheeler permise la creazione di malti molto scuri e tostati, contribuendo al sapore delle birre porter e stout: il suo sviluppo venne stimolato da una legge britannica del 1816 che proibiva l'uso per la birra di qualsiasi ingrediente che non fosse malto e luppolo. I fabbricanti di porter, utilizzando un malto macinato prevalentemente pale ebbero urgente bisogno di un colorante legale: il malto prodotto dalla macchina di Wheeler fu la soluzione.
La scoperta di Louis Pasteur del ruolo del lievito nella fermentazione nel 1857 fornì ai produttori di birra metodi per prevenire l'inacidimento della birra ad opera di sgraditi microrganismi.
Prima del Proibizionismo esistevano migliaia di fabbriche di birra negli Stati Uniti, la gran parte delle quali produceva birre più pesanti di stampo europeo. A partire dal 1920, molte di queste fabbriche fallirono, nonostante alcune cominciarono a produrre bevande analcoliche o ad intraprendere altre attività. Le birre di contrabbando vennero spesso annacquate per aumentare i profitti, dando così inizio al trend, ancora oggi in atto, che vuole che gli Statunitensi preferiscano le birre più leggere. In seguito il consolidamento delle fabbriche di birra e l'applicazione di alcuni standard per il controllo di qualità industriale condussero alla produzione e alla distribuzione di massa di imponenti quantità di lager leggere. Le fabbriche di birra più piccole, comprese le microbirrerie, i produttori artigianali e gli import, servirono il segmento del mercato americano a cui piaceva le birre più pesanti.
In molte nazioni i birrifici che iniziarono la propria attività su scala domestica guidate da immigrati tedeschi, o in genere europei, si trasformarono in grandi compagnie, passando spesso di mano con più attenzione ai profitti che alle tradizioni di qualità, dando così luogo ad una degradazione del prodotto finale. Ad ogni modo spesso queste compagnie hanno provato a continuare sul solco delle tradizioni di eccellenza mentre crescevano enormemente.
Nel 1953 il neozelandese Morton W. Coutts sviluppò la tecnica della fermentazione continua. Coutts brevettò il suo processo che prevedeva che la birra scorresse in taniche sigillate, fermentando sotto pressione, e non venendo mai a contatto con l'atmosfera, anche quando veniva imbottigliata: questo procedimento viene usato dalla Guinness.
Oggi l'industria birraria è un business di proporzioni globali, composto da alcune industrie multinazionali e da molte migliaia di produttori più piccoli che vanno dai brewpub ai birrifici regionali. I progressi nella refrigerazione, nella spedizione internazionale e transcontinentale, nella distribuzione e nel commercio hanno dato vita ad un mercato internazionale in cui il consumatore può scegliere letteralmente tra centinaia di vari tipi di birra locale, regionale, nazionale ed estera.
Per tutto il medioevo e sino all'inizio dell'era moderna propriamente detta, in Italia si era prodotta birra esclusivamente con metodi artigianali, per il raro consumo dei pochi estimatori. Si trattava di produzioni discontinue, legate a fattori strettamente temporanei e locali. La birra veniva vissuta, dal grande pubblico, come una bevanda tipica delle genti del nord, da sempre invasori dell'italico suolo e, come tali, da sempre nemici. Quella loro strana bibita, che nulla aveva a che vedere con il più noto ed apprezzato vino, non poteva quindi non essere guardata come minimo con sospetto. La birra si importava per lo più dall'Austria, retaggio della dominazione borbonica che influenza soprattutto il nord, ed era legata ad un uso elitario, mentre i consumi popolari confluivano essenzialmente sul vino, anche per ovvi motivi di minor costo e di più facile reperimento.
Dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso perché finalmente anche in Italia sorgano le prime vere e proprie fabbriche, organizzate con moderni criteri di produzione industriale. Sono ovviamente opera, per lo più, di intraprendenti industriali d'oltralpe, i quali vedono in Italia prospettive commerciali di sicuro interesse, ai quali presto fanno seguito anche commercianti italiani, soprattutto fabbricanti di ghiaccio che vedono nella birra il naturale complemento della loro attività, che si esplicava esclusivamente in estate.
In pochi lustri assistiamo ad un continuo frenetico fiorire di fabbriche di ogni tipo e dimensione, sino ad arrivare, nel 1890, a ben 140 unità produttive, per un totale di 161.000 hl, ai quali vanno sommate le importazioni che raggiungono, in quell'anno, 50.738 hl, pari a circa il 25% del consumo nazionale.
Nel breve volgere di un ventennio, diminuiscono di nove unità il numero delle fabbriche, ma molte di queste crescono di dimensione e capacità imprenditoriale, in rapporto alla sempre maggiore espansione dei consumi, grazie anche al più accessibile costo della bevanda che può così raggiungere le fasce popolari. La produzione quadruplica e, nel 1910, arriva alla considerevole cifra di ben 598.315 hl. Anche le importazioni salgono, seppure non nella stessa percentuale, toccando 85.934 hl, pari al 13% del consumo nazionale.
Giungiamo così alla Grande Guerra, e, per tutto il periodo bellico, cessa pressoché la produzione della bionda bevanda, essenzialmente per il fatto che la maggior parte del malto occorrente per la fabbricazione doveva essere reperito all'estero, essendo ancora insufficiente, oltre che di scarsa qualità, il malto di provenienza nazionale.
Non birra, ma vino bevevano i baldi fanti italiani quando si lanciavano all'assalto dell'austro-ungarico esercito, il quale, a sua volta, non vino, ma bionda birra beveva! e le rispettive bevande entravano a far parte delle rispettive invettive!
Con il finire della guerra ed il ritorno alla normalità, assistiamo ad una vera e propria esplosione di consumi. Nel 1920 le fabbriche italiane sono soltanto 58, ma la produzione arriva alla ragguardevole cifra di 1.157.024 hl, ai quali si aggiungono soltanto alcune centinaia di ettolitri di birra importata. Crescono e si consolidano quelle aziende che, nel volgere di alcuni decenni, diventeranno le grandi realtà industriali del settore, come la Wuhrer di Brescia, la Dreher di Trieste, la Paskowski di Firenze e Roma, le Birrerie Meridionali di Napoli di proprietà dalla famiglia Peroni, la Pedavena di Feltre, la Poretti di Iduno Olona, la Moretti di Udine, la Wunster di Bergamo, alle quali fanno corollario una pletora di medio-piccole birrerie, come la Menabrea di Biella, la Icnusa di Cagliari, la Cagnacci di Ancona, la Birra d'Abruzzo di Castel di Sangro, la Dell'Orso & Sanvico di Perugia, la S.Giusto di Macerata, la Ghione & Pogliani di Borgomanero, la Bosio & Caratsch di Torino, la F.lli Di Giacomo di Livorno, la Brennero di Milano, la Raffo di Taranto, la Forst di Merano, e poi ancora la Leone, la Sempione, la Cervisia, la Metzeger, ecc.
I consumi salgono ancora e, nel 1925, la produzione raggiunge 1.569.000 hl. Cresce anche l'importazione, fermandosi però a poco più di 30.000 hl. I consumi pro-capite toccano i tre litri e mezzo - molto distanti dai consumi del vino che superano invece i 150 litri - e fanno ben sperare per il futuro, vista la rapidità con la quale aumentano di anno in anno.
A questo punto si scatena la reazione dei vinai che, di quel passo, temono di dover affrontare a breve una crisi del loro settore. Riescono quindi a far approvare dal Governo leggi protezionistiche a tutela dei loro interessi. Così, nel 1927, viene varata la legge Marescalchi la quale, con l'apparente scopo di favorire l'agricoltura, ma con la recondita speranza di peggiorare la qualità della birra, impone ai birrai l'immissione di un 15% di riso. Le tecnologie dell'epoca non consentivano infatti di sfruttare appieno tutte le caratteristiche positive del riso, e la qualità, anche se in minima parte, ne risentiva. Contemporaneamente si inaspriscono le tasse con l'aggiunta di una imposta straordinaria di ben 40 lire per hl. Ma non basta. La legge prevedeva inoltre una apposita licenza di vendita di "bassa gradazione" e ne limita lo smercio al dettaglio esclusivamente nei bar, trattorie e birrerie. I "vini e oli", categoria di esercizi molto diffusa all'epoca, non possono vendere al minuto, ma solo all'ingrosso a casse intere. A rincarare la dose, in molti Comuni il "dazio" viene regolato con l'applicazione di fascette sul collo di ciascuna bottiglia, con immaginabili intralci e perdite di tempo che fanno cadere l'interesse dei commercianti verso il prodotto.
L'effetto è immediato, ed i consumi scendono vorticosamente, non tanto per il livello qualitativo, che rimane comunque accettabile, quanto per l'inevitabile levitazione dei prezzi che pongono il prodotto fuori della portata delle masse popolari.
Quindi nel 1930 la produzione crolla a 672.325 hl mentre l'importazione rimane ancora attestata sui 30.000. I consumi pro-capite scendono a 1,64 litri annui, con grande soddisfazione di chi aveva voluto quella miope legge. Molte fabbriche chiudono o falliscono e le restanti 45 soffrono grandi difficoltà e sono costrette a licenziare il personale per poter sopravvivere in qualche modo. Non resta loro altro da fare che concentrare le produzioni. Attraverso una azione concordata fra i più lungimiranti ed intraprendenti industriali, si procede alla ripartizione degli spazi di mercato, rilevando, nel contempo, le aziende in crisi e riducendo ulteriormente il numero dei centri di produzione che sono ora tutti in mano alle più grandi e più solide famiglie birrarie.
Inevitabilmente, dopo un breve periodo di tregua, si scatena una feroce concorrenza della quale approfittano i commercianti al dettaglio con richieste sempre più esose di sconti, omaggi e premi, tanto che le birrerie si vedono costrette a consorziarsi in un patto di rispetto - 1933 - che regola le comuni politiche di sconti e premi, e le cose migliorano, se non altro perché smettono di dissanguarsi.
La ripresa dei consumi è comunque lentissima e, nel 1940, la produzione arriva appena a 814.638 hl, mentre crolla l'importazione, tutelata da dazi protettivi imposti dal Governo per dare un contentino ai birrai. Il pro-capite, anche per effetto della crescita della popolazione, scende comunque a 1,60 litri annui.
Di nuovo la guerra, e la produzione rallenta progressivamente, fintanto che tutte le fabbriche, negli ultimi anni del conflitto, sono costrette a fermarsi per mancanza di materia prima. Cessate le ostilità, gli industriali del settore birrario si leccano le ferite delle loro aziende, uscite dal periodo bellico più o meno danneggiate, e riprendono faticosamente l'attività. Dobbiamo comunque arrivare al 1950 per risalire alle quote produttive del 1925, raggiungendo 1.548.800 hl ai quali si aggiungono circa 15.000 hl di birra importata, ed il pro-capite arriva a 3,28 litri annui.
Sino al 1959 i consumi oscillano con alterne vicende, dovute esclusivamente all'andamento climatico della stagione estiva, da 1.500.000 a 2.000.000 di hl, con l'importazione che non supera il 2% dei consumi totali ed il pro-capite rimane contenuto fra i 3 ed i 4 litri anno. Va detto comunque che sino a quegli anni la birra veniva bevuta in un arco di tempo che andava da marzo a settembre; rientrava, nella mentalità corrente, fra le comuni bevande dissetanti, come le bibite gassate, e come tale veniva consumata esclusivamente al banco. Era addirittura opinione popolare che la preparazione avvenisse con chissà quali misteriosi sciroppi, né più né meno come una aranciata od una gassosa. Nei mesi invernali quindi le fabbriche chiudevano, dedicandosi a lavori di manutenzione e riordino delle strutture.
Dal 1960 finalmente la birra accede nel canale alimentare, dal quale può raggiungere facilmente le famiglie, e così, nel volgere di un decennio, la produzione arriva a toccare i sei milioni di ettolitri, con un pro-capite che supera undici litri e mezzo. Sino al 1975 la birra continua la sua avanzata trionfante sino ad arrivare ad otto milioni di ettolitri di produzione, con oltre 570.000 hl di importazione, ed il pro-capite si attesta intorno ai sedici litri. Finalmente i consumatori hanno compreso lo spirito della bevanda, nobilitandola nella sua giusta dimensione, e tutti ormai sanno che si ricava dal malto e che non ha nulla a che vedere con le bibite gassate. Gli industriali tirano un sospiro di sollievo: euforicamente ottimisti, già fanno previsioni a lunga scadenza ritenendo che, di quel passo, negli anni novanta sarà possibile superare i 40 litri, posizionandosi su soddisfacenti medie europee, e c'è già chi pensa a potenziare le proprie strutture produttive.
Ma la congiuntura è alle porte, e quando scoppia virulenta nel 1975, colpisce inevitabilmente anche il settore birrario nazionale, che perde un drammatico 19,5%, scendendo a 6.465.000 hl, tornando alle stesse quote di cinque anni prima, mentre, stranamente, l'importazione cresce del 40%, arrivando a toccare i 652.000 hl.
Come se non bastasse, il Governo decide di aumentare del 50% l'imposta di fabbricazione, con un consistente balzo in avanti dei prezzi al pubblico, la qual cosa, in una economia di recessione, rallenta considerevolmente la ripresa, che sarà lenta e faticosa, ed occorreranno altri cinque anno per risalire ai sedici litri di consumo pro-capite.
Dagli anni ottanta in poi e sino ad oggi i consumi crescono costantemente di anno in anno; di poco per volta, ma crescono sino ad arrivare ai 27 litri del 1995. Cresce la produzione interna, ma cresce soprattutto l'importazione che passa dai 652.000 hl del 1975 ai 3.154.000 hl del 1994, mentre la produzione nazionale, nello stesso anno, arriva a poco più di dodici milioni.
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